La salute e la norma

 

La salute e la norma

 

Legittimità della pena e malattia

 

Nello scenario carcerario diventa fondamentale porsi la domanda se nei casi di malattia grave la pena debba applicarsi con modalità esecutive diverse da quelle previste. A tal proposito il fenomeno Aids ha posto al sistema carcerario una serie di problemi riguardanti la questione della definizione. dei limiti giuridici entro i quali il carcere possa ancora essere considerato uno strumento di pena compatibile con uno stato democratico di diritto.

Magliona e Sarzotti riflettendo sulla tutela dei diritti individuali e lo stato di detenzione sottolineano, in particolare, come la situazione del condannato affetto dal virus dell’AIDS ha fatto esplodere contraddizioni profonde tra come la nostra cultura può legittimare teoreticamente l’esecuzione della pena e il funzionamento di quell’apparato di sapere-potere che è l’istituzione carceraria. La gestione di questo fenomeno "si esprime negli operatori carcerari con un insieme di atteggiamenti, rappresentazioni e stereotipi [...] riassumibili nel continuo contrasto tra codice paterno (custodiale) e codice materno (trattamentale)". Tali contraddizioni sono state affrontate dai sistemi penitenziari nazionali cercando di rimuovere tali nodi, senza peraltro riuscire a conciliare l’aspetto etico-riabilitativo della pena con l’approccio correzionalista del carcere".

Nella prospettiva di una teoria della pena retributiva, regolata e quantificata nelle modalità afflittive secondo i principi di proporzionalità e di determinazione certa della pena: la pena comminata al malato deve essere proporzionale alle sue aspettative di vita, ma le modalità di esecuzione della pena stessa non devono essere tali da colpire il malato più gravemente solo a causa del suo stato d’infermità.

Proprio dal concetto di retribuzione si tende a vedere nella rivendicazione dei diritti del malato-detenuto un modo per riconfermare una pena nei limiti stabiliti dal diritto, cioè il detenuto è da intendersi come soggetto giuridico a tutti gli effetti che mantiene tutti i diritti compatibili allo stato di detenzione, e "ciò deriva non già da una paternalistica concessione umanitaria da parte dell’istituzione punitiva oda una malintesa compassione nei confronti del detenuto che soffre, ma dallo stesso principio retributivo, secondo il quale la pena deve essere esattamente quantificata e predeterminata nei suoi aspetti afflittivi". Da un punto di vista empirico, il fatto che normative internazionali abbiano sentito la necessità di confermare principi di uguaglianza dei diritti dei soggetti detenuti malati sottolinea come le pratiche detentive siano alquanto distanti da un modello giuridico di esercizio della pena. Per quanto riguarda la gestione del fenomeno negli istituti penitenziari sembrano sussistere due modelli:

modello a gestione autoritaria: prescrive obbligatorietà del test sierologico, isolamento dei detenuti sieropositivi, restrizioni nell’accesso al lavoro interno e ad altre attività comuni, rifiuto di consentire in carcere la distribuzione di preservativi e di materiale disinfettante per le siringhe;

modello di gestione liberale: richiede il consenso informato al test, l’adozione di misure di prevenzione, di sostegno psico-sociale ai detenuti malati e di strategie di riduzione del danno.

Magliona e Sarzotti scrivono che, sia nel modello di gestione autoritario sia attuando l’espulsione dal circuito penitenziario dei detenuti affetti dal virus HIV, sembra prevalere una logica autoreferenziale dell’istituzione carceraria, cioè tesa a riconfermare la propria stabilità interna. Il detenuto è visto come un problema scomodo da gestire e non come un soggetto giuridico responsabile delle proprie azioni e dotato di una autonoma capacità di scelta.

È da sottolineare che questa distinzione riguardante la gestione del fenomeno non si riscontra nel diritto penitenziario o in testi legislativi ma è una ricostruzione, da parte dei ricercatori, di modalità di gestione proprie di ogni istituto, basate sul regolamento interno, di un problema, per lo più visto come emergenza.

In ciò ha trovato espressione, per l’ennesima volta, "quell’autonomia e quella costitutiva eterogeneità del carcerario rispetto al discorso giuridico dello stato di diritto, che già Foucault denunciava e che rappresenta certamente uno degli aspetti più inquietanti e persistenti del modello punitivo delle nostre società".

Si potrebbe affermare con gli autori, in modo forse un poco paradossale, che "ribadire, da un lato, la tutela dei diritti individuali del detenuto e, dall’altro, il dovere sociale di punire equamente tutti i consociati, come soggetti giuridici responsabili delle proprie azioni, sia il modo più idoneo non solo di sostenere le ragioni dello stato di diritto, ma anche di predisporre politiche di contenimento della diffusione dell’Aids efficaci, in quanto fondate sulla responsabilizzazione morale e sociale degli individui colpiti dal virus HIV".

 

La tutela della salute e le norme di esecuzione della pena in caso di malattia del detenuto

 

La pena detentiva, come afflizione e privazione, deve tenere conto dello stato di malattia del soggetto, a meno di perdere il carattere di umanità che la Costituzione (art. 27) stabilisce per la sanzione penale. Il problema di giustificare la pena in presenza di uno stato di malattia necessiterebbe di stabilire per quali patologie è inutile continuare lo stato detentivo in carcere. Ma nella realtà il criterio oggettivo - diagnostico della gravità della malattia viene relativizzato in funzione dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario intramurale.

Diventa complesso valutare lo stato di gravità della malattia, che deve essere bilanciato tra la diagnosi medica e la possibilità, per il detenuto, di poter usufruire di prestazioni esterne ritenute più idonee rispetto quelle offerte dalla struttura carceraria. A tal proposito si ricorda che la Corte costituzionale nella sentenza 114/79 ha chiarito che per "grave infermità fisica" rilevante ai fini della applicazione dell’art. 147, c.p., che prevede il "rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena" per "chi si trova in condizioni di grave infermità fisica", deve intendersi quella "non suscettibile di guarigione mediante le cure o l’assistenza medica disponibile in luogo di esecuzione".

Tuttavia alcune sentenze hanno vincolato la concessione del differimento alla possibilità della regressione della malattia (quale effetto di trattamenti terapeutici praticati in stato di libertà), quindi contraddicendo la prima interpretazione.

In altre sentenze ancora si trovano letture della legge improntate a una maggiore umanità: al rischio di morte, quale elemento per determinare l’effettiva gravità delle condizioni fisiche, si aggiunge quello che la malattia "cagioni altre rilevanti conseguenze dannose". Ma l’interpretazione di maggior favore si trova in questa pronuncia: "La guaribilità o reversibilità della malattia non sono requisiti richiesti dalla normativa vigente in tema di differimento dell’esecuzione della pena, per la cui concessione è sufficiente che l’infermità sia di tale rilevanza da far apparire l’espiazione in contrasto con il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione".

La diagnosi del medico dell’istituto diventa fondamentale in quanto si basa sulla effettiva valutazione della possibilità di cura intramuraria, e solo dopo avere verificato questa condizione si può pensare di ripristinare, in tutto o in parte, lo stato di libertà del soggetto. L’art. 17 dell’Ordinamento Penitenziario è uno dei parametri di riferimento nella decisione del rinvio facoltativo, mentre l’incompatibilità si rapporta al livello di prestazioni offerte dalla struttura penitenziaria. Solo in situazioni estreme, quali le fasi terminali il problema di adeguatezza non si pone. Esistono istituti giuridici che per ragioni umanitarie permettono la liberazione anticipata del detenuto qualora sia imminente la sua morte, "in modo da poter morire in condizioni di dignità e libertà".

Per evitare di creare qualsiasi automatismo dei provvedimenti alternativi alla detenzione, con relativi problemi di sicurezza, lo stato di salute "particolarmente grave" non è identificato da nessuna categoria, non esistono criteri e descrizioni delle patologie che potrebbero essere ritenute, in qualche modo, incompatibili con la vita in carcere. Una sentenza della Corte di Cassazione rileva che la condizione di "particolare gravità" comprende "tutti gli stati morbosi che siano idonei, per la loro serietà e imponenza, a pregiudicare notevolmente l’integrità fisica e psichica del detenuto".

Comunque lo stato di salute incide sulle diverse condizioni detentive: differimento o esecuzione della pena, custodia cautelare, detenzione domiciliare, sospensione dell’esecuzione della pena, applicazione di sanzioni sostitutive, Si può riassumere che la pena non è scontata in carcere se la gravità delle condizioni di salute è tale da:

annullare l’implicita pericolosità sociale presunta dalla legge;

non presentare i caratteri dell’incompatibilità soggettiva;

deve presentare un quadro clinico inconciliabile con i trattamenti possibili in carcere o nei centri clinici associati, con obiettiva gravità legata all’insuccesso terapeutico in stato detentivo;

essere in rapporto alle esigenze cautelari, cioè se queste sono importanti tanto maggiore deve essere la gravità del quadro clinico perché siano concessi benefici.

Per quanto riguarda l’esecuzione della pena possiamo affermare che per legittimare il rinvio per grave infermità devono ricorrere due requisiti autonomi:

gravità oggettiva della malattia, con serio pericolo per la vita del condannato o altre probabili conseguenze pericolose;

possibilità di fruire in stato di libertà di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci rispetto a quelli che possono essere prestati in stato detentivo.

È da sottolineare che il detenuto propone al Tribunale di Sorveglianza istanza di rinvio, ma è il giudice che decide e bilancia le esigenza della pena con i diritti del malato. Il giudice deve verificare "non solo l’entità della patologia e le conseguenze che da essa possono derivare, ma anche se tale malattia sia curabile nella struttura sanitaria dell’istituto di reclusione o in altro luogo esterno di cura" e può disporre una perizia medico-legale per valutare la compatibilità o meno con il regime carcerario.

D’Ascola rileva che l’art. 299, comma 4, c.p.p., impone al giudice di disporre perizia "tutte le volte in cui l’imputato abbia richiesto la sostituzione ovvero la revoca della misura cautelare ad egli applicata adducendo motivi di salute ed anche ragioni di salute mentale". Continua ricordando che sulla base dell’art. 648 c.p.p. è possibile disporre "la sospensione dell’esecuzione della pena [...] a cagione di una riconosciuta, ancorché intervenuta all’esecuzione della condanna, condizione di infermità (anche di infermità mentale)".

 

La legge 230: profili generali

 

Il Decreto Legislativo 22 giugno 1999, n. 230 (testo riportato integralmente in appendice) delinea gli indirizzi della Medicina Penitenziaria nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), Si articola in momenti temporaneamente distinti:

il passaggio dal Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria alle Aziende Sanitarie Locali (ASL) delle competenze relative a Tossicodipendenze e Prevenzione a decorrere dalla data del 01.01.2000;

l’individuazione di almeno tre regioni dove avviare in forma sperimentale, per un anno, il graduale passaggio di tutte le altre funzioni sanitarie.

Con il successivo decreto del Ministero della Sanità e del Ministero della Giustizia del 20.04.2000 sono state individuate le Regioni Toscana, Lazio e Puglia. Il Ministero della Giustizia, in accordo con il Ministero della Sanità, viste le disposizioni sopra citate ma in assenza del relativo Decreto di trasferimento delle risorse finanziarie e del personale, ha emanato la Circolare n. 578455/14 toss. gen. del 21.01.2000 (testo riportato integralmente in appendice) con la quale si definisce il passaggio delle sole funzioni relative alla prevenzione generale (di pertinenza dell’Igiene Pubblica) e il trasferimento funzionale del personale del presidio per le tossicodipendenze ai Ser.T. territorialmente competenti. L’onere finanziario resta peraltro di competenza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

La legge 230 nasce come tentativo di collegare le istituzioni, distribuendo gli ambiti di competenze fra il Ministero della Sanità e il Ministero della Giustizia, e prevedendo, gradualmente, il trasferimento al primo delle funzioni sanitarie. Caselli sostiene l’importanza di "un possibile collegamento funzionale organizzativo del carcere come portatore di un’identità sanitaria non separata dal resto del territorio su cui dovrà andare inevitabilmente ad articolarsi".

Stabilisce inoltre che nella Relazione annuale sullo stato sanitario del Paese il Ministero della Sanità, d’intesa con il Ministero della Giustizia, deve dedicare un capitolo specifico all’assistenza sanitaria penitenziaria.

Il capitolo deve:

illustrare le condizioni di salute della popolazione detenuta;

descrivere le risorse impiegate e le attività svolte dal SSN nei vari istituti penitenziari;

esporre i risultati ottenuti rispetto agli obiettivi stabiliti nel progetto e quelli conseguiti dalle Regioni nei rispettivi piani sanitari;

fornire le indicazioni per l’elaborazione delle politiche sanitarie e per la programmazione degli interventi.

Con questo decreto legislativo il SSN si riappropria della funzione di assistenza sanitaria dei detenuti e del principio di globalità (art. 1, l. 833/78) assicurando:

livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi;

azioni di protezione, di informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute;

informazioni complete sul proprio stato di salute all’atto d’ingresso e di dimissione dal carcere e durante il periodo di detenzione;

interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e sociale;

assistenza sanitaria della gravidanza e della maternità, anche attraverso il potenziamento dei servizi di informazione e dei consultori, nonché appropriate, efficaci ed essenziali prestazioni di prevenzione, diagnosi precoce e cura alle donne detenute o internate;

l’assistenza pediatrica e i servizi di puericultura idonei ad evitare ogni pregiudizio, limite o discriminazione alla equilibrata crescita o allo sviluppo della personalità, in ragione dell’ambiente di vita e di relazione sociale, ai figli delle donne detenute o internate che durante la prima infanzia convivono con le madri negli istituti penitenziari.

 

E. inoltre prevista la creazione e l’adozione di una Carta dei servizi sanitari per i detenuti. elaborata fra le due amministrazioni, con rappresentanze dei detenuti e degli organismi di volontariato per la tutela dei diritti dei cittadini.

Nello specifico il Decreto n. 230 all’art. 1, "Diritto alla salute dei detenuti e degli internati", recita: "I detenuti egli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali".

La legge prevede anche per gli stranieri "parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai cittadini liberi, a prescindere dal regolare titolo di permesso di soggiorno in Italia", quindi l’iscrizione al SSN è obbligatoria per tutti i detenuti "per tutte le forme di assistenza, ivi compresa quella medico generica". Viene con ciò riconosciuto il diritto dei cittadini reclusi ad usufruire di tutte le prestazioni specialistiche, infermieristiche, farmaceutiche, etc. erogate dal SSN. In tal senso il detenuto continuerà a mantenere un rapporto fiduciario con il proprio medico curante che potrà indirizzare il paziente verso le strutture adeguate dopo la eventuale di missione dal carcere. È ribadita l’esenzione alla spesa sanitaria per tutti i reclusi.

L’art. 2 stabilisce il principio della collaborazione fra le amministrazioni, allo scopo di garantire le prestazioni e il raggiungimento degli obiettivi dei Piani sanitari. Specifica inoltre che "L’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati è organizzata secondo i principi di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitari età dei servizi e delle prestazioni, di integrazione della assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica".

Sempre l’art. 2 stabilisce il principio della separazione delle competenze tra le AA.SS.LL e l’amministrazione penitenziaria, assegnando alle prime il compito di erogare le prestazioni e all’altra la garanzia della sicurezza. Nella fattispecie sono competenze del Ministero della Sanità la programmazione, l’indirizzo e il coordinamento del SSN nei vari istituti, alle Regioni spetta la funzione di organizzazione e controllo sul funzionamento nei vari istituti e alle AASSLL sono affidati la gestione e il controllo dei servizi sanitari in istituto.

All’Amministrazione penitenziaria compete la funzione di garanzia della sicurezza negli istituti e nei luoghi esterni di cura. L’art. 4 ne individua le competenze. In concreto le modalità d’ingresso negli istituti del personale del SSN saranno stabilite dalle Direzioni del carcere e dell’ASL. Il personale è tenuto all’osservanza delle norme dell’ordinamento penitenziario, del regolamento interno, delle direttive dell’Amministrazione penitenziaria e del Direttore d’istituto in materia di organizzazione e sicurezza. A tal riguardo nel Progetto è contenuta una dichiarazione molto importante "In ogni caso, mai le ragioni di sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita".

L’art. 5 prevede un apposito progetto obiettivo per la tutela della salute in campo penitenziario che definisce gli indirizzi alle Regioni. Il 25 maggio 2000 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario (testo riportato integralmente in appendice) dove sono individuate le aree prioritarie di intervento: la prevenzione, l’assistenza medica generica, la medicina d’urgenza, le malattie psichiatriche, la tossicodipendenza, gli immigrati, le malattie infettive, i minori, la riabilitazione. Si sottolinea, però, come non esista "un sistema di rilevazione nazionale delle patologie in ambito penitenziario", il che si concretizza nell’impossibilità di sapere con precisione quali e quanti interventi siano necessari. In pratica ogni ASL deve inventare una propria strategia per la profilassi e la cura delle malattie.

Le Direzioni delle AASSLL sono chiamate a rispondere per quanto riguarda la loro responsabilità nella realizzazione degli obiettivi e sarà oggetto di valutazione dell’attività stessa dei Direttori generali, in relazione al concreto funzionamento dei servizi, con riferimento alle risorse disponibili e alle caratteristiche degli istituti penitenziari.

A differenza del passato le Direzioni delle strutture sanitarie territoriali sono coinvolte in prima persona nel raggiungimento delle finalità di tutela. I Provveditorati delle Amministrazioni Penitenziarie interverranno nell’attuazione degli indirizzi regionali anche con propri progetti d’intervento.

In questo Progetto è dedicata attenzione particolare alla formazione, alla realizzazione di comitati tecnici interministeriali che, a livello regionale e nazionale, coordinino l’attività sanitaria in carcere. Un altro punto importante riguarda i modelli organizzativi che prevedono la costituzione di:

dipartimenti penitenziari strutturali in realtà complesse per quantità (cioè per numero di detenuti superiore alle 700 unità) e/o qualità (coesistenza di minori, donne, internati, etc.);

unità operative multiprofessionali (per numero di detenuti compreso fra le 200 e 700 unità);

servizi sanitari multiprofessionali ove il numero dei detenuti sia inferiore alle 200 unità.

Le intenzioni di principio nella legge 230 sono molto apprezzabili, ma lo scetticismo maggiore è legato al mancato stanziamento di fondi necessari per fare decollare i buoni propositi! Leggendo giornali e interviste si evince che la cura dei malati in carcere è peggiorata in quanto si è prodotto un’incertezza delle competenze e uno spostamento di risorse umane dall’area sanitaria vera e propria all’area "logistica", con un aumento di addetti alla programmazione e alla gestione degli interventi, rispetto al personale sanitario effettivo.

 

L’assistenza sanitaria nel nuovo regolamento penitenziario

 

In linea con il Decreto 230/99, il nuovo regolamento penitenziario accoglie la riforma della medicina penitenziaria modificando gli articoli dedicati all’assistenza sanitaria. In materia sanitaria, come si legge nella Relazione alla Bozza22, "le modifiche apportate sono rivolte alla definizione di interventi che rispettino il diritto costituzionale alla salute delle persone detenute ed internate".

Emerge una triplice esigenza:

di prevenzione "sulle cause di rischio";

di un servizio sanitario "organizzato e adeguato per la cura delle patologie ordinarie e straordinarie";

di "un sistema integrato e fra gli istituti e fra questi e i servizi sanitari esterni".

 

La modifica più rilevante del nuovo ordinamento penitenziario riguarda l’entrata in vigore della legge 230/99 e i rapporti tra l’Amministrazione penitenziaria e il SSN. In particolare l’art. 17, "Assistenza sanitaria", al comma 1, stabilisce un collegamento con le norme sanitarie nazionali e, al comma 4, promuove l’organizzazione di reparti clinici e chirurgici con opportune dislocazioni nel territorio nazionale, "sulla base delle indicazioni desunte dalla rilevazione e dall’analisi delle esigenze sanitarie". È quindi un tentativo di creare nuove strutture rispondenti a precise esigenze territoriali e sanitarie. È sottolineato, inoltre, che al detenuto è mantenuta la possibilità di ricevere la visita di un sanitario di fiducia, sia per le cure mediche e chirurgiche, sia per ogni altro trattamento terapeutico, anche se tali prestazioni sono a totale carico del detenuto e devono essere eseguite all’interno della struttura penitenziaria.

Al comma 9 è sottolineata l’esigenza di prevenzione e continuità terapeutica, infatti si legge che "In ogni istituto devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rivelino, segnalino ed intervengano in merito alle situazioni che possono favorire lo svilupparsi di forme patologiche, comprese quelle ricollegabili alle prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell’attività fisica". La prevenzione delle situazioni patologiche ha spinto il legislatore a tenere conto, a differenza del passato, della negatività, in termini di salute mentale e fisica, del regime detentivo, L’art. 18 stabilisce il divieto di chiedere ai detenuti e agli internati la partecipazione alla spesa sanitaria per prestazioni erogate dal SSN.

L’art. 19 presenta alcune modifiche tese a migliorare le condizioni generali della maternità in carcere. Si sottolinea che il parto deve essere preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura, la necessità di creare appositi reparti di ostetricia e di asili nido e l’esigenza di assicurare servizi adeguati per i bambini, coinvolgendo i servizi territoriali e il volontariato.

Nell’art. 20, "Disposizioni particolari per gli infermi e seminfermi di mente", al comma 1 si legge che nei loro confronti "devono essere attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali e in particolare a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere, migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l’ambiente sociale...il Servizio sanitario pubblico territori al mente competente, accede all’istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari l’individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale". Inoltre si precisa che coloro che sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile sono ammessi al lavoro, gli altri possono essere assegnati ad attività ergoterapiche.

Inoltre l’art. 20 sembra prestare una maggiore attenzione alla malattia mentale cercando di favorire:

il rapporto del malato con l’esterno e specie con la famiglia;

la cura mediante il coinvolgimento del servizio pubblico territoriale durante la detenzione stessa.

In tale senso si può leggere anche l’art, 113 ove si prevede che la gestione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) possa essere affidata al SSN mediante convenzioni. L’intervento psichiatrico si estende, poi, alla previsione di un trattamento diversificato che consenta l’assegnazione alle strutture psichiatriche solo nei casi necessari. Infatti l’art. 111, in applicazione dell’art. 65, prevede l’esecuzione negli istituti ordinari anche per coloro che siano condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente. In tal modo, da una parte si selezionano i soggetti realmente bisognosi dell’internamento, dall’altra potranno essere evitate quelle ricadute negative che l’inserimento in una struttura istituzionalizzata comporta. Questa operazione, ovviamente, presuppone un potenziamento dei servizi d’istituto. L’art. 111 prevede che gli operatori e i volontari da assegnare agli OPG siano "selezionati e qualificati, con particolare riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati".

Sempre all’art. 20, si dispone che i detenuti e internati tossicodipendenti che presentino anche infermità mentali siano seguiti in collaborazione dal SERI e dal servizio psichiatrico. Tale operazione richiede, in verità, l’inserimento della figura dello psichiatra nel Ser.T. oltre al "calibramento" del servizio stesso non sulla capienza ma sull’effettivo flusso di popolazione alla struttura. Inoltre stabilisce, sempre in materia di infermità mentale, l’ingresso di operatori del SSN nell’istituto per "rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari la individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale".

L’esigenza di prevenzione si esprime oltre che nelle regole sulle condizioni ambientali (artt. 6-16) in norme, come l’art. 23, dove si prescrive che la persona, al momento dell’ingresso, sia esaminata da un esperto del trattamento e dell’osservazione. Il provvedimento regolarizza, cosi, il servizio "nuovi giunti" istituito e disciplinato fino ad ora solamente da circolari ministeriali.

 

La legge 231/99 in tema di incompatibilità

 

Il nuovo testo stabilisce l’incompatibilità tra detenzione e AIDS, o comunque una grave deficienza immunitaria, conferma il principio generale del divieto di detenzione in carcere, prevedendo il ricorso agli arresti domiciliari, il trasferimento in luoghi di cura, la concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare. Il Decreto d’Attuazione stabilisce i criteri clinici dell’incompatibilità necessari per chiedere l’accesso alle misure alternative indispensabili per una cura efficace ma comunque lascia al magistrato la discrezionalità sulla concessione di tali provvedimenti, anche se il rifiuto dovrebbe essere motivato unicamente dalla pericolosità sociale del detenuto. La legge lascia ampia discrezionalità al magistrato nel determinare la pericolosità sociale, motivo sufficiente per negare la scarcerazione e per disporre il ricovero nei Centri Clinici Penitenziari. Il mantenimento del soggetto in carcere dovrebbe diventare una misura di extrema ratio, essendo previsto solo alla presenza di gravi delitti compiuti dopo l’applicazione delle misure non detentive.

La legge 231/99 modifica e regola i casi di inidoneità alla misura detentiva, difatti al comma 4 bis dispone il divieto di custodia cautelare in carcere "...quando l’imputato è persona affetta da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria accertate [...] ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere".

Se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e se la custodia cautelare non è possibile presso idonee strutture penitenziarie senza pregiudizio per la salute dell’imputato o quella degli altri detenuti, si prevede la possibilità degli arresti domiciliari presso un luogo di cura, di assistenza o di accoglienza. È stabilito inoltre che, per i soggetti affetti da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possano essere disposti presso le unità operative di malattie infettive (ospedaliere, universitarie o di altri enti), presso una residenza collettiva o una casa alloggio.

La custodia in carcere, dunque, si presenta quale misura specifica da disporre solo in caso il soggetto sia imputato (o sottoposto ad altra misura cautelare) per uno dei delitti previsti dall’art. 380. L’art. 276 c.p.p. dà facoltà al giudice di disporre la misura in carcere, quando il soggetto, che si trovi nelle condizioni di cui al comma 4 bis dell’art. 275, trasgredisce le prescrizioni inerenti alla diversa misura cautelare disposta in precedenza. Ma neanche in questi due casi le esigenze di cura sono trascurate. Infatti il giudice deve disporre che l’imputato sia condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

La legge 231/99 considera inutile la permanenza in carcere se esiste uno stato di salute del soggetto molto grave, stabilendo, per tutti i tipi di patologie, l’incompatibilità assoluta. Il differimento obbligatorio è stabilito a favore di persona affetta da AIDS conclamata, da grave deficienza immunitaria, oda altra malattia particolarmente grave tale per cui le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, cioè "quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative". La norma, dunque, in coerenza con le determinazioni della Corte, abiura l’automatismo e si rifà alla valutazione individualizzata auspicata dalla Consulta. A differenza del passato si fa riferimento alle certificazioni dei medici ospedalieri.

Il Decreto 231/99 dispone l’estensione delle misure (affidamento in prova e detenzione domiciliare), a favore dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, "che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza" presso le unità operative. In tal modo i soggetti individuati possono godere di un trattamento diversificato che consente il decorso della malattia in condizioni ambientali adeguate e, soprattutto, vicino alla famiglia. Restano comunque esclusi altri soggetti sieropositivi per i quali si prospetta il ricovero routinario in luogo esterno (ex art. 11 Ordinamento Penitenziario). In termini numerici però questi ultimi rappresentano la maggioranza tra gli affetti da HIV.

La revoca della misura è sottoposta alle analoghe limitazioni, previste in tema di gravi delitti e trasgressioni ma è ugualmente disposta la detenzione presso un istituto carcerario dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. Tali disposizioni sono applicate anche alle persone internate. Per la richiesta della misura alternativa si fa espresso riferimento alla certificazione del servizio sanitario penitenziario.

Da dati raccolti questa legge sembra, in gran parte inapplicata anche perché i Centri Clinici sono utilizzati come ragione per rifiutare misure alternative a coloro che si trovano in condizioni sanitarie gravi. Da sottolineare che l’art. 6 della legge n. 231/99 stabilisce che detenuti con altre patologie (non AIDS) possano richiedere la scarcerazione e l’ammissione a misure alternative quando "sono affetti da malattia grave, per la quale non vi siano più terapie disponibili, che possano essere effettuate in carcere". Ma in alcuni pronunciamenti di magistrati questa condizione è stata posta come aggiuntiva, anche per persone affette da AIDS, con il risultato che ne è stata disposta la custodia nei Centri Clinici.

 

Costituzione "Unità operativa" di sanità penitenziaria

 

Con la circolare n. 3543/5993, del 23 febbraio 2001, l’Ufficio del capo del Dipartimento sancisce la costituzione di una "unità operativa" di sanità penitenziaria presso i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. Il provvedimento nasce dall’esigenza di creare un nucleo per il coordinamento degli aspetti sanitari dell’attività svolta dagli istituti penitenziari nell’ambito regionale, in quanto il decreto legislativo 444/92 ha omesso l’area sanitaria nei Provveditorati e ha frazionato i diversi aspetti della materia tra le altre aree operative di quelle strutture, Ai provveditorati è stata attribuita una specifica competenza in tema di rapporti con le regioni e con il Sistema Sanitario, È nata l’esigenza di garantire una gestione unitaria del servizio per garantire una risposta congrua, in termini di qualità e appropriatezza, alle numerose richieste del settore, In base alla normativa del riordino della sanità penitenziaria un solo medico per un massimo di 6 ore alla settimana come consulente del Provveditore non può che garantire un intervento disarmonico e frammentario, Risulta necessario avvalersi di una unità organizzativa, che interfacci direttamente con il Provveditore, che, oltre a rispondere alla criticità, organizzi gli interventi diretti ad attuare le trasformazioni necessarie.

Questa dovrà essere composta, utilizzando comunque risorse di personale disponibili:

o un direttore di istituto penitenziario che già si occupi, possibilmente, dello specifico settore sanitario, con funzione di coordinatore del servizio;

o uno o due medici incaricati, responsabili degli aspetti medici che avanzeranno proposte al coordinatore per migliorare strutture e servizi;

o un operatore sanitario dell’area delle scienze infermieristiche, con funzione di promozione e di iniziativa su materie attinenti la qualità dei servizi infermieristici negli istituti;

o un operatore amministrativo contabile e un operatore amministrativo.

 

È al vaglio l’opportunità di elevare il termine massimo delle 6 ore settimanali dei medici incaricati nel servizio ai provveditorati per consentire lo svolgimento delle riunioni, Il provveditore potrà inoltre avvalersi della consulenza di altri professionisti se si ravvisa la necessità nei settori di alta specificità medica o comunque in particolari materie attinenti al servizio.

Compito dell’unità operativa è di occuparsi dell’andamento dell’attività sanitaria svolta dagli istituti del distretto mediante un’azione di coordinamento, di pianificazione, di attuazione dei programmi d’intervento stabiliti e di verifica delle attività.

Particolare attenzione è rivolta ai progetti già avviati:

attivazione delle sezioni di primo livello e di livello intermedio per detenuti affetti da infezione HIV e da AIDS;

psichiatria;

istituzione e potenziamento di reparti per disabili;

programmi riguardanti i centri clinici dell’amministrazione;

collaborazione con l’autorità competente per la realizzazione delle unità di degenza per detenuti o internati presso ospedali esterni.

Compito fondamentale è coordinare ed indirizzare gli interventi delle direzioni presso le A.S.L. in uno spirito di fattiva collaborazione. Rientrano nelle competenze dell’unità operativa pure le problematiche legate alla carenza di infermieri professionali, la gestione dei rapporti con la Regione in ordine alla razionalizzazione degli interventi in particolare in materia di psichiatria, le proposte di assegnazione dei detenuti inviati da altri provveditori per il ricovero nei centri clinici dopo averne verificato la diagnosi, la collaborazione, nel settore della sicurezza nei luoghi di lavoro, con l’area tecnica e quanto attenga alla sanità. Si nota come questa modalità non sia ancora operativa ma solo in alcune regioni si sia iniziata la sperimentazione.

 

I detenuti stranieri e il diritto alla salute in carcere

 

La popolazione immigrata detenuta (P.I.D.), nell’ultimo decennio è aumentata in modo sostanziale. È importante rilevare che molti di questi soggetti solo il loro ingresso in carcere vengono a contatto per la prima volta nella loro vita con un sistema sanitario organizzato. Si sottolinea che il decreto 230/99 e il Regolamento di attuazione disciplinano l’erogazione delle prestazioni sanitarie per gli stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e per i "clandestini". In particolare, anche in assenza del permesso di soggiorno sono assicurate non solo prestazioni sanitarie d’urgenza ma anche:

cure ambulatoriali ed ospedaliere essenziali e continuative;

interventi di medicina preventiva e prestazioni di cura ad esse correlate.

 

La 230/99 rivolge particolare attenzione alle problematiche di:

tutela della gravidanza e della maternità;

tutela della salute del minore;

vaccinazioni;

interventi di profilassi internazionale;

profilassi e cura delle malattie infettive;

tutte le cure previste dal Testo Unico di disciplina degli stupefacenti (DPR 309/90) e sue successive modifiche (e quindi tutto ciò che concerne i Servizi per le Tossicodipendenze egli interventi curativi e riabilitativi).

 

Al fine di programmare e realizzare un intervento mirato è necessario:

conoscere i reali bisogni di carattere sanitario della popolazione immigrata detenuta;

rendere fruibili le risorse sanitarie esistenti;

adottare i programmi di prevenzione esistenti per le malattie trasmissibili in carcere tenendo conto della specificità della P.I.D..

 

Diventa di fondamentale importanza considerare:

la quasi totale assenza di conoscenze sullo stato di salute degli immigrati detenuti, salvo per alcune patologie (tubercolosi, lue, HIV), oggetto di una pur parziale sorveglianza da parte del Ministero della giustizia;

la carenza, anche nella letteratura internazionale, di esperienze specifiche di prevenzione o studio che possano costituire modelli di riferimento;

la carenza, nella maggior parte degli istituti penitenziari, di protocolli organizzativi volti ad una gestione sanitaria mirata della P.I.D.;

l’assenza di formazione specifica del personale sanitario, di custodia, di supporto (educatori, assistenti sociali, psicologi) negli istituti penitenziari;

la non comprensione della lingua italiana di molti detenuti alloro primo ingresso in carcere;

la non conoscenza delle lingue straniere da parte del personale;

la non conoscenza dell’immigrato delle norme e dei regolamenti che disciplinano le attività sanitarie negli istituti penitenziari;

l’assenza di informazioni relative alle opportunità offerte dalla legislazione sanitaria italiana alle persone detenute malate di uscire dal carcere (affidamento in prova per i tossicodipendenti ai servizi sociali, ai SERT, alle comunità terapeutiche, gli arresti domiciliari in caso di AIDS o di altre gravi patologie);

la scarsità e la non uniformità sul territorio nazionale di aiuti esterni su cui contare una volta usciti dall’istituzione;

la frammentarietà e la disomogeneità degli interventi (opuscoli informativi multi lingue, sportelli d’ascolto ecc.) spesso di iniziativa regionale, a volte addirittura locale;

l’assenza di mediatori culturali.

 

Ma "garantire" astrattamente sul piano legislativo un diritto non significa renderlo accessibile a chi ne deve godere e, nella fattispecie, dichiarare che anche gli stranieri "clandestini" hanno diritto alle cure (d’urgenza, essenziali e preventive), non vuol dire rendere queste "cure" accessibili e fruibili per loro alla stregua dei cittadini Italiani.

Questo fa sì che, ancora oggi e in maniera assolutamente paradossale, il carcere sia per moltissimi stranieri clandestini, il primo luogo in Italia dove possono sottoporsi a cure mediche e a visite preventive. Purtroppo, questo stesso meccanismo è tale che usciti dal carcere difficilmente potranno proseguire il trattamento o la cura intrapresa.

Il carcere, d’altra parte, come ben documentato nel "Documento Base" presentato al Convegno di studio. "Il Servizio sanitario per il diritto alla salute dei detenuti e degli internati" (Roma, aprile ‘99), "ha manifestato nel complesso, al di là dell’impegno dei singoli operatori, una difficoltà strutturale a garantire una globalità e una unitari età delle prestazione preventive, curative e riabilitative. (...) Si tratta, in generale, di servizi che si attivano a "domanda individuale", con difficoltà oggettive a svolgere la funzione di presa in carico del bisogno globale di salute". A questo si aggiunge il fatto che, sempre secondo quanto indicato nello stesso documento, "la finalità di fondo del servizio sanitario penitenziario è rappresentata, in prevalenza, dalla copertura del rischio per garantire le responsabilità del!’ Amministrazione". Il carcere, dunque, da una parte rappresenta, molto spesso, una prima occasione di "cura" per chi, come gli stranieri irregolari, non ne ha avute all’esterno. Allo stesso tempo, però, neppure il carcere garantisce una "presa in carico" sanitaria delle persone che sono detenute, ma si limita ad affrontare e a tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o "a rischio" per la salute di tutti (es.: malattie infettive).

L’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio (che riguarda anche le strutture pubbliche sociali e sanitarie) rende quasi impossibile il passaggio di documentazione tra interno ed esterno. Nello stesso tempo, iniziare cure e terapie all’interno del carcere, senza sapere se queste terapie potranno essere poi continuate al momento dell’uscita (es.: epatite, infezione da HIV) fa si che tali terapie non possano di fatto essere prescritte neppure se ci sarebbero le indicazioni per farlo.

Le strutture territoriali chiedono un tale grado di attivazione da parte dei singoli soggetti da renderle, di fatto, non usufruibili da parte di coloro che, stranieri e malati, non sono in grado di "muoversi" in maniera autonoma nel complesso sistema territoriale. Neppure coloro che sono affetti da malattie documentate o diagnosticate in carcere possono godere di una maggiore presa in carico da parte delle strutture territoriali: tossicodipendenza, infezione da HIV, malattie psichiatriche. L’uscita dal carcere non prevede la consegna di alcuna documentazione sanitaria (anche per questa deve essere il singolo ad attivarsi... ma per farlo dovrebbe sapere come muoversi!) e spesso le strutture territoriali richiedono la residenza o comunque un domicilio effettivo per attuare la presa in carico.

Di fatto, dunque, neppure il carcere garantisce un’uguale usufruibilità di cure e di accesso ai servizi sanitari per le persone straniere, mantenendo anche al suo interno un sistema che "blocca" chi si trova in una situazione di maggior disagio, limitandone ulteriormente le possibilità di risorse personali.

 

 

 

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