Aree problematiche

 

Aree problematiche di tutela della salute

 

Differenza di genere e malattia in ambiente carcerario

 

Attualmente, almeno nei paesi più ricchi e sviluppati, i corpi delle donne e degli uomini appaiono parimenti definiti da una rete densa di saperi, relativi alle funzioni fisiche e mentali, e da un assieme di prescrizioni relative al rapporto tra "cura di se" e "buona salute", come sosteneva Foucault. Sembra quindi che la differenza di genere rispetto alla salute sia meno rilevante di un tempo, anche riferendosi ai suoi indicatori più evidenti e socialmente marcati. La Bimbi nota sia una "persistenza di modelli di genere legati al passato che un ridefinirsi della differenza sessuale attraverso assegnazioni di valore sociale diverse da quelle di un tempo". La differenza di genere diventa molto significativa, in relazione al modo di viverla e alle conseguenze, se si pensa che la pena e la reclusione sono istituzioni sociali che si sviluppano in un regime normativo egualitario.

Cresseye Irwin (1962) notano come le differenze nelle organizzazioni carcerarie siano la conseguenza dei diversi modelli comporta mentali di uomini e donne nella società e poi ricreati in carcere in base alle esperienze predetentive e ai sistemi socioculturali di riferimento. Inoltre le culture detentive sono una prosecuzione differenziale per genere della cultura esterna.

In particolare le donne e gli uomini utilizzerebbero nei confronti della cura di se e degli altri in gran parte gli stili tradizionali dei rispettivi modelli sociali dell’identità, ma con risultati diversi. "L’espressione sociale della sofferenza è tradizionalmente assegnata al sesso femminile".

Ma forse proprio questa manifestazione di debolezza è la forza delle donne: il saper comunicare senza vergogna le proprie emozioni e sensazioni, l’usare il proprio corpo in modo non distruttivo è un modo per reagire in maniera attiva alle costrizioni imposta dalla struttura e manifestare il proprio esserci ed esistere. Quindi "una maggiore insofferenza alla detenzione", "E così c’è chi riempie il buco nel cuore con il cibo o si lascia consumare dall’esaurimento nervoso". Il carcere divide dalla propria realtà sociale e dagli affetti e le donne ne sono colpite più degli uomini perché, come sottolinea la Bimbi, portano il peso maggiore di responsabilità affettiva: "quando una donna entra in carcere ci sono sempre, fuori, i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei, che hanno bisogno di lei e che restano abbandonati e senza sostegni". E così la donna detenuta, oltre al peso della carcerazione, vive lo stare male della colpa. "Il fatto è che i figli ti mettono su un piedistallo, tutto quello che viene da te è giusto... e tu hai paura di perderli...".

Le donne in carcere poi non fanno notizia in quanto, rispetto al numero degli uomini, sono poche ma quello che le rende particolarmente non degne di nota è che non sembrano patire la condizione di sovraffollamento!

Le donne in stato di detenzione sono "solo" 2.425, suddivise in sei istituti e svariate sezioni femminili all’interno di istituti misti. Il totale delle entrate in carcere dallo stato di libertà nel 2000 è di 6.519 unità. 1.115 sono imputate, 1.193 condannate, di cui 81 in semilibertà, 81 internate. Le donne straniere sono 946. Tendenzialmente la popolazione femminile è condannata a pene inferiori rispetto alla popolazione totale detenuta, secondo dati a gennaio 2001.

Sul totale delle detenute l’11,75% è privo di titolo di studio, ben il 4,71 % è analfabeta, il 35,78% possiede il diploma di scuola media inferiore, il 20,92% il diploma di scuola media superiore, 1’1,64% è laureata.

Secondo il rapporto di Antigone del 2000, circa il 70% è disoccupata, solo il 10,8% ha un lavoro, il 9,5% sono casalinghe, ma comunque per il 70% l’attività precedente alla detenzione era il lavoro operaio. Risulta inoltre che il 50% delle donne ha figli, mediamente 1’80% di esse ne ha anche tre.

Il 33, 70% dei reati commessi da donne è legato a violazioni della legge sulla tossicodipendenza, il 22,24% a reati contro il patrimonio, il 12,82% a reati contro la persona. Sono solo 33 le donne detenute per reati di associazione a delinquere e di stampo mafioso.

Per quanto riguarda la condizione della salute della donna all’interno della struttura penitenziaria bisogna ricordare che le sezioni femminili, nella stragrande maggioranza in Italia, sono inserite in carceri maschili e pertanto il servizio sanitario è strutturato per rispondere alle esigenze di una popolazione di detenuti uomini.

Secondo la ricerca "Donne in carcere" le donne vivono più duramente e direttamente i "tempi della vita" sul loro corpo (le mestruazioni, la maternità, l’invecchiamento e la menopausa) rispetto agli uomini. "Sembra che il disagio più grande sia costituito dal gioco dell’oca, citato dalla Mambro, dalla percezione del tempo che passa, mentre si è costrette all’inutilità, a stare ferme mentre il mondo va avanti".

Per le donne parlare di salute quindi non si tratta solo di mera accessibilità ai servizi ma di affrontare il tema del "benessere psicofisico". Le autrici parlano di "Tempo e corpo recluso: i ritmi della salute e della malattia" proprio per sottolineare che i tempi del carcere stravolgendo in modo violento i tempi della vita sconvolgono anche i tempi del corpo. Sottolineano come i disturbi del ciclo mestruale sono il primo sintomo che compare nello stato detentivo: "è come se le donne detenute vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini) ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità".

La donna spesso somatizza il suo malessere e ai disturbi del ciclo mestruale si aggiunge la difficoltà a respirare. L’impotenza si esprime in crisi d’ansia, crisi d’angoscia, che insorgono alla sera, dopo la chiusura delle celle e che passano con la somministrazione di farmaci sedativi e ansiolitici: farmaci che sedano, per l’appunto questo dolore, questa lacerazione affettiva insostenibile. Per resistere ancora.

Esiste una tendenza alla psichiatrizzazione di tutta una serie di problematiche femminili connesse al sentire ed al vivere delle donne per le quali la risposta psichiatrica va a riempire un vuoto ed una difficoltà dell’esistenza che ha la sua radice prima nella forte disuguaglianza di potere tra i due sessi.

La depressione, che secondo alcuni dati riferiti alla popolazione generale colpirebbe le donne in misura doppia rispetto agli uomini, pare avere influenze significative anche sul destino e sulla genesi dell’infezione da HIV. Infatti, in un ampio studio americano più della metà delle donne seguite presentava sintomi di tipo depressivo. Altri studi, poi, evidenziano un’incidenza maggiore di depressione nelle donne con infezione da HIV rispetto agli uomini HIV. Ancora, ricerche recenti tenderebbero a mettere in relazione questa forma morbosa a un aumento di vulnerabilità rispetto all’HIV. Anche se appare prematuro assumere in toto questo dato, non bisogna dimenticare che caratteristica delle forme depressive femminili è un atteggiamento di passività rispetto agli eventi, rafforzato dall’impossibilità ad autodeterminarsi che tutte le donne sperimentano nel loro esistere quotidiano.

Scarsissimi sono i dati ufficiali disaggregati per sesso relativi alla situazione italiana. Non disponiamo di alcuna informazione di fonte istituzionale differenziate per genere, in relazione alle fasce di età di prima infezione, alle sopravvivenze, all’accesso alle cure, ai servizi di screening e di terapia, ai farmaci, alla salute mentale, all’aderenza alla terapia, alla qualità della vita, Naturalmente le indagini vanno realizzate con modalità che tutelino pienamente la privacy delle persone interessate.

A determinare questa situazione gravissima concorrono diverse concause, fra cui la quasi totale assenza di un’informazione mirata alle donne, e l’incapacità dell’organizzazione sanitaria e delle altre istituzioni di affrontare la complessa questione della sessualità femminile. Inoltre il sistema sanitario non riesce ancora ad avere consapevolezza del fatto che il benessere delle donne sia influenzato da una complessa rete di variabili non solo biologiche ma anche cliniche, psicologiche, sociali, e etiche. La donna detenuta sieropositiva rappresenta una realtà particolare in senso positivo. La donna detenuta non solo è una realtà biologica, esperienziale, educativa, culturale diversa da quella maschile ma si porta anche dietro realtà spesso particolari che possono meglio elaborarsi in un contesto di comunanza di esperienze fra donne.

Molte donne vengono da esperienze di violenza, molte devono farsi carco del problema dei figli, spesso si misurano con la problematica dell’affido dei bimbi. Emerge inoltre da molte ricerche che le donne hiv-positive sono più legate ai propri partner e che più spesso vengono lasciate piuttosto che esse stesse abbandonare il compagno. Le donne detenute devono misurarsi con la struttura carceraria pensata e strutturata al maschile, in particolare la Mambro scrive che "Il carcere è una struttura inventata dagli uomini per gli uomini e solo recentemente adattata molto sommariamente alle donne". Per questo è importante che l’intervento con le donne affette da hiv e aids occupi spazi e progettualità particolari. "Ogni mese una detenuta tossicodipendente viene spedita dal carcere romano di Rebibbia nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova)".

La denuncia è di una psicologa, Mirella Castellano, che da 13 anni lavora a Rebibbia. Da due anni nel carcere romano è stato istituito il presidio psichiatrico per intervenire su situazioni di disagio psicologico. Le reazioni anche violente delle detenute tossicodipendenti di Rebibbia vengono liquidate come patologie psichiatriche e quindi si interviene con terapie psicofarmacologiche. "Da due anni ha aggiunto Castellano- vedo tossicodipendenti ridotte allo stato vegetativo a forza di ricevere 150-300 gocce di Valium al giorno e psicofarmaci con dosi da cavallo. Queste sono, comunque, le donne da considerare fortunate perché le sfortunate vengono trasferite per un mesetto nel manicomio giudiziario". Secondo la psicologa, "ormai l’obiettivo della disintossicazione in carcere è un miraggio visto che non si completa neanche lo scalaggio del metadone".

Mirella Castellano ha detto di condurre una battaglia solitaria. Una voce a sostegno è arrivata da C. Stillo, dell’osservatorio per i diritti dei detenuti del carcere di Rebibbia per "evitare che le tossicodipendenti siano considerate pazze".

 

Tutela dei bambini in carcere

 

La stragrande maggioranza delle donne incarcerate con figli di età inferiore ai tre anni appartiene ad ambiti problematici: tossicodipendenza ed etnia zingara. Non è un problema di grandi numeri in quanto coinvolge circa 50 bambini in tutta Italia.

Libianchi riferisce che sono pochi e discutibili gli studi sull’effetto della carcerazione sui figli di madri detenute al momento del parto o che hanno comunque subito una carcerazione. Sottolinea come lo stress del periodo pre e post-partum sia vissuto dalle donne in stato detentivo in modo amplificato per i vissuti di inadeguatezza ed impotenza. "Il retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari inconsistenti, l’isolamento, una instabile salute fisica e/o mentale e la coscienza che il bambino potrà essere affidato ad un ente assistenziale, sono solo alcuni dei problemi che subiscono queste donne, testimoniando un bisogno di tutela maggiore rispetto alle libere".

L’Autore riferisce di alcuni studi tesi a dimostrare che i bambini, le cui madri hanno trascorso il periodo di gravidanza in carcere, risultano in migliori condizioni di salute e con un peso alla nascita maggiore rispetto a donne che sono state in carcere in periodi diversi dalla gravidanza.

Sono segnalati problemi legati all’ambiente sfavorevole quali: locali poco salubri, malattie infettive, ecc., bassi standard di igiene. Vengono segnalati anche alcuni effetti patologici ambientali sul bambino che variano da stati di irrequietezza a crisi di pianto frequenti ed immotivate. La difficoltà di addormentarsi è frequente come pure i risvegli improvvisi durante la notte. Si riscontrano inoltre inappetenza e significative variazioni di peso, sia in eccesso che in difetto. Di difficile valutazione è l’entità del danno emozionale e relazionale.

Si possono distinguere le cause da "danno carcerario" in:

 

Fattori contestuali

Ambiente coercitivo, stressante

Modelli di comportamento stereotipati

Scansione innaturale del tempo

Limitazioni relazionali

Assenza di una figura di riferimento maschile

Microsocietà solo femminile

Distanza dalla famiglia

Perquisizioni

 

Fattori Sanitari

 

Ambiente patogeno (TBC, Epatite virale, etc,)

Alimentazione differente (qualità ?)

Personale non preparato specificatamente

 

Fattori Generali

 

Possibilità di differenti usi religiosi

Assenza di standard di riferimento

Disomogenea distribuzione geografica

 

Di fatto nel bambino-detenuto si sviluppano modalità relazionali particolari, in quanto il rapporto madre-figlio è soggetto ad ingerenze del personale di sorveglianza, del regolamento, delle vicende giudiziarie e delle frustrazioni personali. La minore tutela della figura paterna nel suo ruolo genitoriale appare essere un ulteriore grave problema per lo sviluppo del1’affettività del bambino, in quanto raramente tale figura viene contemplata quale pari opportunità rispetto alla madre. I bambini vivono il dramma della separazione dal genitore e le difficoltà individuali successive di adattamento ad un diverso contesto affettivo. Biondi segnala il grosso impatto che sembra avere sullo sviluppo del bambino il momento del distacco coatto dalla madre, cioè dopo i tre anni.

Nel 1998 è stato attivato in via sperimentale, con la collaborazione della Direzione del carcere di Monza, un’iniziativa denominata "Infanzia in Carcere", con l’obiettivo di diminuire il livello di stress cui i bambini sono sottoposti all’interno del carcere. All’interno del penitenziario è previsto un asilo nido, con personale volontario, per offrire al bambino positive esperienze relazionali attraverso il gioco e per facilitare alle madri la creazione e/o il mantenimento di una situazione spazio-temporale personale. Il progetto prevede anche la creazione di una ludoteca come luogo per un colloquio facilitato dal gioco con i genitori.

Un’altra iniziativa altamente qualificante realizzata dal volontariato a Roma presso il Carcere Femminile di Rebibbia, è quella dell’Associazione "A Roma Insieme" i cui volontari, una o due volte a settimana, portano in uscita esterna i figli delle detenute ricoverati presso il nido penitenziario interno. D’altra parte però, associazioni come il Tribunale del Malato, continuano a non essere autorizzate all’ingresso testimoniando la durezza del regime. Sporadiche iniziative simili sono segnalate anche presso le quattro sezioni femminili degli istituti per minori di Roma, Nisida

(NA), Milano e Torino dove accanto al ginecologo opera anche il pediatra.

Un problema che merita di essere evidenziato è quello che i bambini in visita dall’esterno ai genitori detenuti vengano molto spesso sottoposti a perquisizioni personali alla ricerca di armi o droga. Tale pratica non risolve il problema delle eventuale presenza di armi, siringhe o droga all’interno degli istituti, ed è pertanto da considerare quanto meno inutile, non considerando i risvolti umani della sua applicazione.

Il 6 febbraio 2001 è entrata in vigore la legge sulle detenute madri "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori", dove viene finalmente riconosciuto l’inalienabile diritto del "bambino-detenuto" alla libertà, all’affettività e al rapporto con la madre.

Di fatto si sottolinea con forza che la presenza di bambini residenti in strutture penitenziarie appare come una pratica contraria ai diritti umani più elementari sia nei riguardi del bambino che del genitore se detenuto.

 

Immigrati e salute mentale

 

Secondo ricerche sui soggetti, immigrati in Italia da meno di un anno, si evidenzia l’assenza di psicopatologie gravi e la sostanziale sovrapposizione del profilo sanitario degli immigrati con la situazione italiana, "confutando il mito dell’emigrante portatore di malattie", anche sul versante della salute mentale. Numerose altre ricerche condotte all’estero dimostrano che i disturbi psichici negli immigrati tendono a presentarsi con maggiore evidenza dopo uno o due anni dall’ingresso nel paese di immigrazione, manifestandosi attraverso un quadro clinico ricorrente, costituito da patologie psichiche minori, sindromi ansiose, depressioni, manifestazioni di tipo psicosomatico, etc.

In generale gli studiosi di medicina delle migrazioni hanno dimostrato l’esistenza di reazioni psico-emotive allo stress, dovuto dalle condizioni scadenti ed emarginate di vita dell’immigrato. Fattori di rischio sono: mancanza di lavoro e reddito, professioni rischiose non tutelate, degrado abitativo (senza fissa dimora, coabitazioni forzate, promiscuità, ecc), assenza di supporto familiare, clima diverso, abitudini alimentari diverse, abitudini voluttuarie (fumo, alcol etc.), rischio di devianza (microcriminalità), discriminazione di accesso ai servizi sanitari.

La presenza di reazioni emotive sotto forma di manifestazioni psicosomatiche è forse il carattere più tipico delle patologie psichiche degli immigrati, con particolare peso nella componente femminile dell’immigrazione. Dai dati rilevati su oltre dodici mila immigrati che si sono rivolti nel decenni 1983-1993 alle strutture sanitarie della Caritas diocesana di Roma, risulta che i sintomi prevalenti sono quelli dell’apparato respiratorio, dell’apparato digerente e di tipo infettivo. La diagnosi di malattia psichiatrica risulta marginale, non superando l’1,7% sul totale delle patologie diagnosticate.

A questo riguardo va sottolineato come tra gli immigrati extracomunitari esista una diversa concezione della malattia tanto che la forte coesione tra individuo e comunità d’appartenenza, nonché la presenza di costruzioni culturali e simboliche di attribuzione della malattia mentale a fattori naturali o magici e sovrannaturali (fato, tabù, contagio per contatto, fatture e malocchio), determinano una sostanziale sotto utilizzazione dei servizi psichiatrici e di igiene mentale.

 

Il rapporto medico - detenuto: rischi e burn - out

 

Le condizioni ambientali in cui si svolge l’attività sanitaria sembrano essere responsabili del rischio di burn - out che può colpire il personale, nel quale è possibile notare una alta percentuale di assenteismo e una serie di disturbi sintomatici di uno stress emotivo quali ipertensione, abulia, etc.

Gli operatori intervistati da Andreano hanno riconosciuto che l’ambiente carcerario rappresenta "un fattore ansiogeno per il personale medico e paramedico". L’autore ha provato ad individuare alcune problematiche e ad analizzarle come possibili cause di difficoltà nello svolgimento dell’attività professionale.

Relazione tra medico e detenuto: si muove solo apparentemente secondo gli schemi di quella ordinaria che si instaura fra medico e paziente in quanto le manifestazioni patologiche stesse, in carcere, sembrano "diverse".

La posizione del sanitario è "diversa" in quanto codificata dall’Ordinamento Penitenziario ed è inserita in una organizzazione non prettamente di tipo sanitario, tanto che i suoi compiti esulano dalla normale applicazione della medicina. Il rapporto che si crea fra detenuto e medico non è di tipo "fiduciario" come si intende nella relazione con il paziente.

Questo però non significa che la fiducia non possa entrare nell’operare del medico penitenziario, ma costui deve essere messo nella condizione di rispondere adeguatamente alle richieste "accettabili" del detenuto e, sopratutto, che non si ponga in una condizione di conflitto con lo stesso. Di contro l’attività medico - legale, svolta dal personale sanitario, difficilmente fa si che il detenuto veda nel medico solo la persona che è li per curarlo.

Di fatto il sanitario è "il punto di riferimento di problematiche che non sono sanitarie perché il medico è l’unico interlocutore con cui il detenuto riesce a parlare e ad esprimersi", diventa cioè la persona sulla quale il detenuto scarica le frustrazioni e le problematiche ambientali, - paziente "speciale": cioè" una persona che si vede circondata da avversari in un ambiente innaturale", con manifestazioni anomale e richieste non prettamente sanitarie.

Sanitarizzazione dei problemi: è la tendenza, in ambiente carcerario, a risolvere le situazioni attraverso l’intervento medico. "Un problema che non si risolve, dal più piccolo al più urgente, diventa un problema sanitario. Il detenuto non riceve ciò che deve ricevere, si arrabbia, si taglia, non dorme, si agita. Si chiama il medico ma non si risolve il problema."

Le richieste sono le più disparate: dal cambiare cella, alla possibilità di telefonare, oppure poter parlare con un Magistrato. La non risposta può determinare una manifestazione di protesta che si traduce sempre in una situazione sanitaria. Ovviamente non è nell’ambito medico risolvere questi problemi per cui l’utilizzo degli psicofarmaci diventa uno dei mezzi possibili per riportare la tranquillità nella sezione. Ma anche la stessa Amministrazione, a volte, cerca di ridurre gli eventi critici a problema sanitario: "Se uno protesta la prima cosa che dicono è: "chiamate il dottore perché è agitato. Nei rapporti risulta che il detenuto si è agitato. Se poi uno invece di avere una crisi di agitazione, esce fuori dai binari si dirà che: ‘in stato di agitazione è stato necessario contenerlo e quindi ha riportato... è stato chiamato il dottore."

In questo modo si cerca di far sottostare l’intervento medico e farmacologico alle necessità di sicurezza e disciplina del carcere.

Medicalizzazione impropria: esiste la strumentalizzazione ad opera del malato per ottenere vantaggi. Il detenuto può aggravare le sue reali condizioni o simulare uno stato patologico tanto da arrivare all’autolesionismo per ottenere un ricovero o altro beneficio, in quanto il medico penitenziario esprime parere in relazione a provvedimenti che incidono sul corso della detenzione (ricoveri, trasferimenti, incompatibilità, etc,).

E lo stesso medico "vive in sé questa ambiguità di essere medico curante e, un minuto dopo, medico legale del suo paziente." L’ambivalenza del ruolo istituzionale "interferisce, crea un’ambiguità nel rapporto. Il cittadino detenuto deve vivere il proprio medico come quello che lo cura non come quello da cui può dipendere qualcosa. Lo stesso medico vive ambiguamente il suo ruolo. Non si può sostenere il paziente se questo ti può vedere come parte del sistema" - competenza clinica: è necessario "che il medico penitenziario abbia occhio clinico vero sia per essere terapeutico nell’intervento, sia per capire una simulazione".

Le risposte emotive della persona, il suo stesso comportamento possono essere discriminanti: "Può sembrare un paradosso ma se veramente c’è una patologia il detenuto si fida poco del medico. Dà più noia (tra virgolette) in termini di richieste, la persona che vuole strumentalizzare la propria situazione. Il malato vero, in genere, non dà fastidio a nessuno". Si tratta di un ruolo difficile in quanto il sanitario si trova a rivestire il ruolo medico - legale con tutti i relativi oneri e senza essere, in senso pieno, un componente effettivo dell’apparato penitenziario, anzi viene considerato come "un sottoposto" per quanto riguarda l’osservanza delle direttive e, al tempo stesso, un "libero" professionista.

Il problema dunque è sostanzialmente di conservazione di un’autonomia di giudizio tale che "Il medico che deve lavorare in carcere non deve pensare di lavorare in carcere. Deve pensare a fare il medico e basta. Non deve condizionare in qualche modo le sue scelte al fatto del detenuto. Non deve pensare che la persona possa essere un simulatore, a meno che non arrivi scientificamente a quella convinzione".

Il suggerimento è rivolto alla separazione dell’aspetto medico - terapeutico da quello medico legale, al quale va preposto personale esterno."Io, medico curante, non posso diventare medico di parte dell’autorità contro il detenuto esprimendo un parere avverso alla sua domanda: È incompatibile? Io devo rispondere al perito che accerto le condizioni. Farà lui le conclusioni".

 

Malattia e morte dietro le sbarre

 

Ogni giorno nelle 212 carceri italiane tre detenuti tentano il suicidio. In un anno si verificano invece 1500 tra omicidi, ferimenti, incendi. Mentre quasi 6 mila carcerati l’anno mettono in atto lo sciopero della fame.

Il 13 aprile 2000, un uomo di 50 anni, Angelo Audino, è morto in una cella del Centro diagnostico terapeutico del carcere delle Vallette di Torino. Era stato arrestato ad aprile del ‘99, ma dopo alcuni mesi era stato ricoverato in ospedale e, a novembre, trasferito agli arresti domiciliari per le sue gravissime condizioni di salute. "Ipertensione arteriosa essenziale severa, cardiopatia ischemica monovasale e pregresso infarto miocardico con retinopatia causata dalle conseguenze", hanno detto i medici. Trascorse 23 ore a casa, era stato riportato in carcere per scontare una vecchia pena. Lì, le sue condizioni si erano aggravate e, la sera prima del decesso, gli era stato notificato l’ennesimo rigetto dell’istanza di differimento pena con la motivazione che le patologie di cui era sofferente sarebbero state controllabili in ambito carcerario. Quando il medico è intervenuto, il detenuto era già morto.

Il 1° maggio 2000, una donna di 28 anni, Giovanna Franzò, è morta nell’ospedale di Ragusa per un ascesso ai denti non curato. All’ospedale era giunta tre giorni prima, proveniente dal carcere della città, dove la donna, condannata a 7 mesi per furto, stava espiando la sua pena. Dopo settimane di sofferenze - il collo ingrossato, la febbre alta, il respiro sempre più affannoso i medici del carcere hanno capito che la donna stava morendo e si sono decisi di ricoverarla in ospedale, la Tac ha rivelato l’evoluzione dell’ascesso dentario in una "mediastinite necrotizzante", Dopo due interventi chirurgici, la giovane vita di Giovanna Franzò si è spenta per sempre.

Il 20 maggio scorso, un uomo di 31 anni, Vincenzo Spina, si è impiccato nella sua cella del reparto "G7" dove si trovano i detenuti in regime di art, 41 bis (altissima sorveglianza e contatti limitati) del Nuovo Complesso del Carcere di Rebibbia. Stava scontando una pena all’ergastolo per omicidio, il suo "fine pena: mai", si è risolto nell’arco di dieci anni.

Nella notte tra il 23 ed il 24 giugno, Eleonora Manna è morta di infarto nella sua cella nel carcere di Rebibbia. Il 29 giugno, un giovane marocchino si è ucciso nel carcere di Modena, impiccandosi all’interno della cella di transito nella quale era detenuto. Era stato arrestato il giorno prima per resistenza a pubblico ufficiale, e aveva precedenti penali per droga, l’udienza di convalida dell’arresto era prevista il giorno dopo la sua morte, Il 15 luglio, Giovanni S., 44 anni, detenuto da un anno nel carcere di Torre del Gallo (Pavia), si è suicidato.

Si è stretto al collo la cintura dei pantaloni e, fissata alle sbarre di alluminio del letto a castello, si è lasciato soffocare fino alla morte, Giovanni S. era stato arrestato per spaccio di droga e una rapina e sarebbe dovuto uscire nel 2002. Non ha lasciato nessun messaggio. ma si era confidato con i compagni di cella sulle speranze di un’amnistia odi un indulto.

Nell’apprendere dai telegiornali di mezzogiorno dell’uccisione di un maresciallo dei carabinieri in Puglia, ha temuto che la discussione politica sulla possibilità di un atto di clemenza si sarebbe arenata, Alla Camera Penale di Milano è stato depositato un documento in cui è ricostruito il caso di A. Orso morto in carcere ad un anno di distanza dall’istanza di richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Condannato a 4 anni e 6 mesi per un fatto di abusi sessuali, dopo l’arresto aveva subito chiesto il differimento della pena per gravi motivi di salute.

L’istanza era stata respinta in quanto una perizia aveva stabilito che la cardiomiopatia dilatativa di cui era affetto poteva essere curata in carcere. Il 25 gennaio 2001 Urso aveva avanzato richiesta di arresti domiciliari e il 5 maggio era stato ricoverato all’Ospedale di Monza per un grave scompenso cardiocircolatorio. Tre giorni dopo il Tribunale di Sorveglianza aveva fissato per il 10 luglio l’udienza per decidere l’eventualità degli arresti domiciliari. Però Urso è morto il 5 giugno 2001. Sono solo gli ultimi casi di morti in carcere. Stando ai dati, nel 1999, sono state 83 le persone morte dietro le sbarre e 59 i suicidi. A questi casi di persone morte tra le mura del carcere, vanno aggiunti almeno altri 100 detenuti morti sulle ambulanze o dopo il ricovero in ospedale. Sempre nel 1999, nelle carceri italiane sono stati inoltre registrati 9.794 casi di malattie infettive; 5.000 sieropositivi; 6.536 casi di autolesionismo; 920 tentativi di suicidio; 1.800 ferimenti; 2 omicidi, 50 incendi; 5.500 scioperi della fame; 4.800 episodi di rifiuto di farmaci e terapie. "Chi entra in carcere non perde solo la libertà ma anche la salute", ha dichiarato Francesco Ceraudo, presidente dell’Amapi, l’associazione dei medici penitenziari.

 

La comunicazione negata: il suicidio

 

Con Tamburino si concorda che "gli atti di autolesionismo si prestano ad interpretazioni diverse. Spesso rinviano ad una certa teatralità, frutto del bisogno di catturare l’attenzione per instaurare un rapporto: un bisogno prepotente quando ci si sente abbandonati nel ventre di un’istituzione. Non così il suicidio, che non prevede nessun rapporto ulteriore ed anzi tronca definitivamente ogni relazione. Il suicida dichiara - senza ambiguità, senza alternative - che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione [...] il condannato cessa di essere un recluso per affermarsi, attraverso la radicale negatività del gesto, come essere umano [...] il suicidio appartiene alla storia dell’uomo, dentro e fuori le prigioni. Se si guarda al detenuto come a un caso patologico anche quando si suicida, si insiste nell’errore di non vederlo come persona e ci si condanna ad una comprensione limitata".

Di fatto ho scelto di scrivere del suicidio in questa sezione "aree problematiche della tutela della salute" proprio per non confondere questo estremo gesto di resistenza con una qualsivoglia patologia. Il rischio che si corre è quello di appiattire, di "sanitarizzare" questa sola libertà, magari forse paradossalmente indotta anch’essa dall’istituzione, di negare questa ribellione.

Di non volere ascoltare per l’ennesima volta questo urlo silenzioso e perforante la nostra umanità!

La media nelle carceri italiane è di un suicidio alla settimana!

E l’istituzione vive questo atto di libertà come uno scacco, un fallimento. Per fronteggiare questa problematica dal 2000 il Dipartimento ha creato una Unità di monitoraggio (UMES) per esaminare individualmente i casi di suicidio avvenuti, per tentare di capire cosa è successo, per vedere cosa si è fatto e cosa si può fare ancora. Dall’analisi condotta emerge che alcune persone erano state segnalate come depresse o a rischio mentre i casi più frequenti riguardano persone di cui nessuno sospettava. Sono segnalati casi di persone alle quali mancavano pochi mesi alla scarcerazione o che fino a pochi minuti prima giocavano e scherzavano con i compagni di cella. Esistono poi morti che potremmo definire senza causa, delle quali nessuno parla, che non rientrano in alcuna statistica. Sono le morti di ex-detenuti o in procinto di essere liberati, sono le morti "dentro" che non hanno spiegazione medica. Sono le morti di coloro che in carcere, paradossalmente hanno lasciato la vita, la speranza, non ritrovano più loro stessi. Sono coloro hai quali Zeus ha tolto l’anima e lasciato l’angoscia di essere liberi!

È "quel non saper uscire - non sapere e non poter uscire - dalle relazioni in cui si genera la propria sofferenza e dalle forme di auto-rappresentazione che la moltiplicano: questa è la prigione estrema".

In una analisi si legge "Restituito al mondo esterno dopo essere stato orrendamente mutilato nel suo sé - relazionale, chi è stato a lungo ospite di un’istituzione totale non ha più alcun luogo affettivo e realizzativo verso cui dirigersi e in cui ritrovarsi. Perso alla possibilità stessa di una sua autonoma reintegrazione in essi". "Di qui quello spaesamento doloroso, quello sbigottimento ineffabile per il rifiuto totale che il mondo esterno gli oppone: quel diventare ciechi non appena raggiunta la luce".

Come dicevamo sopra molti suicidi e morti non spiegabili avvengono in prossimità della scarcerazione o sulla porta del carcere: "Molti reclusi, perfettamente sani fino ad un certo giorno, si spengono repentinamente come da malattie mortali apparentemente inspiegabili. Il modo attraverso cui la medicina parla di queste morti - anoressia mentale, leucemia fulminante, cancro polmonare... - occulta la responsabilità sociale che ne è alla base e la catastrofe relazionale che le genera. Ecco, l’azione reclusiva non si limita ad amputare i rapporti sociali concreti del recluso, poiché, abbattendosi contro gli universi simbolici che interessano il suo Se-relazionale, li spinge al crollo".

Riflette Tamburino che "forse è preferibile creare situazioni che facciano comprendere che la vita va apprezzata anche da chi è in carcere. Fattori positivi in questo senso sono il valore che viene dato alla salute, il riconoscimento di un significato della pena che si sconta, la prospettiva di una speranza al di là delle sbarre".

Ma, di fatto, gli unici provvedimenti che vengono messi in atto nei confronti di chi tenta il suicidio sono gli stessi che verrebbero presi nei confronti di un banale e qualsiasi malato di mente (!): visita del medico, colloquio con lo psicologo e con l’educatore, visita psichiatrica. Alla fine adozione di una misura preventiva che spesso consiste nell’isolamento o nella grande sorveglianza!.

"Ecco: qui ci vorrebbe un sogno, uno spazio personale di attività, una nuova speranza, dalla quale sussurrare a se stessi: Alzati! Alzati e cammina - questa è la strada. Va detto ancora che il crollo di tutti gli universi simbolici può giungere anche dopo molti anni di vita reclusa, quando quell’Altrove alle cui fonti il recluso si era finora dissetato, per una ragione qualunque, s’inaridisce e dissecca. E a questo punto non resta che un’unica libertà: la libertà di morire".

Tamburino riflettendo si chiede: "Come si può lavorare nella direzione di una ecologia del carcere? "Ecologia" significa una quotidianità più sana; significa prevenzione dello stress del personale [...] significa disporre di strutture che liberino dall’incubo sicurezza per dedicarsi maggiormente alla cura di aspetti di vivibilità". Conclude sottolineando che "la capacità di ascolto dell’istituzione talora serve a poco se manca l’interlocutore rappresentato dai compagni di vita del detenuto a rischio. La prevenzione del suicidio ha bisogno dunque di una comunicazione tra detenuti e istituzione".

Ma non dobbiamo mai dimenticare che la morte di un detenuto è un problema per il carcere che deve tutelare la vita e mantenere, in qualche modo, l’integrità fisica dei suoi ospiti. Ma per motivi molto più profondi il suicidio è lo scacco matto del detenuto ai dispositivi di sorveglianza, di sicurezza, alla fagocitazione carceraria. È la sconfitta dell’istituzione che ha lasciato uno spiraglio da cui è passata l’individualità non coartata. Infatti il suicidio carcerario viene descritto come "devianza che si manifesta non tanto attraverso la condotta criminale, quanto nella forma della condotta del ‘follÈ, ossia del deviante delle norme residuali".

 

La "banalità" della salute

 

Perdendosi nel mare della comunicazione globale a volte si trovano paesi non dimenticati dai topi..." Aiuto, sto male! Potrebbe sembrare un vecchio titolo di giornale che parla del governo italiano, invece no, è la realtà del modo in cui si pone il problema della sanità all’interno di San Vittore, struttura ormai in come irreversibile. Elencheremo ora quello che giornalmente accade nei tre piani di questo paese dimenticato dagli uomini e da Dio.

Solo topi e gatti vivono indisturbati e a proprio agio in quest’area ben fortificata da muri, sbarre e agenti. Ci piacerebbe, prima di ogni cosa, potere avere chiaro dove finisce la responsabilità della direzione e dove comincia quella del clero, poiché è una responsabilità che le due istituzioni si rimbalzano come una palla pesante e sempre in gol.

Il medicinale più usato e in alternativa a qualsiasi terapia è la cosi antica camomilla; infatti, quando una compagna sta male e chiede aiuto, si sente rispondere "camomillati". Tutte le detenute hanno in comune un divieto d’incontro, con chi? Ma con il "medico" naturalmente; forse bisognerà fare una specifica domandina al GIP? Non riusciamo più a distinguere, camminando per le sezioni, quali siano le scene felliniane e quelle lageriane. Se poi volessimo parlare dell’isolamento sanitario, ci troveremmo in grave difficoltà non sapendo da che parte cominciare.

È un isolamento solo per mettere in pace le coscienze dei sanitari perché la cella è sul piano, le docce (solo 2) sono le stesse, il disinfettante è acqua all’80% e l’aria è comune; quindi di isolamento rimane solo il nome.

Per malate non gravissime ci siamo sentite dire dai medici di formare dei gruppi, per non creare troppo disturbo o lavoro, in modo che il dottore possa effettuare un'unica visita. Pensiamo che neppure il peggiore dei veterinari si comporterebbe cosi con un gregge di pecorelle.

Inoltre, siamo convinte che i tagli della sanità partano da qui, considerando anche che gli sponsor dei medicinali in uso sono pochi e sempre gli stessi: "Aulin - Velamox" (sono i primi in graduatoria ed efficaci per tutti i mali).

C’è comunque anche la possibilità di essere ascoltate e visitate quasi tempestivamente quando entra in campo la parola spauracchio: "dirigente sanitario". Ma non sempre si ha la voglia di passare a questo genere di minacce o compromessi.

Forse ha ragione il nostro amico quando dice che è presunzione voler caricare il peso di un cavallo su di un piccolo pony. Comunque, uscendo nei corridoi per andare a prendere il solito Aulin, abbiamo notato che si vedono i primi risultati dell'effetto Topo, (casi di leptospirosi - n.d.r.): ci sono i corridoi stipati di mobili,forse stanno imbiancando e disinfettando in modo serio? Se un topo può fare tutto ciò, ben venga!"

 

Perché non si parla di sessualità?

 

Parlare di sessualità nelle istituzioni totali è parlare di libertà, è infrangere il tabù del "diverso", di colui che nel rivendicare la sua sessualità ti sbatte in faccia che è uguale a te, uomo o donna, persona con un corpo. Il diverso è sempre stato considerato un’astrazione ma fin troppo vero nella sua esclusione: i matti, gli handicappati e i delinquenti fanno parte dell’immaginario collettivo volto a tutelare una moralità di giustizia. Le sbarre delle istituzioni e i cancelli della nostra ipocrisia vogliono cancellare il corpo delle persone colpevoli di diversità. La sessualità poi non viene mai intesa come fattore atto a contribuire a quello "stato di benessere psico-fisico" definito dall’OMS come stato di salute.

Deleuze sostiene che "lo debbo avere un corpo, è una necessità morale, un’esigenza".

Molta letteratura e cinematografia raffigurano la sessualità dei reclusi come estrema, quando non brutale, confinante con la sopraffazione, subdolamente perversa, Il detenuto affetto da priapismo? Alla costante ricerca di oggetti di consumo sessuale?

Ma in carcere "come i bambini soli si creano talvolta un compagno di giochi immaginario, così i reclusi, sessualmente deprivati, s’infiammano per le donne del vento", "L’amante immaginaria". E le fate e i fantasmi fanno sì che si abbia una torsione della sessualità e stati di trance autoerotica, E nei colloqui "egli può accarezzare l’amata con suadenti parole o farsi fare moine dalle sue. Loquizzazione dell’eros. Dietro la parete di vetro la guardi, l’addetta al controllo visivo non sente [...] territori auditivi dell’intimità, riscoperta del tono nel suono.

Analogia con gli stati [...] di sogno lucido. Mentre una parte di se si tende in un controllo ipervigile della situazione circostante, un’altra parte si estranea da tutto e si perde nel gioco della relazione più intima e affettuosa." "Sogno di eccitazione erotica [...] sensazioni di un corpo, perdute e ritrovate, che in questo lucido sogno si elaborano in fantasia guidata, portando a scioglimento l’ingorgo dell’eccitazione". Alla sinistra della sua branda, sul muro, proprio all’altezza degli occhi quand’era in posizione sdraiata aveva scritto... nomi. Trecento nomi... donne di carta e donne di scrittura... ne sceglieva uno. Era questo il suo mantra per entrare in trance: la ripetizione estenuante di quel nome".

Gallo e Ruggiero concordano con Curcio e altri nel sostenere che i surrogati di donne che invadono ogni angolo di celle altro non sono che una risposta alla paura della perdita completa della propria dimensione sessuale a causa della deprivazione carceraria, "ai detenuti si impone una sollecitazione forte che colmi il vuoto degli stimoli, che scongiuri lo smarrimento totale di ogni desiderio". Alla torsione della sessualità si contrappongono due momenti, "intenzionalmente curativi":

il recluso si rivolge all’altro sesso interiorizzato e, con tutto se stesso, si tende al recupero delle memorie sensoriali dei suo vissuto erotico. Sembrano ricreare l’archetipo dell’androgino nell’intimo delle loro trance auto-erotiche.

il recluso attua una estraniazione, cioè una dislocazione dell’immaginario fuori dal corpo, dove proietta anche i segni, i desideri, la stessa vita. Ovvero le offerte del mercato carcerario sono "video donne, porno fantasmi e sogni di carta" che conducono fuori dall’esperienza sensoriale.

In base ad una ricerca condotta da due sessuologi nel carcere penale di Porto Azzurro, l’immaginario erotico dei detenuti per il 68% è collegato al tempo precedente la carcerazione; un 15% è legato all’effetto prodotto la lettere di mogli o amiche; un 27% dipende da immagini televisive; il restante 18% si accontenta di riviste pornografiche.

"La sensibilità erotica subisce in carcere una torsione violentissima. L’assenza di relazioni, prolungata, genera una difficoltà a percepire gli altri come persone concrete. Questa difficoltà può essere la premessa per la totale cancellazione dell’altro; per la cancellazione del suo erotismo e della sua sessualità. Terribili le implicazioni: una cultura che non vede l’altro come persona concreta ha, tra i suoi esiti possibili, lo stupro".

Nadia e Vincenzo lottarono perché in carcere ci fosse una zona franca, ma dicono che "si può arrivare a vedere come una debolezza il nostro atteggiamento: affermare l’importanza dei propri sentimenti significa in realtà fare una scelta individuale, oppure rischiare di finire nel ridicolo, oppure ancora andare incontro ingenuamente alle inevitabili vessazioni supplementari che il carcere riserva ad ogni pensiero messo a nudo". Sostengono inoltre che l’affettività e il sesso non devono rientrare in una logica premiale perché "in questo modo anche il rapporto tra i sessi viene a fare parte delle politiche lealizzatrici delle coscienze, diventa premio o tortura bianca per la conversione".

 

 

 

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