Rassegna stampa 21 agosto

 

Giustizia: carceri inumane e degradanti; modulo per denunce

 

Terra, 21 agosto 2009

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L’associazione Antigone si rende disponibile all'assistenza legale per chi voglia denunciare le condizioni di sovraffollamento. Intanto negli istituti di pena si soffre il caldo e la protesta diventa concertata. L’Osapp: "Non eccediamo nel buonismo".

Il forte malessere per le condizioni di detenzione si esprime nella protesta, talvolta violenta, degli ultimi giorni. I materassi bruciati e le stoviglie all’aria hanno attirato l’attenzione dei più. Esiste però un altro volto della mobilitazione, che sceglie la responsabilità pacifica e, nonostante parta dall’interno di istituti penitenziari, merita di essere guardato con buona fede. Vi sono casi in cui le forme della contestazione vengono concordate con gli agenti di polizia, come nel carcere di Sollicciano a Firenze, ispezionato ieri da alcuni parlamentari radicali dopo le sommosse dei giorni scorsi.

Donatella Poretti, deputata radi cale eletta nel gruppo Pd, ha così commentato la visita: "Diamo atto del grande senso di responsabilità della comunità penitenziaria per cercare di risolvere e mantenere la situazione sotto controllo, senza denunce e senza trasferimenti: un atto di fiducia da parte dell’amministrazione".

Nell’istituto di pena, che sfiora i 1.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 400, si battono scodelle contro le sbarre per un’ora al giorno; le richieste sono sempre molto semplici, come illustrato dall’onorevole Poretti: "Igiene personale e delle celle, accesso al campo sportivo e alla palestra, quantità e qualità del cibo". La battitura ritmica continua e risuona anche dal carcere romano di Regina Coeli. Nella terza sezione, ieri, i detenuti hanno alzato i decibel della protesta contro il sovraffollamento delle celle.

Per il gran caldo, poi, il femminile di Rebibbia ha ottenuto l’apertura delle sbarre per tutto il giorno, e così anche l’accesso alle docce. Esempi di comprensione reciproca all’interno della comunità carceraria che però non sempre sono interpretati positivamente. "Attenzione a non eccedere con il buonismo", è il messaggio lanciato dal segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci. "Tutte le concessioni che vengono fatte ai detenuti si ripercuotono inevitabilmente sul personale di polizia penitenziaria. Chi vigilerà su di loro?", chiede il sindacalista, ricordando la vacanza di oltre 5.000 agenti.

Il problema del sovraffollamento delle carceri italiane rischia di rendere incontenibile la protesta e sa trasformarsi in un’altra emergenza, che è quella sanitaria. Una popolazione raddoppiata e reclusa in spazi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente bollato come invivibili e contrari alla dignità umana, può alimentare focolai di infezioni come scabbia, tubercolosi ed epatite.

Il campanello d’allarme è stato lanciato dalla Cgil umbra, in una lettera aperta all’attenzione del governatore e dei sindaci di Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto, in cui si rammenta il dovere di garantire il diritto costituzionale alla salute e alle cure. Il mancato rispetto dei principi fondamentali di tutela della persona umana è condizione sufficiente per innescare un procedimento contro l’Italia. La sentenza Sulejmanovic, che ha condannato il nostro Paese a risarcire i danni derivati da una detenzione "inumana e degradante", può essere la prima di una lunga fila. Già circolano, infatti, i primi documenti informativi per l’autotutela dei detenuti.

L’iniziativa è promossa dall’associazione Antigone e promette l’assistenza legale del Difensore civico dei diritti dei reclusi a chiunque voglia denunciare le proprie condizioni di trattenimento. "Da quanto tempo ti trovi nell’istituto di pena sovraffollato?", chiede la scheda. Compilando tutti i campi obbligatori, tipo di reato, fine pena e posizione giuridica, è possibile presentare il caso alla Corte dei diritti dell’uomo. Se l’adesione sarà massiccia, il governo dovrà preoccuparsi di risarcire decine di milioni di euro, almeno 1.000 ogni singolo detenuto, come indicato nella sentenza Sulejmanovic.

Giustizia: tutti reati sono in calo; perché detenuti aumentano?

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 18 agosto 2009

 

Le nostre città sono tra le più sicure d’Europa, eppure le nostre carceri sono tra le più affollate del continente. Chi e perché finisce in carcere? Allarmi sicurezza inventati per designare stranieri e sottoproletariato urbano come il nuovo nemico interno.

Tutti i reati sono in calo, dagli omicidi, alle rapine, ai furti, alle violenze sessuali, ha spiegato nel corso della consueta conferenza stampa di Ferragosto, il ministro degli Interni Roberto Maroni. Addirittura la delittuosità generale sarebbe in forte regresso, 13,95% in meno rispetto al periodo precedente (quello del governo Prodi). Secondo i dati del Viminale nei primi 14 mesi del governo Berlusconi vi sarebbe stata una flessione del 3,7% per gli omicidi, del 7,7% per le violenze sessuali, del 18,6% per i furti, del 20,4% per le rapine, del 15,1% per le estorsioni e del 16,1% per i reati da usura.

Secondo Maroni queste cifre devono ascriversi all’azione positiva del suo governo che avrebbe trovato la ricetta giusta per sconfiggere la criminalità, le mafie, eccetera. Un piano straordinario contro la criminalità, "contro il male" ha detto Berlusconi che ha presenziato alla conferenza stampa, verrà presentato in settembre.

Quel che Maroni non dice, però, è che la curva discendente dei reati non fa che confermare un tendenza avviatasi da tempo, almeno dalla seconda metà del 2007. Già nel 2008, prim’ancora che s’insediasse nuovamente il governo Berlusconi, i reati erano in calo di otto punti. Da questa realtà taciuta si può trarre una prima conclusione: la flessione dei reati non è un merito di questo governo in cerca di spot pubblicitari per giustificare il varo di legislazioni sempre più liberticide come l’ultimo pacchetto sicurezza. E sia detto per inciso, non è nemmeno un merito della compagine di centrosinistra che di allarmi sicurezza è morta, che sul terreno sicuritario ha voluto rivaleggiare con la destra riuscendo solamente a tirargli la volata per la vittoria finale. Vi ricordate l’affondo di Veltroni dopo l’omicidio Reggiani, la donna violentata e trucidata in un tugurio nei pressi della stazione di Tor di Quinto a Roma? E le ordinanze degli assessori, come Cioni a Firenze, o dei sindaci-sceriffo come Cofferati a Bologna, che fecero da modello per molti altri amministratori locali in tutta Italia?

Se approfondissimo ulteriormente l’analisi scopriremmo, come spiegava Ilvo Diamanti pochi giorni fa su Repubblica, che il peso dei reati sulla società attuale è addirittura inferiore a quello di un ventennio fa. Nel 1991 c’erano 4666 delitti per 100 mila abitanti, oggi 4520.

Se andassimo ancora più a fondo dovremmo chiederci quale incidenza ha avuto il varo dell’indulto del luglio 2006 sul crollo della delittuosità e nella fattispecie della recidiva. Uno studio realizzato da Giovanni Torrente (vedi Liberazione del 15 luglio) ha messo in luce la relazione diretta tra beneficio dell’indulto e crollo della recidiva. Per chi ha usufruito dello sconto di pena di tre anni la reiterazione del reato è stata pari al 28,45%.

Tra quelli che invece hanno scontato la pena per intero, il tasso di recidiva si è impennato e raggiunge il 68%. Gli indultati tornati a delinquere sono meno della metà di quelli che non hanno avuto sconti. Non solo, ma la propensione a delinquere cala ancora di più tra i cittadini stranieri, solo il 21,36% rispetto al 31,9% degli italiani.

A confermare questa tendenza c’è un ulteriore dato: la reiterazione del reato precipita (appena il 21,78%) tra chi accede a misure restrittive diverse dalla detenzione, sia che si tratti della fase antecedente al processo che durante l’esecuzione pena. Eppure lo schieramento politico di cui il ministro Maroni è espressione, aveva indicato nell’indulto la causa di tutti i mali, allertando l’opinione pubblica su un’emergenza criminalità inesistente: "Indulto, uno su due è tornato in carcere"; "Indulto, il 36 per cento è tornato in Galera"; "Effetto indulto, un detenuto su 4 è rientrato in cella. Incremento del sette per cento nell’ultimo mese"; "Alfano condanna l’indulto: fallito, carceri piene di recidivi", solo per citare alcuni titoli di quel periodo.

Il processo sociale attraverso il quale l’indulto è divenuto nel sentire comune un fallimento, la causa principale del (presunto) aumento della criminalità, è lo stesso che nei mesi precedenti e successivi ha allargato la forbice tra ciò che avveniva realmente nella realtà sociale e la sua percezione, o meglio la maniera in cui questa realtà veniva raccontata, travisata, deformata.

Un recente rapporto stilato dall’Osservatorio di Pavia su "Sicurezza e media" (curato da Antonio Nizzoli) ha rilevato come la descrizione della criminalità in tivù dipenda più da scelte di politica dell’informazione che dalle emergenze quotidiane della cronaca. Solo nel secondo semestre del 2007 i telegiornali di prima serata delle reti Rai e Mediaset avevano dedicato ben 3500 servizi a fatti di cronaca nera. Nel secondo semestre del 2008 questi sono scesi a poco più di 2500, per arrivare a meno di 2000 nel primo semestre di quest’anno. Una flessione finale di 50 punti a fronte di un calo reale di 8.

I dati forniti dal ministro sollecitano un’altra domanda: ma se i reati diminuiscono, com’è possibile che i detenuti crescano fino a battere tutti i record della Repubblica (quasi 64 mila)? Anche qui, a voler leggere bene tra i dati scopriamo che il calo di reati contro la persona e i beni non trova giustificazione nell’incarcerazione degli autori, messi cosi in condizione di non nuocere. L’affollamento carcerario è dovuto all’incarcerazione di un altro tipo di popolazione: stranieri in situazione irregolare e consumatori di sostanze stupefacenti. Due specifiche sottoclassi sociali a cui questa società ha dichiarato guerra.

Giustizia: stipati come bestie, ma la metà dovrebbe stare fuori

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 21 agosto 2009

 

Anche il carcere romano di Regina Coeli si è unito ieri alle proteste degli altri detenuti che stanno agitando diversi istituti di pena in questo torrido agosto. Una battitura delle sbarre è partita in mattinata. Notte agitata, invece, nel carcere femminile di Rebibbia, sempre a Roma, dove le detenute a causa del gran caldo hanno chiesto, e finalmente ottenuto, l’apertura delle celle dalla mattina alla sera, e così anche l’accesso alle docce.

Le proteste di questi giorni non sono una novità. Seppur coperte dal silenzio quasi totale dei media, nello scorso luglio una prima ondata di mobilitazioni aveva traversato decine di istituti penitenziari. Lanciano (7 giorni di battitura delle inferriate), Napoli Secondigliano, Reggio Emilia, Rebibbia Reclusione, Rebibbia Femminile, Genova-Marassi, Como, Ascoli Piacenza, Saluzzo, Catania, Palermo, Pisa, Verona e Venezia, solo per citarne alcuni.

Allora si trattava d’iniziative concertate, con battiture delle sbarre e lo stato d’agitazione generale programmato per alcuni giorni, per poi proseguire altrove come in una sorta d’ideale staffetta. Alcuni episodi isolati, ma importanti, avevano preannunciato questo ciclo di lotte. Il 19 aprile, a Trapani, una due giorni di battiture era trascesa in incidenti tra detenuti, in prevalenza tunisini, e agenti di custodia.

A Poggioreale, invece, la protesta era scattata il 3 giugno. Queste mobilitazioni hanno tutte in comune repertori d’azione e rivendicazioni. Alla base delle iniziative di protesta c’è sempre la richiesta di migliori condizioni materiali di vita. A Poggioreale, per esempio, si chiedeva l’abbassamento a non più di quattro del numero di detenuti in ogni cella e l’aumento delle ore d’aria, che in questo istituto a causa dell’eccezionale sovraffolla-

mento (al momento delle proteste il numero raggiungeva le 2500 persone) è tradizionalmente ridotto ai minimi termini. Le altre richieste riguardavano l’accesso alle docce, che in estate diventa un problema d’igiene drammatico. Se a Poggioreale è possibile solo due volte a settimana, nella stragrande maggioranza degli istituti di pena è preclusa la domenica. Nell’Italia rurale e contadina di un tempo, la domenica oltre ad essere il giorno del Signore era anche quello del bagno. Nelle carceri, invece, è il giorno in cui per regolamento non ci si lava. Inutile cercare una ragione logica. Non c’è. Banale ottusità e l’idea che chi è recluso vale meno di una bestia.

Quando la Francia della terza repubblica progettava il suo nuovo sistema penitenziario, il padre della sociologia Emile Durkheim dava consigli affinché le condizioni di vita del detenuto non si allontanassero molto dalla durezza spartana della vita di strada condotta da un normale clochard. È passato molto più di un secolo da allora, ma la mentalità dei burocrati dell’amministrazione penitenziaria non è molto evoluta.

La domenica non ci si lava. E se c’è sovraffollamento, ci si lava a giorni alterni oppure non più di due volte a settimana. La mancanza d’igiene evidentemente fa parte del percorso di rieducazione. È un’idea di purificazione al rovescio. Una pulizia dell’anima, mica del corpo. E poco importa se la mancanza d’igiene scatena poi le emergenze vere, come quella sanitaria ricordata in una lettera aperta della Cgil funzione pubblica dell’Umbria alla presidente della Regione, Maria Rita Lorenzetti. "Il raddoppio della popolazione detenuta - scrive il sindacato - grava su un organico sanitario già di fatto insufficiente e rialimenta focolai di infezioni quali la scabbia, la tbc, epatiti di varia natura difficili da gestire in situazione di sovraffollamento e di ridotto organico".

Non stupisce, dunque, se intorno a Ferragosto, anche per l’imprevista attenzione suscitata dalle visite parlamentari, il ciclo di proteste sia ripreso con i picchi raggiunti dalle proteste di Como e Sollicciano. In realtà molte altre strutture si sono mobilitate o lo stanno facendo in queste ore, non tutte però riescono a far pervenire la notizia all’esterno.

Queste proteste un primo obiettivo l’hanno comunque raggiunto, mettendo in evidenza come la strada della costruzione di nuove carceri scelta dal governo non solo non andrà da nessuna parte, ma non è la soluzione.

Come ha sostenuto ai microfoni di Radio vaticana il cappellano di Rebibbia, Sandro Spriano: "L’unica via è mettere mano al Codice penale, alla depenalizzazione dei reati, e non immaginare che tutto debba essere semplicemente punito con il carcere. Potremmo costruirne 100 all’anno e non risolveremmo il problema!". La vera emergenza è dunque l’abolizione delle leggi che producono detenzione, oltre ad una amnistia che riporti nei parametri della legalità il numero delle presenze dentro le celle.

Gli unici provvedimenti che hanno decarcerizzato negli ultimi 20 anni sono stati il decreto Bondi sulla detenzione cautelare (4mila scarcerazioni), l’indultino del 2003 (1.500) e l’indulto del 2006. Altrimenti dalla legge Martelli sull’immigrazione del 1991 ad oggi, passando per la Bossi-Fini (2002), la ex Cirielli (2005), Fini-Giovanardi (2006) e il pacchetto Maroni (2009), si è passati dai 29 mila detenuti del 1990 ai 64 mila attuali.

Serve anche praticare delle misure alternative più automatiche, "su Roma - ha spiegato ancora don Spriano - su circa 2500 detenuti solo 50 sono in semi-libertà; e poi più del 50% non sono ancora condannati in maniera definitiva, non dovrebbero stare nemmeno in carcere, però stanno lì".

Giustizia: lotta nelle carceri, per una vita degna e per la libertà

di Sandro Padula

 

L’Altro, 21 agosto 2009

 

Le recenti proteste dei detenuti sono un vero campanello d’allarme generale. Al Bassone di Como, dove la capienza autorizzata è di circa 300 persone ma ve ne sono il doppio, lunedì c’è stata una battitura con pentole e manici di scopa sui cancelli e sulle grate. Poi - secondo un sindacalista della Uil Pa penitenziari - si sarebbero verificate delle piccole forme spontanee di sabotaggio, facendo esplodere delle bombolette di gas, quelle usate per cucinare, e mettendo fuori uso i neon delle celle.

A Sollicciano, dove gli effettivi posti letto sono il doppio di quelli regolamentari, sempre lunedì la maggioranza dei contestatori ha effettuato la classica battitura e qualcuno di loro ha incendiato giornali e lenzuola alle finestre. Tutti urlavano una sola parola, semplice e complessa: libertà.

I commenti su queste proteste sono stati e sono i più svariati. Il segretario generale della Uil Pa penitenziari, Eugenio Sarno, ha dichiarato addirittura, non si sa su quale documentazione scientifica, che i detenuti romeni e albanesi sarebbero stati i capi delle contestazioni. Inoltre ha precisato che "la deriva violenta delle proteste è motivo di profonda preoccupazione", anche perché "non può favorire il confronto".

Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), ha invece accusato il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) di stare "in colpevole silenzio". Ha chiesto al premier Berlusconi e al guardasigilli Alfano di "porre l’emergenza penitenziaria tra le priorità di intervento dell’esecutivo".

Capece ha per altro auspicato "provvedimenti deflattivi che potenzino il ricorso alle misure alternative alla detenzione con contestuale impiego nei lavori socialmente utili dei detenuti con pene brevi", oltre ad "assunzioni per un corpo di polizia carente di ben 5 mila unità".

Bene, il segretario del Sappe ha detto una cosa vera e giusta: se non si comincia ad applicare l’articolo 27 della Costituzione, quindi a favorire processi snelli nella concessione delle misure alternative al carcere, il problema del sovraffollamento non si risolverà mai.

Non è vero però che il Dap sia in "colpevole silenzio". Qualcosa, con i limiti di un organismo esecutivo e non certo legislativo e sia pur a modo suo, sta cercando di fare. Nella mattinata di mercoledì 19 Ionta, il capo del Dap, ha visitato il carcere di Sollicciano. In una dichiarazione all’Ansa, pur criticando le eventuali "proteste non civili" o degeneranti "in aggressione al personale", ha cercato di affrontare alcuni problemi posti dalla protesta dei prigionieri.

Ha discusso con il direttore di Sollicciano, il comandante della polizia penitenziaria del carcere e il garante per i detenuti Franco Corleone. Alla fine si è reso disponibile ad accogliere alcune delle richieste dei detenuti, a partire da quelle riguardanti il cibo. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso della sopportazione della locale popolazione detenuta era stato il pane ammuffito!

I fatti dimostrano che la protesta di Sollicciano, a differenza di quanto ritenuto dal segretario generale della Uil Pa penitenziari Eugenio Sarno, ha aperto un piccolo ma non certo inutile confronto fra le parti, mediato dal garante dei detenuti, in un determinato carcere.

Sempre nella mattinata del 19 il direttore del carcere fiorentino di Sollicciano Oreste Cacurri ha per altro avuto un’importante riunione con i detenuti. Questi ultimi, fra le varie cose, hanno richiesto accessi alle docce anche di domenica, aperture più frequenti del campo sportivo e più attenzione al vitto. Inoltre, fra le problematiche sollevate, hanno ricordato la non attribuzione del codice fiscale agli stranieri (provocata dal recente "pacchetto sicurezza") che pertanto non possono più lavorare, la rigidità della magistratura di sorveglianza nel concedere le misure alternative al carcere, l’impossibilità di telefonare ai parenti che usano solo i cellulari e la sanità mal funzionante

"È stata una riunione positiva - ha spiegato Cacurri - Molti di quei problemi possono essere risolti". Più difficile è invece la risoluzione della questione del sovraffollamento. Il problema è politico. Anzi è un insieme di problemi politici. Le carceri italiane sono attualmente sovraffollate non certo per effetto dell’indulto del 2006, un atto di clemenza condizionato alla buona condotta esterna, ma a causa di vecchie e nuove leggi liberticide.

Ripetiamo i loro nomi: la legge Fini-Giovanardi, equiparante droghe leggere e droghe pesanti, che tiene in prigione ben 20 mila persone; la ex Cirielli che ingigantisce e indurisce le pene detentive per i recidivi (3 anni per un pacco di biscotti); la Bossi-Fini sull’immigrazione e il recente "pacchetto sicurezza" che ha equiparato la condizione di clandestinità ad una sorta di azione criminale da punire e in questi giorni ha provocato proteste nei Centri di identificazione ed espulsione di Milano, Bari, Torino e Modena.

Queste leggi e l’onnilaterale subcultura forcaiola e securitaria sono le vere ed uniche responsabili delle proteste dei detenuti. Nessuno cerchi capri espiatori. I riti antichi e antiquati non risolvono le drammatiche questioni del presente! Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe perciò invitare tutte le singole direzioni delle carceri a non usare misure punitive verso i detenuti che hanno protestato e protestano e a seguire la linea del dialogo apertasi a Sollicciano. Il Consiglio Superiore della magistratura dovrebbe invece sollecitare tutti i tribunali di sorveglianza d’Italia affinché siano concesse in tempi rapidi e senza ostruzionismi le misure alternative al carcere previste dalle leggi. Esattamente come ha più volte e vanamente richiesto lo stesso Ionta all’organo di autogoverno della magistratura! Servono passi concreti, responsabili e urgenti a costo zero. Poi, tutto il resto, spetta alla politica.

Giustizia: 6 mln € l’anno, per "braccialetti elettronici" mai usati

 

Ansa, 21 agosto 2009

 

Il Ministero dell’Interno paga sei milioni di euro l’anno per il noleggio di braccialetti elettronici inutilizzati. È la denuncia di Donato Capece, segretario Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), a Radio CNR.

"Lo Stato, il Ministero dell’Interno - dice -, paga sei milioni di euro l’anno, anche quest’anno, per il nolo dei braccialetti elettronici per i detenuti che non vengono utilizzati. Si sono dimostrati inefficaci, e oggi la loro tecnologia è obsoleta. Sono tenuti in una stanza blindata al Viminale. Purtroppo il contratto firmato con la Telecom nel 2001 obbliga lo stato a pagare e non solo, c’è anche una clausola che obbliga lo Stato a non poter usare altre apparecchiature fino al 2011. E intanto il Ministero paga 6 milioni di euro l’anno".

Capece aggiunge: "Sappiamo che a settembre il Consiglio dei Ministri discuterà del piano Ionta per le carceri. Ma sappiamo anche che le risorse richieste non ci sono. Il piano prevede la costruzione di 15 nuovi istituti e il reperimento di 7mila nuovi posti attraverso la costruzione di nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti. Ma i soldi non ci sono. Ci sono solo 200 milioni di euro messi a disposizione dal Ministero delle Infrastrutture. Tutto il resto delle risorse finanziarie sono da trovare. Bisogna avere il coraggio di trovare misure alternative e pensare a carceri più a misura d’uomo. In carcere devono stare i detenuti con reati socialmente pericolosi o gravi, per tutti gli altri bisogna pensare ad altre soluzioni. Altrimenti il sistema carcerario, che per fine anno potrebbe vedere oltre 70mila reclusi, è destinato ad esplodere".

Giustizia: scandalo "braccialetti" lo Stato regala soldi a Telecom

 

Agi, 21 agosto 2009

 

Il sistema penitenziario è al collasso, ha raggiunto i 64 mila detenuti con un esubero di 20 mila sulla capienza degli istituti penitenziari: e lo Stato regala soldi a Telecom per non usare i braccialetti elettronici? E le pene alternative al carcere? Lo si legge in una nota della senatrice radicale eletta nelle liste del Pd Donatella Poretti.

"Le visite ispettive di questi giorni, grazie all’iniziativa di Radicali Italiani Ferragosto in carcere, hanno scoperchiato un pentolone in ebollizione che rischia anche di esplodere - spiega la Poretti - Il Governo, con il piano del ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, risponde solo con la costruzione di nuove carceri e l’ampliamento di alcune già esistenti.

Ma, non solo avrà bisogno di anni, ma anche di trovare le risorse finanziarie perché non restino parole al vento. Nel frattempo, per i detenuti è sempre più difficile accedere alle misure alternative per scontare le condanne, mentre aumentano i reati e le aggravanti di pene. Proprio oggi 20 agosto Donato Capece, segretario Sappe ha reso noto che: lo Stato, il Ministero dell’Interno, paga sei milioni di euro l’anno, anche quest’anno, per il nolo dei braccialetti elettronici per i detenuti che non vengono utilizzati. Si sono dimostrati inefficaci, e oggi la loro tecnologia è obsoleta. Sono tenuti in una stanza blindata al Viminale.

Purtroppo il contratto firmato con la Telecom nel 2001 obbliga lo Stato a pagare e non solo, c’è anche una clausola che obbliga lo Stato a non poter usare altre apparecchiature fino al 2011. E intanto il Ministero paga 6 milioni di euro l’anno". Per questo, con il senatore Marco Perduca, "ho rivolto un’interrogazione ai ministri della Giustizia e dell’Interno per sapere - se il ministero intenda rendere pubblico questo contratto con Telecom Italia; - quali misure intende prendere per rendere praticabili le misure alternative", conclude la Poretti.

Giustizia: Osapp; parlamentari facciano gli agenti, per 1 giorno

 

Il Velino, 21 agosto 2009

 

"Un turno di servizio in qualità di poliziotto penitenziario e in una delle disastrate sezioni detentive italiane" è la proposta, non provocatoria, che il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, rivolge dalle pagine del sito www.osapp.it ai parlamentari e consiglieri regionali dotati di "più stomaco".

"Un turno effettuato alle stesse condizioni di chi svolge il lavoro di sorveglianza nelle celle penitenziarie - spiega Beneduci - è una proposta dura, indirizzata agli stomaci più resistenti, perché la fotografia emersa dalle ispezioni di ferragosto non basta a descrivere il quadro entro il quale ci muoviamo".

"Un turno di lavoro in incognito - prosegue il leader sindacale - che guardi alle condizioni di vita del detenuto, così come sono effettivamente vissute dal recluso, e che metta a raffronto quelle dell’agente penitenziario, che è responsabile per la sua e per la propria salute. Solo per stomaci resistenti perché il carcere non è solo vitto scadente, muri scrostati, l’acqua che manca, o i topi che girano a branchi nelle sezioni dove dormono i reclusi.

Carcere significa sangue: quello di chi si ferisce o si automutila. Carcere sono i materassi sporchi, perennemente in fiamme, le stoviglie a grave rischio di contagio, sono i continui casi di aggressione e di sottomissione che il poliziotto deve ogni giorno riportare all’ordine".

"Non vogliamo correre il rischio - insiste Beneduci - che all’indomani dell’iniziativa ferragostana sia rimasto solo una presa di coscienza comune. Le condizioni di sopravvivenza fisica e psichica all’interno delle strutture penitenziarie si stanno riducendo inesorabilmente e lo testimoniano le rivolte e le ribellioni e le continue lamentele degli agenti penitenziari in servizio, che arrivano al nostro sito ogni minuto.

Per cambiare queste condizioni grazie a nuove leggi che riformino l’ordinamento penale e il sistema penitenziario, potenziando e restituendo ruolo e dignità al Corpo di polizia penitenziaria, quale unica forza di polizia del Paese addetta alla risocializzazione di chi commette reati, vi è la necessità di una maggiore conoscenza del campo.

L’Osapp invita, quindi, tutti i Parlamentari intenzionati a produrre un reale e duraturo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle prigioni italiane". "Reale e duraturo miglioramento irrealizzabile - attacca - attraverso quel famoso piano che il ministro Alfano ha rispolverato all’indomani dell’iniziativa ferragostana, piano indirizzato, non finanziato e che non prende in considerazione nuovo personale da impiegare. Per essere poliziotto per un giorno è necessario chiedere al ministro della Giustizia o al capo del Dap Ionta l’autorizzazione a svolgere almeno per un giorno, in incognito, un turno all’interno delle strutture penitenziarie. Per questo mettiamo a disposizione il nostro indirizzo mail osapp@osapp.it, per quanti volessero aderire o chiedere informazioni".

Lettere: evitiamo che la situazione precipiti drammaticamente

di Enrico Sbriglia (Segretario Nazionale Sidipe - Sindacato Direttori Penitenziari)

 

Lettera alla Redazione, 21 agosto 2009

 

"Due torti non fanno una ragione", così era scritto sulla parete scrostata di una cella. Ero all’inizio della mia carriera penitenziaria, il 1982. Sono volati circa 27 anni d’allora e l’impressione che traggo è quella di vivere un’unica lunga giornata di lavoro: i cambiamenti positivi pure verificatisi nel sistema penitenziario, sono stati infatti subito assorbiti dai problemi sopraggiunti e da quelli che si è preferito non vedere, forse per non sporcarsi le mani o perdere appeal politico, consenso a costi di saldo.

Ma i problemi, quando non risolti, riaffiorano, anzi tracimano: l’esempio di queste giornate di caldo e di grate ne sono la prova. Proprio perché temo il peggio, preoccupato che il carcere torni a diventare operosa fucina di terrorismo e di nuovi patti di criminalità, mescolando buoni e cattivi, quanti vivano la carcerazione come riscatto sociale con coloro che, invece, la preferiscano come palestra criminale, faccio appello a tutte le persone detenute di buon senso affinché traducano le loro sofferenze e la loro disperazione in civile pretesa di attenzione da parte delle istituzioni, bandendo qualunque atto d’intemperanza o di violenza, che rendendo ancora più critica la situazione, allontanerebbero le soluzioni ragionevoli, per assecondare quelle sommarie, di regola nervose e di caduca "muscolosità".

Nella corsa della "staffetta" penitenziaria, quanti oggi sono chiamati politicamente a governare il sistema carcerario hanno, francamente, l’unica colpa di essere gli ultimi ad averne colto il testimone: i mali della cattiva esecuzione penale sono presenti da anni, l’elenco dei responsabili è lungo come un ergastolo...

Oggi però siamo al capolinea ed occorrono decisioni epocali, non c’è spazio per il piccolo mercanteggiamento, i "Custodi del Tempo" non hanno più tempo !

Spesso a quanti appartengano alla mia categoria viene attribuito l’appellativo di "buonisti", di essere "vicini ai detenuti", di essere troppo indulgenti nei confronti di assassini, stupratori, spacciatori, ladri e ruffiani.

A molti sfugge, invece, che siamo profondamente convinti di quei principi che gli americani indicano come "Law and order", ma il rigore, la legge e l’ordine, sono innanzitutto, prima di tutto, soprattutto, rivolti proprio a quanti rappresentino lo Stato, le Istituzioni, sono per i "primi" e non per gli ultimi. Le leggi, e non solo la coscienza e la "pietas", ci impongono il rispetto della dignità della persona detenuta, il fatto che noi si debba sottrarre ad essa la libertà e non altro, che si debba favorirne il cambiamento, il senso di responsabilità, il ripensamento sulle condotte malamente assunte.

Ma come raggiungere questi obiettivi irrinunciabili, tipici di una società che per davvero creda nella cultura della legalità, senza conferire le necessarie risorse di personale penitenziario, di mezzi economici, di strutture adeguate, pulite e dignitose anche per il fatto che noi operatori penitenziari lì ci lavoriamo per giorni, mesi, anni ?

Come è, inoltre, possibile sul piano legislativo ridurre la complessità di tutti i fenomeni di criticità sociale prevedendo conseguenze esclusivamente "detentive", invece che sforzarsi di trovare strade alternative affinché, per davvero, vi sia soddisfazione da parte delle vittime, smettendo di lanciare negli "slum penitenziari" ogni problematicità perché non si è in grado di affrontarla e risolverla in altro modo ?

Tra l’altro, in questi momenti "caldi" delle carceri, dove la disperazione delle persone detenute monta progressivamente ed il rischio che le reazioni pubbliche risultino esagerate e bellicose, talché, invece di raffreddare i conflitti, la situazione potrebbe sfuggire da ogni controllo, c’è chi pure ipotizza la cancellazione delle figure professionali dei direttori penitenziari, stagliando all’orizzonte un modello oscuro di nuovo carcere, ove si possa fare a meno della "cultura delle garanzie e dell’imparzialità", quasi come se fosse antitetica alla Sicurezza e non veicolo duraturo per raggiungerla, nonché fingendo di dimenticare come all’interno dei recinti di ferro, ogni giorno si sacrifichi il bene della libertà individuale non offrendo una chance.

Due torti non fanno una ragione: se lo Stato, il Governo, il Parlamento hanno la colpa che soltanto oggi stanno, finalmente, prendendo concreta conoscenza del grave stato in cui si trova il sistema delle carceri, non è acuendo le tensioni e aumentando le soglie del pericolo che si aiuteranno quanti hanno responsabilità politiche a trovare le soluzioni più giuste ed equilibrate, e soprattutto le risorse, quelle vere, sonanti ed in numerario.

Pertanto, come segretario nazionale del maggiore sindacato di categoria dei direttori e dirigenti penitenziari, rivolgo un accorato appello alle persone detenute, ai loro familiari ancor più preoccupati della sorte dei primi, sapendoli all’interno di carceri dove le tensioni, nonostante l’opera meritoria di direttori e comandanti, nonché di tutto il restante personale, rischiano di scoppiare all’improvviso, agli avvocati, al mondo del volontariato penitenziario, ai diversi ministri di culto, affinché promuovano un’azione permanente di raffreddamento dei conflitti, d’invito a riflettere costantemente, di esercizio al dialogo non per rabbonire o blandire le legittime aspettative delle persone detenute, ma per cercare, insieme con gli operatori penitenziari, delle soluzioni credibili, veloci, realistiche e rispettose dei diritti umani.

Più volte avevamo, in questi anni, prima e dopo l’indulto, lanciato l’allarme sugli aspetti irrisolti e relativi alla carenza degli organici, alle difficoltà che incontriamo giornalmente per assicurare il diritto alla salute delle persone ristrette, sulla inadeguatezza delle strutture carcerarie, spesso pensate e costruite come serragli metallici e di calcestruzzo, squallide, impersonali, punitive perfino nei colori degli intonaci e nell’architettura, insensibili anche verso quanti in quei luoghi vi lavorano: i poliziotti penitenziari, gli educatori, gli assistenti sociali, i medici, gli psicologi, gli insegnanti, i formatori professionali, i magistrati ed i direttori, ad oggi ancora senza contratto di lavoro.

Il dissenso in carcere può essere manifestato in molti modi (petizioni, reclami, denunce, etc.), il dissenso violento è, invece, solo violenza ed è idoneo a liquidare, in modo affrettato e inadeguato, anche le spinte più genuine al progresso ed al cambiamento che allignano in tutti gli schieramenti politici.

Lettere: sfoltire subito le carceri, per scongiurare nuovi indulti

di Leopoldo Marcolongo (Rappresentante Anci, Area Penitenziaria)

 

Il Gazzettino, 21 agosto 2009

 

Ogni comunità per reggersi ha bisogno di leggi, delle quali la giustizia si incarica di garantire il rispetto, punendo i trasgressori. In tal modo il concetto di legge è indissolubilmente legato al concetto di pena, la quale però deve avere in sé il fine primario della riabilitazione (art. 27, terzo comma, della Costituzione della Repubblica Italiana, che recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato").

La privazione della libertà mira non all’annientamento del reo, ma al ripristino dei principi che il delitto ha offeso. Questi presupposti trovano un fondamento sull’idea che il colpevole, oltre che pentirsi, possa modificare profondamente la propria personalità, specie se aiutato attraverso un piano di rieducazione.

Il pianeta carcere è salito prepotentemente alle cronache in questi ultimi anni per i problemi di sovraffollamento, attualmente peggiore del 2006, prima dell’indulto (quando ne uscirono 27.000), per i suicidi, per la prevalenza dirompente di detenuti stranieri e di detenuti in attesa di giudizio (più della metà). La drammatica emergenza dei numeri: dai 31.000 detenuti del 1991 siamo arrivati quasi ai 64.000 attuali, con 1.000 nuovi arrivi al mese. È una realtà che ci sta sfuggendo di mano.

Una pesante incidenza sul sovraffollamento riveste l’attuale sistema sanzionatorio, tutto incentrato sulla pena detentiva come risposta alla violazione della norma penale. Un simile sistema sconta tutta la sua inefficacia. La detenzione è inefficace nel dissuadere dal commettere futuri delitti, mentre l’applicazione di misure alternative al carcere risulta essere decisamente più efficace: i recidivi fra gli affidati al servizio sociale sono pari al 19%, mentre fra coloro che scontano la pena interamente in carcere i recidivi sono il 68 per cento. Una mentalità di "tolleranza zero" e di "insicurezza percepita" di alcuni Sindaci, nonostante il Ministro dell’Interno abbia affermato che i reati sono in calo, preme sul ricorso al carcere per liberarsi dei cittadini scomodi.

Togliendoli dal proprio territorio e mandandoli in una "discarica sociale", non rendendosi conto che, scontata la pena, questi ritornano. Il problema è che molti Sindaci spesso non conoscono la realtà carceraria, pochi hanno visitato un carcere, molti non sanno neppure dove sia localizzato.

Affrontare il problema solo sotto l’aspetto dell’ordine pubblico non sembra sufficiente e anche non conveniente. Considerarlo invece come un problema sociale è più vantaggioso per la collettività. Se non è possibile svuotare quel grande "condominio" della città dove sono ristretti i carcerati perché quelli pericolosi bisogna necessariamente tenerli rinchiusi, almeno si può creare qualche opportunità in più a chi ha sbagliato, ma dimostra con i fatti che può ritornare nella sua comunità, perché nessun uomo nasce delinquente. Un recupero che metta insieme il mondo delle Associazioni, le Cooperative, i Centri Servizi per il Volontariato, il mondo del lavoro, le Istituzioni per ricreare autostima e dignità negli ex-detenuti. Gli Enti locali possono contribuire molto al progetto perché la certezza della pena non è incompatibile con il recupero e il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti.

La previsione di nuove carceri e l’ampliamento di quelle esistenti è solo un bluff e poi mancano già ora guardie carcerarie e personale educativo e neanche il rimpatrio dei carcerati stranieri è una cosa semplice in tempi brevi. Bisogna fare presto a sfoltire le carceri perché la situazione è intollerabile e illegale, altrimenti, voglia o non voglia, bisognerà fare un nuovo indulto.

Lettere: allarme sul carcere, la situazione a Brescia e in Italia

di Carlo Alberto Romano*

 

www.articolo21.info, 21 agosto 2009

 

La situazione carceraria bresciana forse non è la peggiore d’Italia; ma ciò non può certo essere consolatorio. Certamente è fra le peggiori della Lombardia. Se Verziano, terminato e messo in uso negli anni 80, presenta una situazione non drammatica, accanimenti di Giove Pluvio a parte, Canton Mombello è letteralmente invivibile.

Il sovraffollamento è una costante nazionale da innumerevoli anni, ma ad aggravare la situazione è stata dagli anni 70 la presenza di detenuti tossicodipendenti (con le loro esigenze di cura, che mal si conciliano con il sistema carcerario) e dagli anni ‘90 la massiccia presenza di stranieri, che come è noto, nel nostro territorio e quindi nei nostri Istituti penali, sono presenti in misura più ampia rispetto al resto d’Italia e della Regione.

Alla fine del 2008 gli stranieri presenti nelle carceri nazionali erano 21.562 (un terzo circa) contro una situazione locale che ha visto e vede presenze di stranieri in misura di tre quarti o addirittura quattro quinti della popolazione presente a Canton Mombello, Casa Circondariale e quindi con elevata presenza di persone non condannate in via definitiva..

La precisazione appare opportuna, infatti se affiniamo leggermente l’analisi delle posizioni giuridiche, notiamo che mentre la presenza complessiva di detenuti definitivi al 31 dicembre 2008 era di 28.000 persone su 58.000 (vale a dire poco meno della metà), alla stessa data gli stranieri reclusi e definitivi erano circa 8200 su 21 562 (vale a dire un po’ più di un terzo). L’uso della custodia cautelare continua ad essere differenziato e discriminatorio nel nostro paese, in funzione della cittadinanza. Non vi è dubbio.

Malgrado la minor diffusione di eroina rispetto agli anni ‘80, anche la presenza di tossicodipendenti è ancora elevata: si parla di oltre un terzo della popolazione a livello nazionale e di circa un 40 per cento a livello locale. Anche in questo caso la nostra particolare realtà non sembra imporsi come situazione migliore rispetto al territorio nazionale. Anzi.

Infine rileviamo che al 31 dicembre 2008 i detenuti che svolgono attività lavorativa erano 13.990 (ridicolmente pochi se consideriamo il numero di detenuti complessivi, meno di un quarto, ma anche se consideriamo i soli definitivi, meno della metà). Il lavoro è un aspetto estremamente fondamentale del percorso rieducativo di ogni persona condannata, ma non riusciamo in alcun modo ad averne adeguata disponibilità nelle carceri del nostro Paese.

Le uniche proposte concrete sono arrivate nel tempo dalle Cooperative sociali, oggi purtroppo fra le imprese più impegnate nel confronto con la congiuntura economica, a causa della loro peculiare strutturazione solidaristica della forza lavoro utilizzata.

I dati statistici, nella loro fredda obiettività, dimostrano incontrovertibilmente tanto la gravità del problema carcerario, quanto il suo stretto legame con la questione sociale, vale a dire l’accentuazione dei meccanismi di estromissione e di penalizzazione delle marginalità che ha contraddistinto la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale.

Povertà ed esclusione sociale non giustificano il delitto, ma ci aiutano a capire i numeri delle nostre galere, sempre meno strumenti di rieducazione e sempre più contenitori di marginalità.

La realtà carceraria è divenuta sempre più grave e ha da tempo superato il livello di guardia. Come dimostrano le numerose morti in carcere, dovute ad una inidonea assistenza e malasanità, i troppo tanti suicidi e le migliaia di episodi di autolesionismo. La sanità penitenziaria, o il suo residuo simulacro, oggetto di costanti, ripetuti e crescenti tagli nelle ultime leggi finanziarie, attualmente vive una situazione di grande difficoltà; la speranza è che il recente passaggio al SSN e, nella nostra Regione, con felice intuizione, alle Az Osp possa ricondurla ad una funzione di naturale supporto assistenziale ( e non emergenziale come è oggi) per le persone detenute, le cui sofferenze non dovrebbero essere altro che la privazione della libertà, Costituzionalmente sancita; certamente non più quelle pene corporali di medievale memoria ma attuale consistenza, che il Beccaria insegnò ad allontanare dal patrimonio giuridico degli Stati più civili e moderni .

La situazione è poi resa più grave dalla carente applicazione di leggi, che potrebbero determinare se non la soluzione di alcuni dei problemi certo una migliore vivibilità e garantire maggiori diritti. Basti pensare:

al Regolamento penitenziario, (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230),ancora non applicato in molte sue parti;

alla Legge 8 marzo 2001, n. 40, che consente la scarcerazione delle detenute madri e dei bambini in carcere, ma che non ha fatto diminuire di fatto il numero di bambini e di madri detenute;

alla Legge 22 giugno 2000, n. 193, "Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti" (cd. "Smuraglia") che ha introdotto incentivi per i datori di lavoro che vogliano assumere lavoratori detenuti, scarsamente utilizzata ed ai più ancora sconosciuta;

alla ridicola gestione della Legge 31 luglio 2006, n. 241 (cd. "indulto") che ha liberato oltre ventimila detenuti senza che a ciò conseguisse un adeguato concerto progettuale per il loro reinserimento sociale; risultato: in due anni siamo tornati agli stessi numeri da illegalità carceraria che avevano suggerito, ma direi imposto, la necessità del provvedimento indulgenziale, senza però avere più a disposizione tale strumento, la cui odierna riproposizione apparirebbe del tutto inverosimile ed improponibile.

Cosa occorrerebbe, allora per tentare di mettere mano al problema? Ritengo si debbano utilizzare le normative già in vigore, senza dover ricorrere a nulla di straordinario, attraverso un maggiore e migliore uso delle misure alternative alla detenzione, che vanno applicate, nel rispetto delle norme, a categorie più ampie di condannati, specialmente per reati di contenuto allarme sociale e senza che ne vengano esclusi gli immigrati, laddove invece oggi si tenda a ricorrere alla concessione nei loro confronti con spropositata prudenza;

occorre garantire davvero dignitose condizioni di vita in carcere, attraverso quanto previsto dal nostro impianto normativo e regolamentare penitenziario, con particolare attenzione al mantenimento delle relazioni affettive e sociali della persona detenuta, strumenti attraverso i quali può iniziare il percorso riabilitativo di una persona condannata;

occorre ampliare le opportunità di reinserimento sociale e lavorativo, attraverso un corretto occorre utilizzare i fondi della "Cassa ammende", ai sensi dello stesso D.P.R. n. 230 del 2000, per "il finanziamento di programmi di assistenza economica in favore delle famiglie di detenuti ed internati, nonché di programmi per favorire il reinserimento sociale di detenuti ed internati anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione" e non investendo esclusivamente sul fronte dell’edilizia penitenziaria, operazione necessaria ma lunga, dispendiosa e certamente non idonea a rispondere hic et nunc al problema del sovraffollamento.

La sentenza Cedu di questi giorni (L’Italia condannata a pagare un risarcimento danni ad un detenuto straniero a causa delle inumane condizioni detentive subite) oltre ad aprire un inquietante fronte sul piano economico (con tutti gli stranieri reclusi che abbiamo) ci dice che così non possiamo andare avanti, davanti agli occhi dell’Europa e del mondo e che stiamo gestendo un sistema penitenziario che non può essere quello di un Pese civile e progredito; certamente non è quello immaginato dalla nostra Costituzione. Casa aspettiamo?

 

* Docente di Criminologia penitenziaria, Università degli studi di Brescia

Presidente di Carcere e Territorio Onlus di Brescia

Veneto: i detenuti in rivolta a Venezia e maxi-rissa a Padova

 

Comunicato Uil, 21 agosto 2009

 

"Una protesta che ha assunto tutti gli aspetti di una vera rivolta quella che è stata sedata nella nottata al terzo piano della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia. Celle distrutte, suppellettili divelte, coperte e giornali date alle fiamme. Nel pomeriggio di ieri presso la Casa di reclusione di Padova, una sessantina di detenuti stranieri hanno dato vita, nella fruizione del campo sportivo, ad una maxi rissa continuata nelle sezioni quando sono stati fatti rientrare".

A darne notizia la Segreteria Regionale del Triveneto della Uil Pa Penitenziari che attraverso il Segretario Regionale, Leo Angiulli, per il quale "L’inizio del Ramadan è stato sempre un momento di tensione accresciuta. Ma questa degenerazione violenta delle proteste nulla ha a che fare con la religione, anche se è auspicabile che l’Amministrazione faccia ogni sforzo per gestire questa delicata fase". Da Roma intervene anche Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, che già nei giorni scorsi aveva lanciato un appello alla calma.

"Ci sono molti modi per essere solidali ed aderire alla protesta, persino legittima, viste le condizioni degli istituti penitenziari. Ma i fatti di Venezia come quelli di Padova, come ancora prima quelli di Firenze, Perugia, Como e così via con la loro natura violenta non sono ne una dimostrazione di solidarietà, tantomeno possono essere ascritti nel campo delle proteste. Sono fatti violenti e basta. In quanto tali li condanniamo con fermezza.

Con quella stessa fermezza con cui denunciamo le incivili e indegne condizioni strutturali dei nostri penitenziari aggravate dal traboccante sovrappopolamento e le penalizzati, afflittive, indecorose condizioni di lavoro del personale penitenziario. Se è’ legittimo manifestare e protestare non è consentito degenerare. Pertanto ci appelliamo al senso di responsabilità perché non si acceleri il precipitare di una situazione colpevolmente lasciata fermentare nell’indifferenza e che ben presto potrebbe connotarsi per una estrema ingestibilità". Per la Uil le prove di disponibilità fornite dal Dap sono più che giustificabili, se ad esse si contrappone una gestione ferma e rigorosa dei facinorosi e dei violenti.

"Sento parlare di buonismo in relazione a concessioni fatte dal Dap in questi giorni. Non sono d’accordo, credo che si tratti semplicemente di buon senso derivante da uno stato di necessità. Però per non dare adito a dubbi sulla tolleranza e sulla disponibilità occorre perseguire con fermezza e rigore gli autori di atti violenti, applicando nei loro confronti le sanzioni previste dal regolamento penitenziario e se del caso perseguirli anche in via penale. Ciò a tutela, dei tanti, che intendono manifestare con la forza della non violenza.

La polizia penitenziaria è in trincea, tra ferie non godute, riposi non fruiti ed emolumenti non percepiti. Per tali ragioni la Uil invita nuovamente il Guardasigilli a intraprendere iniziative concrete.

"In questa baraonda a pagarne le più dirette conseguenze sono gli uomini e le donne della polizia penitenziaria cui, tra l’altro, non si negano solo ferie e riposi ma persino gli emolumenti economici spettanti. Dall’inizio dell’anno non sono pagati gli straordinari e missioni; Tantomeno nelle buste paga non si vedono ancora gli aumenti contrattuali contrattati ad Aprile.

A questo punto credo sia necessario un intervento diretto del Ministro Alfano. Faccia sentire la sua voce e dia un segnale concreto di vicinanza al personale penitenziario abbandonato nelle trincee delle prime linee penitenziarie. Sarebbe un modo concreto per rendere credibili i suoi apprezzamenti, più volte, rivolti alla polizia penitenziaria. Aspettiamo alla ripresa dei lavori non solo una sua convocazione ma anche che il Ministro presenti un disegno di legge per assunzioni straordinarie e che dia corso a provvedimenti di razionalizzazione delle risorse umane perseguendo quella lotta agli imboscati nei palazzi del potere che ha, verbalmente, condiviso. Cominciando proprio da Via Arenula".

Toscana: le carceri al collasso, i detenuti non siano lasciati soli

di Gianni Salvadori (Assessore regionale a Politiche sociali e sport)

 

Il Tirreno, 21 agosto 2009

 

Sono estremamente preoccupato per la gravissima situazione degli istituti penitenziari toscani, a causa del progressivo sovraffollamento e delle conseguenti condizioni di vita inaccettabili e disumane di detenuti ed internati. Preoccupazione estesa anche al personale penitenziario. Quello che è accaduto in questi giorni, con più evidenza a Sollicciano ed in altra misura in altre carceri, è la spia di una situazione potenzialmente esplosiva che riguarda tutto il sistema carcerario italiano.

Il sistema è al collasso: la capienza regolamentare delle carceri toscane è di circa 3.000 detenuti, quelli effettivamente ospitati superano le 4.000 unità. Punto principale da considerare sono le drammatiche ricadute che questa situazione sta provocando sulla salute, diritto primario inalienabile, di tutti coloro che vivono o lavorano nelle varie strutture. Senza poi trascurare la sicurezza se le proteste, non adeguatamente ascoltate dal ministero della giustizia e dall’amministrazione penitenziaria, dovessero reiterarsi ed inasprirsi.

Il Governo sta per presentare un piano carceri che però non sembra supportato da congrue risorse economiche e che comunque richiederebbe tempi lunghi per la realizzazione. Il disagio invece è attualissimo, come hanno potuto constatare in questi giorni parlamentari e consiglieri regionali. Le manifestazioni di protesta dei detenuti sono motivate dalle intollerabili condizioni di vita e suggeriscono attenzione ed ascolto da parte di tutte le parti coinvolte ma anche un dialogo interattivo, produttivo e programmatico.

A mio parere occorrerebbe prima di tutto rivalutare l’utilizzo massiccio della carcerizzazione come risposta ai fenomeni di devianza sociale ed immigrazione clandestina, come previsto dal recente ddl sicurezza. In secondo luogo diventa indispensabile coordinare, a livello regionale, tutti i soggetti coinvolti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti in tutti gli ambiti: sanitario, lavorativo, affettivo, culturale.

A questo stiamo già da tempo lavorando e presto firmeremo un accordo con l’Amministrazione Penitenziaria ed il Centro di Giustizia Minorile per riordinare tutta una serie di protocolli ed accordi già esistenti o in via di attivazione (ad esempio in ambito universitario, sociale, culturale e teatrale, con l’Arsia per esperienze di agricoltura sociale diffusa, lavorativo con le Province, ed altri ancora).

Senza dimenticare poi l’aggiornamento del Protocollo per la Tutela della salute dei detenuti ed internati in Ospedale psichiatrico giudiziario, dopo il transito della specifica competenza al Servizio Sanitario Regionale. Scopo finale di tutto questo percorso dev’essere la creazione di condizioni all’interno delle varie strutture affinché il detenuto non sia lasciato a sé stesso ma possa effettivamente trovare lo spiraglio per un reinserimento sociale.

Toscana: Fp-Cgil; gli animali negli zoo vivono meglio di detenuti

 

Ansa, 21 agosto 2009

 

"Con precisione svizzera anche quest’anno viene riproposta alla pubblica opinione la situazione disastrosa in cui versano le carceri italiane: sovraffollamento dei detenuti; sott’organico dei dipendenti della polizia penitenziaria, dimenticandosi le voragini dell’organico delle altre figure operanti nel carcere (educatori, ragionieri, etc.); condizioni igieniche precarie, celle sempre più strette rispetto al numero dei detenuti ospitati". Lo scrivono in una nota Giovanni Franchi e Santi Bartuccio della Fp Cgil Toscana.

"Abbiamo più volte rappresentato al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e al Provveditorato Regionale A.P. della Toscana - aggiungono -, le condizioni incivili/inumane in cui versano molte delle carceri Toscane. Ad oggi niente di tangibile e duraturo è stato fatto salvo promesse, promesse, promesse!

In aggiunta il Ministero prevede la costruzione di altre carceri, (chissà quando) ma non parla di adeguare o almeno reintegrare il personale destinato a farle funzionare". Secondo i sindacalisti "le recenti modifiche normative (in particolare il Pacchetto Sicurezza con l’introduzione del "reato di clandestinità") non aiutano a risolvere i problemi segnalati, anzi li aggravano".

"Denunciamo con forza questo stato di cose - proseguono - e sollecitiamo i soggetti istituzionali coinvolti, a tutti i livelli, a farsi carico delle problematiche - che non si generano non solo durante il periodo estivo ma sono presenti tutto l’anno - e, soprattutto, a dare loro soluzione, in primo luogo rispettando la dignità delle persone, siano esse detenute, siano esse lavoratori che svolgono un servizio per la comunità. Ricordiamo a tutti che gli animali dello zoo di Pistoia godono di ben più ampi spazi e servizi di coloro che vivono in condizione di reclusi nelle carceri toscane!

Anche se non trovano spazio nei giornali e in tv - concludono -, ormai da tempo in Toscana le aggressioni contro gli operatori penitenziari, siano essi poliziotti o meno, sono in forte e preoccupante aumento: sintomo per noi del malessere o più propriamente della malattia del pianeta carcere".

Toscana: Radicali; la Regione istituisca il Garante dei detenuti

 

Adnkronos, 21 agosto 2009

 

Ci complimentiamo col senatore Salvo Fleres (Pdl), garante regionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti della Sicilia, che all’interno del suo ufficio ha istituito uno sportello per ricevere segnalazioni sulle condizioni igienico-sanitarie degli istituti di pena e sull’inadeguatezza degli spazi previsti dalle leggi. E cogliamo l’occasione per lanciare un appello al Presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, affinché s’adopri per l’istituzione di un Garante per tutti gli istituti penitenziari della regione Toscana". Lo affermano, in una nota congiunta, i due esponenti Radicali Donatella Poretti e Marco Perduca.

"La situazione gravissima delle carceri toscane, che abbiamo rilevato nei giorni scorsi con diverse visite ispettive, necessita di massima attenzione anche da parte delle istituzioni locali, sia per quanto riguarda le opportunità lavorative per i detenuti, sia per un più generale monitoraggio del rispetto delle leggi e del diritto internazionale da parte delle nostre istituzioni. Vista la positiva esperienza del Comune di Firenze con il Garante comunale Franco Corleone, si potrebbe utilizzarla come modello per tutta la regione. Ma occorre agire urgentemente, la campagna elettorale regionale è alle porte e le priorità diverranno a breve sicuramente altre", concludono Poretti e Perduca.

Sicilia: sportello per segnalare condizioni detentive inadeguate

 

Comunicato stampa, 21 agosto 2009

 

Il Sen. Salvo Fleres, Garante regionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, in relazione alle condizioni di sovraffollamento delle carceri siciliane ha istituito, all’interno dell’Urp del Garante, uno Sportello abilitato a ricevere le segnalazioni sulle condizioni igienico-sanitarie degli Istituti di pena, sull’inadeguatezza degli spazi previsti dalla legge per una detenzione umana e sull’osservanza delle misure atte a garantire la tutela della salute delle persone detenute o internate e degli stessi operatori di polizia penitenziaria.

Le segnalazioni, non in forma anonima, possono essere trasmesse per posta al seguente indirizzo: Ufficio Garante dei diritti fondamentali dei detenuti presso Regione siciliana via Generale Magliocco, 36 - 90141 Palermo. Oppure mail info@garantedirittidetenutisicilia.it o anche al seguente fax: 091.7075487.

Il Sen. Fleres ha già chiesto da tempo all’amministrazione penitenziaria e ai Direttori degli Istituti di pena la rigorosa applicazione della circolare del capo Dap Dr. Ionta, del 6 luglio 2009 avente per oggetto: "Avvento della stagione estiva e conseguenti difficoltà derivanti dalla condizione di generale sovraffollamento del sistema penitenziario. Tutela della salute e della vita delle persone detenute o internate".

In particolare ha sollecitato l’attuazione delle misure ivi previste per rendere meno afflittiva la detenzione (docce più frequenti, distribuzione di acqua potabile, utilizzazione più prolungata degli spazi comuni e l’apertura diurna delle celle ove non sussistano particolari ragioni di sicurezza) e ogni altro intervento per una più razionale utilizzazione degli spazi all’interno delle stesse carceri (come è già avvenuto per il carcere di Piazza Lanza a Catania). Tali richieste fanno seguito all’invito, più volte rinnovato, di utilizzare, al più presto, le nuove carceri di Gela, Noto e Villalba che, malgrado costruite da tempo, sono (parzialmente per quello di Noto) inspiegabilmente ancora non operative.

Trento: tutti i 156 detenuti fanno ricorso a Corte di Strasburgo

 

L’Adige, 21 agosto 2009

 

I 156 detenuti del carcere di Trento hanno dato mandato all’Associazione "Antigone, per i diritti dei detenuti", di presentare una formale denuncia per vedere riconosciuto un indennizzo per il periodo di detenzione trascorso all’interno della struttura.

I 156 detenuti del carcere di Trento hanno dato mandato all’Associazione diritti dei detenuti di Roma di presentare una formale denuncia per vedere riconosciuto un indennizzo per il periodo di detenzione trascorso all’interno della struttura. Motivo? Nel carcere, spiegano, sono costretti a vivere "in una condizione che non può più essere definita accettabile" e nella struttura "i termini di vivibilità minimi non sono stati rispettati".

Da qui la decisione di denunciare la situazione di sovraffollamento e di chiedere i danni, anche alla luce del recente pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha condannato l’Italia a risarcire con mille euro un detenuto bosniaco rinchiuso nel carcere di Rebibbia. La corte ha rilevato infatti come la superficie minima a disposizione del detenuto fosse parecchio inferiore a quanto stabilito dal Comitato per la prevenzione della tortura, che fissa in 7 metri quadri a persona lo spazio necessario.

"Sia noi detenuti che gli agenti stessi - scrivono i 156 detenuti in un appello inviato al consigliere provinciale Mattia Civico, dopo la sua visita in carcere - ci troviamo a vivere una situazione ormai insostenibile, in una struttura che definire decadente e pericolosa è a dire poco un complimento. Infatti le celle che dovrebbero ospitare i detenuti presentano nella maggior parte dei casi i segni della muffa, ed il bagno interno alla stessa, non solo non ha il minimo rispetto per le leggi sanitarie, ma nel 90% dei casi non rispetta neanche la metratura minima richiesta".

Nel carcere di via Pilati, come emerso anche dalla recente visita dei parlamentari trentini Giacomo Santini, Laura Froner e Letizia De Torrre, vi sono celle nelle quali si trovano fino a dodici detenuti ed un numero di carcerati quasi doppio rispetto a quello previsto (90). "Lo spazio vitale sancito dalla carta dei diritti del detenuto stabilisce che siano messi a disposizione 7,5 metri quadri per la sopravvivenza minima.

Nella nostra struttura - denunciano i detenuti - non solo non sono rispettati questi parametri, ma la situazione è destinata a peggiorare anche per il costante arrivo di nuovi giunti, e l’ormai cronico sovraffollamento. Secondo un computo metrico effettuato da noi all’interno della struttura, presso le singole celle, e contati gli occupanti, abbiamo potuto appurare che lo spazio a disposizione di ogni singolo detenuto ad oggi non supera i 3,1 metri quadri calcolati per eccesso, quindi in taluni casi è addirittura inferiore. Si tenga conto - evidenziano - che in molte celle è montata la terza branda, che come tutti sanno non è a norma".

Ma i detenuti denunciano anche carenze sotto il profilo della sicurezza: un solo estintore per ogni braccio, che in caso di incendio dovrebbe salvare circa 60 persone. "Ma ciò non è possibile perché la notte i blindi vengono chiusi". In caso di incendio, dunque, le celle potrebbero diventare "celle crematorie".

Un quadro di "carenze" che i detenuti invitano Civico a segnalare anche in sede parlamentare attraverso l’onorevole Dario Franceschini. Ma la denuncia, come detto, potrebbe avere anche conseguenze sul piano penale. "Intendiamo dare mandato tutti e 156 all’associazione Antigone per difendere i nostri diritti in sede processuale". L’obiettivo è di "sporgere attraverso la stessa formale denuncia presso il tribunale competente al fine di vederci riconosciuti tutti gli indennizzi che la stessa riterrà opportuno concedere ad ogni singolo detenuto per il periodo di detenzione che ognuno di noi ha dovuto passare in una struttura dove non sono stati rispettati i termini minimi di vivibilità".

Roma: caldo e affollamento, protesta Regina Coeli e Rebibbia

 

La Repubblica, 21 agosto 2009

 

Nel carcere femminile le detenute, a causa del gran caldo, hanno chiesto e ottenuto l’apertura delle celle dalla mattina alla sera.

Battitura ritmica di oggetti contro le sbarre delle celle ed esplosione di qualche bomboletta di gas ai fornelli da campeggio in dotazione dei detenuti a Regina Coeli e apertura delle celle per tutto il giorno per il gran caldo nella sezione femminile a Rebibbia. La protesta dei detenuti contro il sovraffollamento è arrivata anche nelle carceri romane.

La protesta a Regina Coeli ha coinvolto la terza sezione del penitenziario e si è allargata anche alla sesta. Nel carcere femminile di Rebibbia le detenute, a causa del gran caldo, hanno chiesto e ottenuto l’apertura delle celle non solo durante l’orario della socialità ma dalla mattina alla sera, e così anche l’accesso alle docce.

Per il direttore di Regina Coeli Mariani si tratta di una protesta più che altro per l’adesione agli altri detenuti italiani e per il gran caldo perché, a suo dire, non c’è sovraffollamento visto che "i detenuti attualmente - ha detto - sono meno di 900 e il sovraffollamento si raggiunge oltre i mille".

Ma per il cappellano di Rebibbia don Sandro Spriano costruire nuove carceri non è la soluzione al problema della difficile condizione dei detenuti in Italia. "Io credo - ha detto il cappellano ai microfoni di Radio vaticana in merito all’annuncio sulla costruzione di nuovi istituti del ministro della Giustizia Angelino Alfano - che sia anche questa una misura che non contrasta nulla. Per costruire carceri, lo sappiamo tutti, ci vogliono anni e anni; ne abbiamo già costruiti e sono lì, come monumenti inutili, perché poi non ci sono i soldi per riempire le carceri delle strutture necessarie, per riempire le carceri di personale di custodia, di operatori dei trattamenti. E quindi - aggiunge - se non si mette mano al Codice penale, alla depenalizzazione dei reati, a non immaginare che tutto debba essere semplicemente punito con il carcere, io credo che potremmo costruirne 100 all’anno e non risolveremmo il problema".

Roma: il Cappellano; disinteresse per la situazione dei detenuti

 

www.zenit.org, 21 agosto 2009

 

La situazione drammatica delle carceri italiane si trascina ormai da troppo tempo senza che nessuno si sforzi di porvi seriamente rimedio: è quanto ha affermato don Piersandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia di Roma, in un’intervista alla Radio Vaticana. Secondo i dati del Ministero della Giustizia italiano, i detenuti attualmente presenti sul suolo italiano sono in tutto 63.771 a fronte di 43.327 posti regolamentari.

Nei giorni scorsi i detenuti di diverse carceri italiane hanno una forte protesta a causa delle difficili condizioni di vita all’interno delle celle, aggravate dal grande caldo e da un cronico sovraffollamento. "La situazione è grave da molto tempo - ha spiegato don Piersandro Spriano -: non grave solo rispetto ai numeri, è grave perché non si prendono decisioni di nessun tipo rispetto alla vita quotidiana ordinaria di queste 64 mila persone".

"Si fa finta che non esistano e allora non ci sono i soldi per fare nulla, mancano gli operatori per fare qualche attività di recupero", ha aggiunto il cappellano di Rebibbia che tempo fa ha indirizzato una lettera a Benedetto XVI, pubblicata il 13 agosto scorso dal "Corriere della Sera", per denunciare le condizioni di degrado in cui vivono le migliaia di detenuti e chiedere al Papa di visitare il penitenziario della Capitale. In merito alla politica di sicurezza portata avanti dell’attuale governo, don Spriano ha affermato: "Mi sembra che attualmente significhi mettere il più possibile persone in carcere, tutte quelle che in qualche modo danno fastidio alla società libera".

"Si sono penalizzate cose che non erano reati prima - ha aggiunto -. Questa non è - dal mio punto di vista - sicurezza, se non apparente, perché queste persone poi - perché non ci sono i mezzi, non ci sono le risorse umane - non vengono assolutamente aiutate a ripensare al loro passato e a poter tornare in società!".

"Nessuno si chiede come tornano: questa è una falsa "sicurezza!", ha commentato. Riguardo al nuovo piano-carceri - che dovrebbe andare in Consiglio dei ministri entro il 15 settembre - annunciato nei giorni scorsi dal Ministro della Giustizia Angelino Alfano, che ha chiesto all’Unione Europea fondi per la costruzione di nuovi edifici, il cappellano ha parlato di "una misura che non contrasta nulla".

"Per costruire carceri, lo sappiamo tutti, ci vogliono anni e anni - ha sottolineato -; ne abbiamo già costruiti e sono lì, come monumenti inutili, perché poi non ci sono i soldi per riempire le carceri delle strutture necessarie, per riempire le carceri di personale di custodia, di operatori dei trattamenti, ecc."

"E quindi, se non si mette mano al Codice penale, alla depenalizzazione dei reati, a non immaginare che tutto debba essere semplicemente punito con il carcere, io credo che potremmo costruirne 100 all’anno e non risolveremmo il problema", ha poi osservato. Secondo il sacerdote, "la maggior parte dei detenuti attualmente sono in una situazione di apatia perché capiscono che non si vuole andare da nessuna parte se non detenerli e basta".

"Io chiederei a noi cittadini liberi, e poi a noi cristiani, di provare ad aprire la nostra mentalità per accogliere queste persone nel momento in cui - per esempio - escono", ha suggerito. Infatti, ha sottolineato, "la gran parte di quelli che escono automaticamente sono pressoché costretti a tornare in carcere perché non trovano più alcun tipo di accoglienza da parte di nessuno".

Firenze: Ionta "disponibile" verso alcune richieste dei detenuti

 

La Repubblica, 21 agosto 2009

 

Pane non ammuffito. Vitto migliore. Frigo funzionanti. La possibilità di fare la doccia la domenica. Più accessi alla palestra e al campo sportivo. Materassi nuovi. Detersivi per i bagni delle celle. La possibilità di chiamare non solo telefoni fissi ma anche utenze cellulari. Sono alcune delle richieste, molto concrete, che una delegazione di reclusi nel carcere di Sollicciano ha presentato ieri mattina al direttore Oreste Cacurri e che più tardi il Garante dei detenuti Franco Corleone ha illustrato al direttore del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Franco Ionta, in visita al carcere.

Ionta ha preso appunti e si è impegnato ad accogliere almeno alcune delle richieste. Da tre giorni i detenuti di Sollicciano - 950 contro una capienza massima accettabile di 600 posti - protestano per le difficilissime condizioni di vita in carcere. Lo fanno sbattendo pentole e utensili alle grate delle celle e in qualche caso dando fuoco a lenzuola e coperte. "Non c’è, da parte dei detenuti, un clima di rivolta", afferma Corleone. "Il senso di responsabilità mi fa pensare che le proteste possano mantenersi in ambiti civili", ha dichiarato Ionta: "L’amministrazione penitenziaria terrà conto delle richieste dei detenuti. Ma se le proteste dovessero degenerare, ciò non verrà assolutamente tollerato".

I detenuti stanno preparando una piattaforma di richieste e sperano di incontrare il sindaco Matteo Renzi, che andrà la prossima settimana. Per effetto del decreto sicurezza alcuni reclusi stranieri temono di perdere il lavoro in carcere perché non potranno avere il codice fiscale. Altri stranieri, a cui mancano meno di due anni a fine pena, vorrebbero concludere la detenzione nei loro paesi, ma per motivi burocratici non vengono estradati.

Martedì sera alle 23 si sono presentati a sorpresa ai cancelli di Sollicciano il senatore Marco Perduca, radicale eletto nel Pd, e il consigliere provinciale del Pdl Massimo Lensi, che hanno toccato con mano le pesantissime condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria: "Il personale è ridotto all’osso, sono costretti a turni lunghissimi e a rinunciare alle ferie". Un problema - ha detto Ionta - che non deve essere dimenticato.

Trani: 270 detenuti in protesta, anche con sciopero della fame

 

www.andrialive.it, 21 agosto 2009

 

Dalle minacce ai fatti: circa 270 detenuti del supercarcere di Trani hanno imboccato la strada della protesta contro il sovraffollamento delle celle. Dalle 21.00 alle 22.30 circa di ieri, giovedì 20 agosto, oltre 270 detenuti ristretti in una sola ala del carcere di Trani, aderendo alla manifestazione nazionale iniziata al Nord Italia da tutti i reclusi, hanno inscenato una forte concitata azione di protesta battendo qualunque oggetto contro le inferriate delle celle e delle finestre.

Secondo alcune indiscrezioni potrebbero aver lanciato anche bombolette di gas riversandole nel corridoio interno detentivo ed esterno delle finestre per attirare l’attenzione sulla difficile situazione di vivibilità all’interno delle carceri italiane.

La protesta potrebbe riprendere oggi, venerdì 21 agosto, da un momento all’altro con l’ulteriore passo: lo sciopero della fame da parte dei detenuti. Solo per avere l’idea di quello che sta avvenendo basta ricordare che la capienza del penitenziario è a pieno regime di 220 reclusi, mentre con una sola area aperta (circa la metà del carcere è in fase di ristrutturazione) sono presenti 278 reclusi quindi con un maggior sovraffollamento del 50% rispetto alla capienza ottimale. Nei giorni scorsi uno dei sindacati degli agenti di polizia penitenziaria, l’Osapp, aveva lanciato l’allarme: celle troppo piene e personale troppo esiguo. Una situazione esplosiva che puntualmente è detonata ieri.

"Il Personale di Polizia Penitenziaria - denuncia Domenico Mastrulli, vicesegretario nazionale del sindacato - le poche unità in servizio, circa una decina in quanto altri sono stati inviati in missione in ambito Regionale e Nazionale per la drammaticità del momento carcerario, nonostante il livello di guardia fosse altissimo, hanno brillantemente e professionalmente garantito la massima sicurezza e l’incolumità del sistema Penitenziario al Comando del nuovo insediato Commissario di reparto e della reggente Direzione che insieme ai Poliziotti hanno garantito le forme istituzionali".

"L’Osapp aveva ragione - prosegue Mastrulli - nel segnalare la drammaticità della questione nei giorni precedenti. I gravi fatti di ieri sera di Roma, Milano, Torino, Genova oggi tocca anche la Puglia e particolarmente Trani". "Nella circostanza l’Osapp -continua - segnala altresì il precario sistema Sanitario regionale nelle Carceri. Sono in corso contatti con il Dipartimento ed il Prap Puglia sulla drammaticità penitenziaria. Servono azioni forte del Governo,Garanzia istituzionale e livelli di guardia attraverso la concertazione del Ministro della Giustizia, Interni e Difesa. Bisogna recuperare ogni singola unità oggi impegnata in servizi di Uffici e non istituzionali".

Frosinone: necessarie risposte da chi ha responsabilità politica

 

Il Tempo, 21 agosto 2009

 

Sulla situazione delle carceri non dovrà calare il sipario, soprattutto a conclusione dell’iniziativa della visita ispettiva di Ferragosto negli istituti penitenziari, che ha interessato anche le carceri della nostra provincia.

Ora si aspettano le risposte politiche e che vengano investite le risorse necessarie a risolvere le problematiche esistenti. "Sono molto contento che anche il procuratore capo della Repubblica di Frosinone, dottoressa Gerunda, abbia sentito l’urgenza e la necessità di intervenire sulla vicenda delle carceri, riconoscendo la validità delle questioni sollevate e convenendo sulla necessità che le strutture penitenziarie assicurino condizioni accettabili di permanenza dei reclusi" ha spiegato Pier Paolo Segneri, punto di riferimento provinciale dei Radicali Italiani, tra i protagonisti delle visite in carcere dello scorso fine settimana.

"Abbiamo sottolineato, nel corso delle visite, il grande impegno del personale e degli organi preposti che si occupano degli istituti penitenziari. Ribadisco il mio ringraziamento al personale che a vario titolo lavora nei vari istituti visitati, per quanto stanno facendo - ha aggiunto Segneri - fermo restano che le problematiche, laddove ci sono, vanno affrontate e risolte. Senza fare allarmismi, naturalmente". "Ora si aspettano le risposte politiche ad una situazione le cui carenze, evidentemente, sono di origine politica. Sono necessarie risposte concrete - ha aggiunto Segneri - adesso, chi ha le responsabilità a livello istituzionale e politico deve attivarsi".

In primis sul problema della carenza degli agenti che, infatti, per quanto riguarda la struttura penitenziaria di Frosinone, era già stato evidenziato nei giorni seguenti alla visita ispettiva: 213 agenti effettivamente in servizio per una pianta organica che ne prevede 260. Un problema da risolvere al vertice e che, come ha spiegato anche il procuratore nel suo intervento di due giorni fa, "rientra nella generale carenza di personale che affligge tutti gli uffici statali, a causa dei ritardi ormai cronici nella copertura degli organici". "Sicuramente bisogna continuare in questa direzione - ha concluso Segneri - noi continueremo a lavorarci come abbiamo sempre fatto".

Locri: concerto del gruppo di musica popolare "i Calabria Show"

 

Asca, 21 agosto 2009

 

Grande successo ha ottenuto l’esibizione del gruppo di musica popolare "I Calabria Show" presso la Casa Circondariale di Locri. Il gruppo, nato a Reggio Calabria nel 2005 su iniziativa di alcuni appassionati di musica popolare e di strumenti tipici calabresi, ha intrattenuto circa ottanta detenuti dell’istituto penitenziario di Locri con canti calabresi e intramezzati da tarantelle con organetto e tamburello.

I dieci artisti che sono venuti a Locri (De Stefano Domenico cl. 81, De Stefano Domenico cl. 58, Fotia Saverio, Manto Giuseppe, Ripepi Domenico, Surace Antonio, Surace Pietro Donato, Tomasello Antonio e il presidente Suraci Giovanni) hanno presentato un percorso musicale a ritroso nel tempo che ha richiamato antiche ballate e personaggi storici rappresentativi della cultura calabrese. Non a caso il programma musicale ha riguardato brani musicali come "u pecuraru", in riferimento ad un mondo arcaico aspromontano, "u briganti" con cenni storici alla dominazione Borbonica del XIX secolo e "allarmi allarmi" in riferimento alle invasioni subite dalle popolazioni delle nostre coste sopratutto ad opera dei Turchi.

Il gruppo, che già vanta anche esperienze fuori regione, specialmente in Lombardia dove ha riscosso apprezzamenti e il plauso dei molti corregionali lì residenti, ha entusiasmato i detenuti presenti a Locri attraverso il suono melodioso di particolari strumenti della musica popolare, quali l’organetto a due bassi, la lira, il tamburello, la fisarmonica e la chitarra battente.

A conclusione dell’iniziativa, il Comandante del Reparto della Polizia Penitenziaria di Locri, Domenico Paino, ha ringraziato il gruppo musicale "I Calabria Show", evidenziando la gratuità dell’esibizione e l’alto valore educativo dello spettacolo che è stata un’ulteriore occasione non solo di intrattenimento ma anche di crescita ed edificazione per i detenuti presenti. Come ultima canzone dello spettacolo "I Calabria Show" hanno voluto dedicare un pezzo molto famoso in ricordo del compianto Mino Reitano, recentemente scomparso, e hanno cantato "Calabria mia" dell’artista di Fiumara che è stata accolta con grande passione e un pizzico di commozione da parte dei presenti.

Tale spettacolo musicale, insieme a tutti quegli altri che hanno allietato e continueranno ad allietare l’estate dei detenuti di Locri, sono nati dalla collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Locri con tutti quei gruppi musicali e teatrali della provincia di Reggio Calabria che hanno accolto l’invito a donare il proprio tempo e le proprie competenze ai detenuti del carcere di Locri. Si tratta di un primo passo del carcere che si apre al contributo volontario di tutti coloro che anche in futuro vorranno offrire il proprio talento per l’attività rieducativa dei detenuti di Locri.

Libro: "Questioni di identità", del Cappellano don Pietro Zardo

 

Il Gazzettino, 21 agosto 2009

 

Uscirà ai primi di settembre il libro in cui don Pietro Zardo, cappellano delle carceri di Treviso, racconta la sua esperienza a Carlo Silvano, direttore della collana "Questioni di identità" della Edizioni Ogm di Villorba; Silvano è autore di altre pubblicazioni.

Il testo sotto riportato è preso dalla bozza definitiva del libro, ed è stato scelto con riguardo in particolare al territorio trevigiano e ai rapporti di don Zardo con i detenuti qui presenti e con fatti avvenuti nella Marca. Molto altro nel testo riguarda invece più vaste questioni di religione e di avvicinamento di un prete cattolico alla massa di detenuti che viene da molte parti del mondo e da "credi" assolutamente diversi tra loro, a volte lontanissimi dalla chiesa, religione ufficiale dello Stato italiano.

L’insieme dello scritto che è uscito dalla lunga "intervista" è molto interessante: un raro contributo che può servire come informazione a tutti, ma anche come conforto alle famiglie. Treviso è un carcere noto per la severità delle sue regole ma anche per la tranquillità in cui i detenuti vi possono soggiornare.

 

Cosa ha provato la prima volta che è entrato in un carcere?

"Ho conosciuto il mondo carcerario nel 1996. Quando penso al mio primo ingresso, ricordo che provai un’emozione molto strana, per certi aspetti impressionante: capisci subito di trovarti in un ambiente difficile. Percorrere corridoi e locali di un edificio dove si sentono grida e dove vedi dappertutto cancelli, porte, chiavi, sbarre, ti costringe a interrogarti sul senso della libertà e ti chiedi dove sei finito. Il carcere è un luogo disumano dove vige la regola della sopravvivenza. Ciascuno vive per sé. Non esiste quel sistema relazionale che ti permette uno scambio di sentimenti umani, come quelli legati all’accoglienza, alla fiducia, alla solidarietà. Non ci sono aree comuni e anche i pasti vengono consumati in cella".

 

Qual è la media annua delle presenze in carcere?

"Per i primi mesi del 2009 abbiamo una media di circa 300 persone. Se li confrontiamo con i dati del mese di gennaio 2007, quando i reclusi erano 159, possiamo dire che le presenze sono raddoppiate".

 

Ma il carcere di Treviso quanti detenuti può ospitare?

"È una struttura che, in base alle autorizzazioni rilasciate dal ministero, può ospitare 128 reclusi. È chiaro che, man mano che i detenuti aumentano, lievitano anche i problemi, dovuti soprattutto agli spazi, sia per quanto riguarda le celle che le aree comuni. Soprattutto nella stagione calda gli ambienti dei reclusi diventano insopportabili per il mancato circolo di aria fresca. A causa del caldo soffocante, dell’aria impossibile da respirare per i cattivi odori, e degli ambienti chiusi e ristretti, ci sono giorni in cui ai detenuti sembra di vivere in un luogo infernale".

 

In carcere arrivano anche i tossicodipendenti.

"Sì, e anche se non sono in tanti, tuttavia la loro è una presenza costante. In carcere i tossici interrompono l’uso della droga e, grazie al personale sanitario, vengono seguiti col metadone. Ma chi finisce in una cella in compagnia di quei tossici che sono anche piccoli spacciatori, è sottoposto a un duro martellamento psicologico perché i ragazzi che spacciano non fanno altro che parlare di droga, a tutte le ore".

 

Sono molti i detenuti immigrati?

Nella Casa circondariale di Treviso gli stranieri rappresentano circa il 70 per cento della popolazione carceraria. La maggior parte viene dal Nordafrica, con un senso quasi di avventura. Ci sono invece persone che provengono dal Centrafrica portandosi dietro la realtà tipica dei loro Paesi di origine, come guerre, carestie, epidemie e fame; scappare è la loro unica carta da giocare per evitare una morte certa nel proprio Paese. Perciò preferiscono affrontare l’interrogativo che si cela dietro un lungo viaggio: sono consapevoli, ad esempio, che quando attraverseranno il deserto del Sahara, si troveranno a camminare ai lati di una lunga scia di cadaveri umani, cioè di persone - come bambini e donne - che sono morte di stenti. Non mancano persone dell’Est Europa e anche dell’America Latina. Ci sono situazioni veramente limite, come quella di un algerino che, uscito dal carcere dopo aver scontato la pena per aver commesso un furto, ne ha commesso subito un altro per poter rientrare, altrimenti, avendo il foglio di via, avrebbe dovuto tornare nel proprio paese, dove avevano già dato fuoco al fratello. La persecuzione purtroppo è un dato di fatto in quello come in altri Paesi africani. Il diritto di asilo dunque non viene esercitato e riconosciuto sempre".

 

In carcere finiscono anche gli innocenti?

"Nella mia esperienza di cappellano al carcere di Treviso mi sento di poter mettere la mano sul fuoco solo sul caso di una persona condannata per omicidio. Nell’estate del 1999 un 52enne viene trovato morto nella propria abitazione, col corpo che presentava numerose ferite provocate con un’arma da taglio. La vittima era stata sgozzata. Una moglie, amante della vittima, accusò il marito e nel giro di qualche giorno gli investigatori ritennero chiuso il caso: l’omicida avrebbe agito perché spinto dalla gelosia. Ma lui si è sempre professato innocente: la decisione dei giudici merita rispetto, ma leggendo le carte processuali emergono diversi interrogativi. Ecco, era un uomo delle nostre terre che, pur sui cinquant’anni, ragionava con la sapienza che ancora esiste in certi ambienti rurali e che non mi sembrava affatto colpevole. Mi stupiva per certe sue citazioni che mi facevano riandare a come la gente un tempo si esprimeva. Diceva: "Io comunque ogni sera e ogni mattina prego per chi mi ha mandato qua dentro".

 

Attualmente quali sono le forme di volontariato che operano nel carcere di Treviso?

"Si è cominciato da un volontariato centrato intorno alla scuola, poi la parte scolastica è stata assunta dagli istituti statali del territorio. C’era un volontario che faceva la lettura critica dei giornali. Nel carcere minorile c’è poi un volontariato molto attento a gestire gli spazi vuoti di tempo. Vogliamo sviluppare appuntamenti dedicati, ad esempio, alla musica, perché aiutano a sgonfiare la tensione".

Immigrazione: l’indifferenza che uccide nel Mar Mediterraneo

di Andrea Onori

 

Periodico Italiano, 21 agosto 2009

 

Ieri mattina cinque migranti eritrei, in pessime condizioni, sono stati soccorsi al largo di Lampedusa da una motovedetta della Guardia di Finanza. Gli immigrati hanno raccontato ai soccorritori che sono partiti dalle coste libiche in 78. Sono rimasti in mare per 20 giorni a causa dell’esaurimento carburante e durante questi giorni, 73 persone sarebbero decedute anche a causa dell’indifferenza generale.

La Guardia di Finanza sta cercando riscontri a questo racconto che viene comunque ritenuto "compatibile" sia con lo stato di salute dei cinque superstiti, trovati in condizioni pietose, sia con la capienza dell’imbarcazione. Secondo quanto si apprende da fonti del Viminale, dai perlustramenti navali e aerei fatti nei giorni scorsi nel canale di Sicilia non sarebbero stati avvistati cadaveri: gli unici sono i quattro recuperati da Malta.

Un giovane eritreo, Habeton di 17 anni, sopravvissuto a 20 giorni di mare, ha raccontato a Save the children di essere partito il 28 luglio da Tripoli, a bordo di un barcone con altre 77 persone a bordo, per lo più eritree e in minima parte etiopi. Dopo 6 giorni di viaggio però erano terminati cibo, acqua, benzina e i cellulari erano ormai scarichi. A questo punto molte persone sono iniziate a sentirsi male e poi a morire e man mano che morivano venivano gettate in mare.

Nel corso del drammatico viaggio sono state almeno 10 le imbarcazioni incrociate nel mar mediterraneo, racconta l’Eritreo. A loro è stato chiesto inutilmente un aiuto. Solo nei giorni scorsi i superstiti hanno incrociato un pescatore che ha dato loro acqua e cibo."È inaccettabile l’indifferenza crescente nei confronti dei migranti, anche in situazione di evidente gravità. È fondamentale che principi quale quello del soccorso a migranti che rischiano la vita, in mare, tornino ad essere rispettati", commenta Carlotta Bellini, Responsabile di Save the Children Italia.

"Sembrava un fantasma: il corpo era ridotto a uno scheletro, gli occhi persi nel vuoto. Mi ha ricordato Fatima, la ragazza somala che raccogliemmo da un barcone convinti che ormai fosse morta". È il racconto fatto ai cronisti da uno degli operatori umanitari del centro di accoglienza che in mattinata hanno assistito l’unica donna eritrea sbarcata a Lampedusa con gli altri quattro connazionali.

Dura condanna per l’indifferenza e l’omissione di soccorso nei confronti dei migranti alla deriva nel Mediterraneo è venuta anche da Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati che dice: "È allarmante che per oltre 20 giorni queste persone abbiano vagato nel Mediterraneo senza che nessuna imbarcazione le abbia soccorse. Un triste primato che preoccupa enormemente. Come se stesse prevalendo la paura di aiutare sul dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare. Come se fosse passato il messaggio che chi arriva via mare sia una sorta di "vuoto a perdere". L’adozione di politiche alquanto inefficaci e di una xenofobia dilagante porta anche all’indifferenza per la morte di 73 esseri umani indifesi. L’Italia resta a guardare così come tutta la comunità europea che non collabora e resta nell’indifferenza totale.

Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati ha detto che "Dopo il primo respingimento dello scorso maggio, il numero di sbarchi è drasticamente diminuito, ma l’Italia ha detto a metà luglio alla Commissione europea che non avrebbe più fatto respingimenti e ciò non è vero perché ci risulta che nella prima parte di agosto ne siano stati fatti altri. Ce l’hanno comunicato i migranti stessi respinti in Libia, dove siamo presenti in un centro per immigrati".

Indifferenza dell’ Europa e di molta stampa si è vista anche nei confronti del bagno di sangue di migranti a Benghazi (Libia) dove almeno 20 rifugiato Somali sarebbero stati uccisi dalla polizia nella prima settimana di agosto. Sei di loro sarebbero morti accoltellati e più di 50 feriti dalla polizia libica al momento della fuga dai centri di espulsione di Ganfuda. I feriti sono rimasti in cella ancora sanguinanti, hanno tagli alle gambe, sulle braccia, sulla testa. Questo è il racconto fatto da un testimone telefonicamente a Fortress Europe.

Il testimone racconta che nel centro "ci sono persone ammalate di scabbia, dermatiti e malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua, e quotidianamente sottoposte a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia. La tensione è tale che il gruppo dei detenuti somali decide di tentare l’evasione."

Immigrazione: Cei; strage in mare, una grave offesa a umanità

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2009

 

Sono in corso le ricerche nel Canale di Sicilia per rilevare la presenza di eventuali corpi. Il pattugliamento è stato disposto dalla procura di Agrigento dopo il racconto dei cinque eritrei soccorsi giovedì mattina a sud di Lampedusa: uno degli immigrati ha affermato che 73 compagni di viaggio sarebbero morti durante la traversata. Gli investigatori raccoglieranno le dichiarazioni anche degli altri quattro superstiti, una donna, un minore e altri due uomini. Il procedimento aperto dai magistrati della città dei templi è contro ignoti e riguarda, allo stato, l’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Il prefetto di Agrigento, Umberto Postiglione, dovrà inviare una relazione al ministero dell’Interno. "Fa parte delle normali procedure che vengono attivate ogni qual volta si verifica uno sbarco - spiega. - La segnalazione è arrivata da Malta al Gruppo aeronavale della Guardia di Finanza di Messina che l’ha subito girata a Lampedusa. Immediatamente sono uscite le motovedette che hanno soccorso i cinque, che sono stati subito portati al molo Favaloro e sottoposti al triage sanitario. Sulla barca - ha detto ancora il prefetto - i finanzieri non hanno trovato tracce di altre persone. Poi hanno raccontato della traversata durata tre settimane e della morte degli altri compagni e di questo si sta occupando l’autorità giudiziaria".

Intanto le Forze armate di malta smentiscono la notizia secondo cui quattro corpi di migranti sono stati recuperati dal mare dai soldati maltesi: contattati dal sito del quotidiano "Times of Malta", un portavoce dell’esercito ha dichiarato che non 4 ma 7 corpi sono stati avvistati in mare fra martedì e oggi, ma nessuno è stato recuperato.

Sulla vicenda interviene la Cei. "La strage in mare è una grave offesa all’umanità" afferma monsignor Bruno Schettino, Presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e arcivescovo di Capua. Si percepisce, ha detto monsignor Schettino "un senso di povertà dell’umanità, non c’è attenzione verso l’altro, verso gente che è in fuga dalla guerra, dalla miseria, dalla povertà in cerca di serenità e di pace". "È una morte assurda - aggiunge - donne e bambini innocenti gettati in mare, è il senso dell’uomo che decade, urge l’impegno dei cristiani di attivarsi concretamente verso coloro che soffrono, il problema è umano prima che politico".

Duro anche il commento dell’Avvenire. Il quotidiano dei vescovi parla di "Occidente a occhi chiusi" che non vuole vedere i barconi di clandestini, così come durante il nazismo nessuno vedeva i treni pieni di ebrei diretti ai campi di concentramento. "Nessuna politica di controllo dell’immigrazione - si legge nell’editoriale in prima pagina - consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. E questa legge ordina: in mare si soccorre". A terra poi si guarderà a "diritto di asilo, accoglienza, respingimento". Ma prima "le vite si salvano". Invece "quel barcone vuoto" arrivato sulle coste di Lampedusa, dimostra che oggi si fa strada "un’altra legge. Non fermarsi, tirare dritto", la "nuova legge del non vedere".

"Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo - scrive Marina Corradi - ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo". "Così è stata violata una legge antica - conclude l’editoriale - che minaccia le nostre stesse radici. Le fondamenta. L’idea di cos’è un uomo, e di quanto infinitamente vale".

Immigrazione: gli eritrei in fuga dall’inferno, il Paese alla fame

di Massimo A. Alberizzi

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2009

 

Gli ottanta eritrei - di cui solo cinque arrivati salvi in Italia - sono scappati dall’inferno. Un inferno fatto di quotidiane violazioni dei diritti umani, dove la personalità dei cittadini viene annientata e distrutta nel nome di un utopistico e irraggiungibile bene supremo. Assieme alla Guinea Equatoriale, l’Eritrea è oggi governato dalla dittatura più rigida e repressiva di tutta l’Africa.

Il presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese, comanda con il pugno di ferro e sembra ossessionato dalla guerra. Ha attaccato quasi tutti i Paesi vicini: l’Etiopia, Gibuti e lo Yemen. Secondo le Nazioni Unite protegge, finanzia e addestra i gruppi ribelli islamici in Somalia. L’uomo che negli anni Ottanta veniva applaudito come un combattente per la libertà, una volta al potere si è rivelato uno spietato tiranno. Il suo Paese è ridotto alla fame. I negozi sono vuoti; il carburante è razionato.

Ecco come Amnesty International dipinge l’ex colonia italiana sul mar Rosso: "Il governo ha vietato i giornali indipendenti, i partiti di opposizione, le organizzazioni religiose non registrate e di fatto qualsiasi attività della società civile. All’incirca 1.200 richiedenti asilo eritrei rimpatriati forzatamente dall’Egitto e da altri Paesi sono stati detenuti al loro arrivo in Eritrea. Analogamente, migliaia tra prigionieri di coscienza e prigionieri politici sono rimasti in detenzione dopo anni trascorsi in carcere.

Le condizioni delle prigioni sono risultate pessime. Coloro che venivano percepiti come dissidenti, disertori e quanti avevano eluso la leva militare obbligatoria, o altri che avevano criticato il governo sono stati, assieme alle loro famiglie, sottoposti a punizioni e vessazioni. Il governo ha reagito in modo perentorio contro qualsiasi critica in materia di diritti umani".

I cittadini eritrei nella loro stessa patria sono sottoposti a restrizione nei movimenti. Spie e polizia sono ovunque.

Come in Corea del Nord il partito controlla ogni cosa: la attività economiche e la vita quotidiana, fatta di continui sospetti anche all’interno di una stessa famiglia. I giovani eritrei fuggono perché la loro unica prospettiva è finire a Sawa, un enorme e durissimo centro d’addestramento reclute dove chi entra è sottoposto a un vigoroso lavaggio del cervello. I commissari politici insegnano a sospettare "dei nemici della rivoluzione e del popolo". La leva militare non ha durata fissa. Si può restare sotto le armi anche anni. In questi giorni i siti dei dissidenti eritrei hanno pubblicato la notizia di un tentativo di assassinare Isayas, avvenuto il 13 agosto, sventato dalle sue guardie del corpo che hanno ammazzato l’attentatore sul posto.

Il 18 settembre 2001 sono scomparsi in un gulag eritreo tredici ministri - tra cui l’ex capo dell’intelligence ed eroe della rivoluzione eritrea, Petros Solomon - che avevano firmato un manifesto con il quale chiedevano democrazia e libertà. Finiti chissà dove e forse morti. Giornalisti stranieri che hanno "osato" criticare il regime, sono stati ripagati con una condanna a morte in contumacia.

Isayas Afeworki viene spesso in Italia, anche in visita privata. Nessuno lo tratta da tiranno, piuttosto da amico. Non ricambia la cortesia e taglieggia in continuazione i nostri connazionali che vivono in Eritrea o hanno ancora interessi laggiù.

I rifugiati che abitano da noi hanno paura: per loro o per i parenti restati in patria. Ci sono stati casi di palesi aggressioni. L’ultima in ottobre scorso quando al festival eritreo a Roma, militanti regolarmente autorizzati che distribuivano volantini di Amnesty International sono stati presi a pugni calci e bottigliate.

Immigrazione: sette nordafricani evadono dal Cie di Gradisca

 

Ansa, 21 agosto 2009

 

Sette immigrati sono fuggiti stamani all’alba dal Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Gradisca d’Isonzo dopo essere riusciti ad allargare, con attrezzi rudimentali, le sbarre delle loro camere.

Altri due immigrati, che stavano tentando di scappare attraverso i tetti della struttura, sono stati bloccati dalle forze dell’ordine. I sette evasi - si è appreso da fonti della Prefettura di Gorizia - sono di nazionalità algerina e tunisina e sono tuttora ricercati dalle forze dell’ordine.

Prima della fuga di stamani, nel Cie di Gradisca d’Isonzo vi erano 194 immigrati a fronte di una capienza di 198 persone. Dopo le violente proteste dello scorso 9 agosto, quando un centinaio di immigrati sono saliti sui tetti della struttura e hanno danneggiato impianti e suppellettili, 30 immigrati (fra quelli considerati più pericolosi dalle forze dell’ordine) sono stati trasferiti nel Cie di Milano e nella struttura è stato adottato un regime più restrittivo.

In particolare, gli immigrati sono stati consegnati nei loro alloggi ed è stata abolita la possibilità di stare all’aperto e nelle zone comuni. Secondo la Prefettura di Gorizia, da qualche giorno la situazione appariva tranquilla al punto che si stava valutando l’ipotesi di ripristinare un regime di vita normale in vista dell’avvio del Ramadan. Dopo le fughe di stamani - hanno riferito fonti della Prefettura - tale ipotesi non è più presa in considerazione, almeno per il momento.

Honduras: detenzione e processo arbitrario, in almeno 27 casi

 

Associated Press, 21 agosto 2009

 

Almeno 27 honduregni sono stati sottoposti a giudizi iniziati martedì e continuati questo mercoledì, per i fatti registrati nel Congresso honduregno la settimana precedente, dove centinaia di manifestanti hanno protestato contro il regime e chiesto il ritorno del Presidente legittimo Manuel Zelaya.

In questa protesta del Fronte della Resistenza, che ormai compie 53 giorni, contro il Colpo di Stato, i manifestanti sono stati aggrediti dalla polizia honduregna, istruita dal regime illegittimo istallatosi in Honduras a partire dal passato 28 giugno.

La maggior parte dei catturati si trovavano in realtà fuori dal perimetro della protesta. I presunti implicati nel fatto saranno giudicati per ribellione, danni alla proprietà privata e svolgimento di manifestazioni illecite.

Uno dei detenuti, Justo Mondragòn, ha denunciato a Telesur che "stando seduti nel Parque Central, ci hanno presi, picchiati e portati negli scantinati del Congresso dove si trovano le statue, e lì hanno continuato a massacrarci.

Secondo fonti di informazione, 11 degli imputati sono rimasti detenuti nel principale centro penitenziario del Paese durante lo svolgersi del relativo giudizio nella Corte Suprema. Contemporaneamente allo svolgersi del processo, i sostenitori di Manuel Zelaya, hanno continuano a manifestare per le strade, appostandosi di fronte alla Sala delle Sentenze della Corte Suprema di Giustizia (CSJ), dove hanno preteso la libertà dei 27 accusati.

Marco Tulio Amaya, del gruppo di avvocati difensori dei manifestanti, ha informato che durante l’udienza di tre ore della prima giornata, sono state presentate varie istanze di nullità per violazioni ai diritti umani ed obiezioni contro il Procuratore Gloria Barahona, per aver insultato gli imputati ed aver forzato lo stato d’innocenza.

Nel frattempo, centinaia di honduregni hanno pacificamente marciato verso l’Ambasciata statunitense a Tegucigalpa in protesta al rovesciamento dell’ordine costituzionale nel Paese centroamericano. Da parte sua, la prima dama Xiomara Castro, ha reiterato alla Commissione dei diritti umani della OEA con sede nel Paese, la necessità che si agisca contro i golpisti al potere, "visto che sono già passati parecchi giorni", ha precisato.

 

 

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