Carcere e salute

 

Carcere e salute

di Laura Baccaro (Fondazione Lanza - Padova)

 

Premessa

Il diritto alla salute

La salute e la norma

La salute in carcere

Problematiche di salute psichica

Aree problematiche della tutela della salute

Inchiesta realizzata nella C.R. di Padova

Conclusioni

Verso una carta etica per il carcere

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Introduzione

di Ivano Spano, Università di Padova

 

Che la situazione delle carceri in Italia viva, da tempo, in uno stato oggettivo di significativa e drammatica precarietà, prossima a un punto di non ritorno, lo testimoniano il numero dei detenuti più del doppio di quelli ospitabili, con una forte presenza di soggetti in attesa di giudizio, il deterioramento delle condizioni di vita che finisce per aumentare esponenzialmente lo stato di bisogno, la diversificazione della popolazione carceraria con quote crescenti di popolazione di stranieri, e la presenza di soggetti tossicodipendenti, elementi che peggiorano, sul versante del trattamento, le dinamiche relazionali interne inducendo un irrigidimento delle misure di controllo.

L’equazione che prende corpo e che quando la vita in carcere continua a deteriorarsi trovano maggior spazio logiche e pratiche mafiose, crescono i rischi per la salute (già di per se alti), si diffondono episodi di autolesionismo, di violenza, i suicidi, sostanze psicoattive circolano facilmente e pratiche come il lavoro, istruzione e attività culturali diminuiscono di peso specifico, facendo perdere ulteriormente di legittimità sociale alla funzione del carcere.

Tutto questo mantiene viva e risottolinea la questione per cui nella forma della detenzione vive un contrasto particolarmente profondo e peculiare con i principi stessi dello "stato di diritto" laddove si determina un impedimento totale, comunque, una drastica limitazione della possibilità di estrinsecazione di una gamma ampia di possibilità connesse all’esistenza individuale.

Sotto questo profilo l’assunto secondo cui la reclusione dovrebbe comportare soltanto la privazione della libertà costituisce una affermazione fuorviante sia dal punto di vista teorico e, ancor più, pratico venendosi a perdere una sfera non determinabile e delimitabile di diritti personali (L. Eusebi).

Rispetto a questo rimane tuttora centrale la prospettiva avanzata da Cesare Beccaria per cui "Non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finche la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile, nelle date circostanze di una nazione, per prevenirlo".

L’obiettivo esplicito, di natura sia teorica che pratica, è di far si che l’intero ordinamento converga intorno alla possibilità concreta di minimizzare, ex ante, gli spazi disponibili per una commissione vantaggiosa di fatti illeciti.

Da quanto detto si possono evidenziare due quesiti essenziali:

 

quale è lo spazio del diritto nel carcere?

quale è lo spazio del carcere nel diritto?

In questa sede non si vuole entrare nel merito della risposta al secondo quesito anche se se ne sono evidenziate, in parte, le premesse, avendo, comunque, consapevolezza che i due quesiti non sono separabili se non per una questione euristica.

Resta, comunque, doveroso annunciare che, di fronte alla complessità della questione, la posizione che si auspica è quella che "apre la prospettiva del dissolversi del diritto penale, quantomeno come strumento afflittivo" (C. Mosconi).

È chiaro che, almeno, le dinamiche indotte di chiusura del carcere verso l’interno, tipiche del carcere di isolamento e di custodia, devono rompersi per permettere e ridar senso a quelle dinamiche di proiezione e di aggregazione verso l’esterno, di "connessione con il sociale", già delineate dalla legge di riforma carceraria.

Ciò, rimanda a una visione del trattamento non più inteso al reinserimento del recluso nella società, non più come articolazione del carcere verso la società, quanto come dilatazione della società in relazione alla costante compressione del carcere.

Trattamento, allora, come esperienza sociale aperta piuttosto che come rieducazione normalizzante.

L’idea risocializzativa, afferma Luciano Eusebi, costituisce, innanzitutto, l’unico strumento teorico finora elaborato per dare rilievo alla sfera dei diritti di chi subisce una condannaLa risocializzazione non è un fine alternativo agli altri scopi per cui sussiste l’ordinamento penale, quanto un criterio di articolazione dell’intervento punitivo. Non si punisce per risocializzare

quanto, se si punisce, si deve punire in modo risocializzante, L’orientamento risocializzativo, rispondendo a una esigenza di rispetto della dignità umana, riflette una precisa opzione per cui l’efficacia dell’ordinamento penale non risponde solo al criterio di esercizio del potere coercitivo dello Stato ma all’ambizione che il senso delle norme e della loro dimensione precettiva possa essere liberamente fatto proprio da tutti i cittadini, anche da parte di coloro che dette norme hanno infranto, Ciò significa far si che l’impatto con il sistema punitivo non si debba configurare mai come impedimento-sbarramento di ogni prospettiva esistenziale dell’individuo considerato come essere sociale, ma come occasione percorribile al fine del recupero di un rapporto non conflittuale con la società.

L’orientamento alla risocializzazione non implica una pena, un trattamento che terapeuticamente risocializzi, quanto che l’intervento punitivo comporti il minor possibile sacrificio dei diritti essenziali dell’individuo e, dall’altra, assuma evidenze significative sotto il profilo della produzione di valori di solidarietà sociale, di condivisione, di ricostituzione di legami sociali.

Tutto ciò allude alla rottura dell’impermeabilità ed extraterritorialità del carcere. La sperimentazione di forme aperte di carcere contribuisce a ricondurre il diritto entro il suo alveo naturale, a rimettere in primo piano i soggetti, le loro storie e realtà, anziché le fattispecie penali, a privilegiare la qualità, ossia le emergenze di nuove caratteristiche del soggetto, rispetto alla quantità indifferenziata che omologa gli individui nell’unicità e irreversibilità della pena.

Solo la socializzazione di dinamiche istituzionali aperte ha come presupposto e promuove la valorizzazione di quelle libertà che sono in grado, a un tempo, di permettere trasformazioni individuali e divenire sociale, il libro "Carcere e salute" di Laura Baccaro sembra essere la testimonianza fedele delle riflessioni fin qui fatte.

È, innanzi tutto, un libro raro come sono rare le analisi e le ricerche sulla condizione carceraria, in generale, e sui diritti dei detenuti, in particolare. Quando usci, per i tipi di Einaudi, "Il carcere in Italia" di Giulio Salerno è come se si fosse aperto per la prima volta il carcere all’esterno, alla società, prima incrinatura di quel meccanismo segregativo magistralmente analizzato da Michael Foucault in "Sorvegliare e punire", "Carcere e salute", raccogliendo le espressioni più qualificate di una letteratura impegnata a "svelare", "rivelare" la condizione del soggetto carcerato, dà sistematicità e completezza alla riflessione sul "diritto alla salute" in carcere, concorrendo a far capire il drammatico paradosso tra negazione e limitazione della libertà e affermazione dei diritti umani elementari, a partire dalla promozione del benessere della persona.

Baccaro riferisce "È il dolore del se relazionale che con la reclusione viene amputato e sottoposto a torsione... il recluso attraverso i suoi sintomi dice: ‘Sono un essere umano, una presenza umana, e come tale vorrei essere considerato.

E, a ben vedere, quella catena di sintomi è la modalità creativa che il recluso, al momento, intravede: il suo modo di esternare la sofferenza, di comunicarla, Una cura estenuante, come una danza senza fine che il farmaco aumenta anziché lenire, Mai, come in questo caso, è più vero il paradosso secondo cui: la malattia è la cura", Il "principio di equivalenza delle cure" sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità", come inderogabile necessità di garantire al detenuto le stesse cure, mediche e psico-sociali, assicurate a tutti gli altri membri della comunità, non esaurisce il principio per cui "mai le ragioni della sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita", Il lavoro di Laura Baccaro dà ragione ad Amartya Sen quando distingue "l’equità della salute" dalla semplice "equità della cura" perché la prima non si riferisce alla semplice disponibilità di servizi sanitari, quanto alla possibilità che, anche grazie agli stessi, possa essere raggiunto, da parte dell’utente, un effettivo stato di salute rispondente ai suoi reali bisogni, La salute, quindi, come costruzione sociale, capacità del soggetto di perseguire la sua concezione di salute, di mantenere la propria capacità progettuale nelle scelte esistenziali, Ma, la salute in carcere non si costruisce e, cosi, nessuna capacità progettuale per il detenuto.

Non si ha visibilità se non raramente e con difficoltà. La malattia è, forse, l’unico evidenziatore che si iscrive sul soggetto, sul suo corpo e che può parlare il linguaggio dell’evidenza, anch’essa, però, non sempre colta e osservata. "I detenuti si sentono mutilati, nel senso che sono costretti all’immobilità, a subire la lentezza burocratica, una paralisi che limita l’azione personale".

Da qui, quel drammatico paradosso che, afferma Baccaro, vuole che le reazioni di molti detenuti si muovano lungo le direttrici imposte dalla sofferenza legale: da una parte una implosione nervosa (esaurimenti, insonnia, nevrastenia, autolesionismo…), dall’altra un’esplosione di rabbia, di aggressività, di ribellione.

Dal libro di Laura Baccaro si levano anche le voci di oltre 400 detenuti della Casa di Reclusione di Padova coinvolti in una ricerca sulle condizioni di salute dai detenuti redattori della Rivista "Ristretti Orizzonti" che da 4 anni si pubblica bimestralmente all’interno della Casa di reclusione stessa.

I dati sono puntuali, sconcertanti, agghiaccianti. Sembrano inverosimili tanto sono veri. Sono evidenze di ferite, di bisogni elementari quasi sempre disattesi, di esigenze di visibilità, di maggior visibilità. Qui, il diritto all’espressione e alla realizzazione della propria umanità sembrano annichiliti nella oggettivazione dei corpi, degli affetti, dei vissuti, dei sentimenti che si agitano disperatamente per uscire da quella insignificanza entro cui l’istituzione li confina. Qui, della reificazione si celebra l’aspetto più profondo, più drammatico che fece dire a Marx "ogni reificazione è sempre un dimenticare".

Ancora una volta è il soggetto umano, quello più sofferente, la sua storia, la sua realtà a essere dimenticate, sacrificate a quegli stessi valori violati per cui la società ha inflitto la pena e che presume siano anche il prezzo del riscatto della sua libertà.

 

 

 

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