Rassegna stampa 20 agosto

 

Giustizia: dal nord al sud, dietro le sbarre esplode la protesta

di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone Napoli)

 

Il Manifesto, 20 agosto 2009

 

Esplode la tensione nelle carceri italiane dopo ferragosto. Ormai sono quasi 65mila i detenuti per una capienza regolamentare di 43mila posti. Dietro le sbarre fino al 31 luglio sono morte 118 persone, con 45 suicidi. Le proteste di questi ultimi giorni rischiano di assumere i profili della rivolta.

In diversi istituti la tensione è sfociata in episodi di forte contestazione, mentre sono almeno dieci i penitenziari sotto osservazione per il timore di nuove possibili proteste. A Como, 400 presenti con una capienza di circa 100 detenuti, la protesta è stata dura ed è durata tre giorni. È cominciata con la battitura delle gavette sulle celle e i detenuti sono giunti a far esplodere le bombolette di gas utilizzate per cucinare.

I corridoi di una sezione sono stati inondati di acqua e sapone. Tre sezioni su sei sono state coinvolte nella protesta che è terminata solo al termine di un incontro con la direzione. Nel carcere di Sollicciano, nel quale sono presenti circa mille reclusi a Firenze, i detenuti hanno dato fuoco a lenzuola, giornali, suppellettili e hanno dato vita ad una intensa battitura delle celle, al grido di "libertà". Per riportare la calma nella struttura è stato necessario anche l’intervento di supporto di polizia e carabinieri.

Anche ad Arezzo, 140 presenti per una capienza ufficiale di 65 posti, i detenuti hanno bruciato lenzuola e asciugamani e si sono registrati scoppi di bombolette di gas. Protesta dura, ma pacifica, che è terminata con un incontro, tra detenuti e direzione. Si torna ad utilizzare perle carceri, forse con un eccesso di enfasi, la parola "rivolta" che sembrava ormai dimenticata. E invece, complici l’irrefrenabile aumento di detenuti dopo l’indulto e la fatiscenza delle carceri italiane, il clima torna ad essere teso.

Uno scenario prevedibile, visto che già a giugno scorso Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, annunciava "un’estate difficile", visto che il sovraffollamento è "un fenomeno che condurrà ad atti di estrema disperazione". Uno scenario che accomuna, insolitamente, Nord e Sud del paese.

A Milano San Vittore, 1.372 presenze per una capienza di 712 posti, secondo i dati di Giorgio Bertazzini, il garante provinciale per i diritti dei detenuti, ci sono stati 200 casi di autolesionismo e un suicidio nei primi mesi del 2009. In celle da 10 metri quadri si trovano fino sei detenuti. A Udine invece, nelle celle da 30 metri quadri si arriva a 10 detenuti. Qui i presenti sono 216 contro una capienza di 105 posti. I detenuti hanno fatto lo sciopero della fame per tre giorni. Esplode anche il Dozza di Bologna, 1.150 persone su una capienza di 437 posti, quasi il triplo. Tanto che Desi Bruno, il garante bolognese, ha definito la struttura "vicina al collasso".

Un po’ meno critiche le condizioni a Roma del carcere di Regina Coeli, dove ci sono "solo" 120 detenuti in più rispetto alla capienza di 760 posti. In Campania, su tutti, ovviamente, spicca il carcere di Poggioreale a Napoli, che con le sue 2.549 presenze e fino a 12 persone per cella, è insieme uno degli istituti più grandi e più sovraffollati d’Europa. Meno nota, ma non meno grave la condizione del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove al sovraffollamento (940 presenti su 540 posti) si è aggiunta una carenza d’acqua che ha portato prima al razionamento e poi all’uso delle autobotti dei pompieri.

Situazione critica anche in Sicilia. Nel carcere di San Giuliano a Trapani, 500 presenti per una capienza di 280 posti, ad Agrigento 444 presenti su una capienza di 190 posti, all’Ucciardone di Palermo, (690 detenuti per una capienza di 419), problemi di approvvigionamento idrico e assenza di impianti di riscaldamento.

A fare la sintesi delle problematiche di ciascun istituto emerge un quadro deprimente. Molti penitenziari sono "strutturalmente" inadeguati ai nuovi standard penitenziari. In molti casi nelle celle non ci sono le docce/in altri il bagno non va oltre un lavandino e un water da dividere in troppi. Gli edifici di vecchia costruzione assorbono molte risorse ma non si prestano ad interventi di modifica strutturale. L’assistenza sanitaria è in molti casi pregiudicata dalla difficoltà delle Asl di assumere realmente la responsabilità della sanità penitenziaria decisa finalmente dal governo Prodi. In molte regioni meridionali, i deficit di bilancio e la lentezza del reale trasferimento di competenze e risorse determina tempi lunghi anche per effettuare esami medici non complessi come le lastre.

A ciò bisogna sommare la carenza di personale civile (educatori, psicologi, mediatori) e la lamentata carenza di organico da parte dei sindacati del corpo di polizia penitenziaria che conta circa 43mila agenti. Sono proprio i sindacati autonomi i critici più severi della gestione di Franco Ionta, il pubblico ministero chiamato dal governo Berlusconi a presiedere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e a cui è affidato anche il ruolo di commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Il Sappe è arrivato ad accusarlo di "incapacità" e a chiederne apertamente le dimissioni.

Dal canto suo Ionta nei giorni scorsi non ha negato le evidenti difficoltà negli istituti di pena e ha dichiarato che "serve più personale", e "l’esercito potrebbe darci una consistente mano nella vigilanza all’esterno della carceri" e

che "ciò rappresenterebbe un ragionevole ruolo sociale per i militari". Per Ionta, inoltre, è necessario realizzare il piano di edilizia penitenziaria "per il quale però servono risorse".

Il Piano straordinario, più volte annunciato dal ministro Alfano, sarà discusso dal consiglio dei ministri solo a settembre. Prevede la creazione di 17.891 nuovi posti entro il 2012 attraverso 48 nuovi padiglioni in carceri già esistenti, la ristrutturazione di due istituti e la realizzazione di 24 nuovi penitenziari. Il tutto a un costo di 1,5 miliardi di euro.

Ma al momento sono disponibili solo 200 milioni. Per il resto si ipotizza il ricorso ai privati, con forme che al momento non sono note. Bisogna anche aggiungere che anche se il Piano fosse realizzato nel 2012, con questo andamento negli ingressi, si può comunque stimare un sovraffollamento di 15mila detenuti. In assenza di altre scelte politiche, quindi, ciò che è emergenza oggi sarà emergenza anche domani.

 

I numeri dell’inciviltà

 

Sono ormai stabilmente 20mila più dei posti disponibili. Al 31 luglio i detenuti italiani erano quasi 64mila (vedi tabella nella pagina a fianco), a fronte di 43.327 posti regolamentari. Lo stato insomma viola le sue stesse leggi, incapace di adeguare la reclusione non solo alla finalità costituzionale che le è propria ma anche al regolamento penitenziario che esso stesso si è dato soltanto pochi anni fa. I casi di sovraffollamento più vistoso (oltre un terzo della capienza ordinaria) si registrano in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Sicilia, Puglia e Campania. Un terzo dei detenuti è straniero. Sono ben 23.516, il 36% circa del totale. In tutto, quasi 20mila reclusi devono scontare una pena inferiore ai tre anni.

Teoricamente, secondo calcoli mai discussi pubblicamente del ministero della Giustizia, la capienza "tollerabile", un concetto amministrativo e non certo regolamentare, sarebbe di 64.111 unità. Come si vede, dunque, la soglia massima è ormai prossima da qualunque punto di vista.

Nei giorni di ferragosto, dal 14 al 16, i Radicali Italiani hanno organizzato la "più grande visita ispettiva" mai realizzata dietro le sbarre. 167 parlamentari nazionali e regionali hanno visitato 189 istituti su 220 che si trovano nel nostro paese, constatando una situazione prossima al collasso e anche la mancata capacità del governo a intervenire.

 

In 10 anni morti 1.500 detenuti

 

Lontana l’epoca delle rivolte organizzate collettivamente. Oggi le proteste nelle carceri sono sempre più spesso estemporanee, individuali, prive di obiettivi non immediati. Spesso il segnale del disagio si nasconde in atti estremi come l’autolesionismo o, peggio, il suicidio.

Dietro le sbarre, registra l’associazione Ristretti Orizzonti, ci sono stati quest’anno ben 45 suicidi (dati aggiornati al 31 luglio scorso). Un numero altissimo, che dimostra l’invivibilità degli istituti di pena al collasso. Negli ultimi dieci anni, come dimostra la tabella accanto, sono morti per le cause più varie (da quelle naturali a overdose e malattie non seguite) ben 1.500 persone, un terzo circa si sono tolte la vita.

Sovraffollamento e mortalità sono notoriamente collegati. Subito dopo l’indulto, infatti, sempre nei primi sette mesi dell’anno si sono registrati "solo" 24 suicidi (gennaio-luglio 2007). Un dato già in crescita l’anno scorso con 29 persone che si sono tolte la vita. Quest’anno, a carceri strapiene, sono state già quasi il doppio.

Oltre ai detenuti in attesa di giudizio definitivo, che in passato sono arrivati anche a sfiorare la metà dei presenti, colpisce che circa 20mila detenuti italiani sui 64mila presenti in totale debbano scontare una pena inferiore ai tre anni. Un periodo di tempo, cioè, in cui è ben ipotizzabile un affidamento esterno ai servizi sociali per un reinserimento graduale nella società più che una permanenza per 22-23 ore al giorno senza poter fare nulla in una cella con altre 6-10 persone.

Giustizia: la protesta che smonta il "Piano carceri" di Alfano

di Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze)

 

Il Manifesto, 20 agosto 2009

 

Il carcere di Firenze in questi giorni si è reso protagonista di manifestazioni vibranti per rivendicare diritti minimi alla vita e alla dignità. Sarebbe troppo sbrigativo e pericoloso parlare di rivolta, anche per non alimentare la voglia di chi vorrebbe menare le mani in nome dell’ordine e della sicurezza.

La direzione del carcere ha privilegiato la via del dialogo invece che quella dei rapporti e delle sanzioni. Ieri mattina ho partecipato a una lunga riunione con oltre trenta detenuti in rappresentanza delle sezioni del penale e soprattutto del giudiziario che è al centro della protesta per la durezza delle condizioni esistenziali.

Tutti hanno parlato, italiani e stranieri, dando una dimostrazione di solidarietà pur nella diversità di aspettative e di relazioni. È stato un bagno di concretezza, attraverso l’illustrazione di un catalogo di esigenze che all’osservatore estremo possono apparire banali, minime, ma che in questo contesto invece sono davvero fondamentali.

La denuncia di un pane immangiabile, di cibo scarso e scadente, dell’ora d’aria ridotta, della mancanza della doccia la domenica, dello scarso uso del campo sportivo, dei costi del sopravvitto, dell’indecenza dei materassi, della mancanza di detersivi per garantire un minimo di igiene in cella e nei bagni. Sono solo alcune delle violazioni di diritti fondamentali denunciate.

Da questo incontro è scaturita una piattaforma rivendicativa per l’applicazione del Regolamento del 2000, che doveva costituire un primo tassello per la realizzazione della riforma penitenziaria. Ma giace inapplicato e dimenticato nei cassetti dei sogni impossibili. I detenuti hanno manifestato con chiarezza anche la necessità di un nuovo codice penale e soprattutto il timore di un sovraffollamento senza fine e incontrollato. A questo proposito, sanno bene il peso che una legge come quella sulle droghe comporta nell’equilibrio del carcere e hanno chiesto l’applicazione delle misure alternative per tutti e in particolare dell’affidamento speciale previsto per i tossicodipendenti. "Per avere una risposta per andare in comunità si aspetta un anno!" è stato il grido collettivo.

Un’altra questione drammatica emersa nel confronto è quella del rilascio del codice fiscale per gli stranieri; pare che dopo il decreto Maroni gli uffici delle Agenzie delle Entrate facciano maggiori difficoltà e senza questo documento non si può accedere neppure ai lavori domestici del carcere. Per gli stranieri ciò rappresenta una vera tragedia. Anche il divieto di telefonate dirette ai cellulari invece che ai telefoni fissi è fonte di grave disagio.

In tanti abbiamo lamentato in questi anni il silenzio del carcere, ridotto a deposito di corpi abbandonati e destinati all’autolesionismo, l’unico linguaggio a disposizione degli ultimi della terra. Ora un primo fascio di luce ha illuminato questa enorme discarica sociale nelle giornate di ferragosto, grazie alla presa di parola dei prigionieri.

Occorrerà un impegno particolare da parte delle associazioni di volontariato impegnate sul carcere per rafforzare questo movimento nato dalla rivendicazione di bisogni essenziali e renderlo credibile come un interlocutore vero dell’Amministrazione penitenziaria.

È bastata la richiesta del pane e dei materassi per ridicolizzare e sotterrare il piano carcere del ministro Alfano, che bussa cassa all’Unione Europea per l’edilizia penitenziaria. Da oggi è chiaro che tutte le risorse disponibili devono essere utilizzate per migliorare le condizioni di vita quotidiana e per rispettare il principio costituzionale sul senso della pena. Non più carceri, ma meno carcere.

Giustizia: amnistia-indulto è l'unica soluzione... e lo sanno tutti

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 20 agosto 2009

 

Per far sentire oltre le mura il respiro affannato di chi è rinchiuso, l’impasto di sudore e afa, le brande infuocate, l’aria densa e immobile che affoga gli spazzi stracolmi delle celle, i detenuti avevano deciso la protesta del rumore, una delle più classiche e antiche manifestazioni che danno voce al mondo dei rinchiusi.

Una battitura ritmica delle inferiate realizzata con pentole, coperchi, bombolette del gas vuote, sgabelli e quant’altro si può percuotere contro le sbarre delle finestre o i blindati. Il tutto accompagnato da urla, fischi, slogan in favore dell’amnistia e dell’indulto. Presi dall’adrenalina altri, invece, hanno cominciato a dare fuoco a tutto quello che si poteva incendiare: giornali, lenzuola, stracci da mostrare alla città lontana.

No, non c’era nessun piano, nessun complotto in una situazione dove spesso manca la stessa grammatica per organizzare una protesta. Solo disperazione, tanta rabbia che esplode e accende gli animi. Provate voi a stare accatastati in quel modo, in pochi metri quadrati anche solo per qualche giorno. 950 persone rinchiuse in una struttura che ha una capienza massima di 400. In quelle stanze non circola aria ma grisù. Basta un nulla che prende fuoco.

Lo sanno gli agenti di custodia, e lo dicono ormai da diverso tempo. Lo sanno i direttori degli Istituti, lo sanno i dirigenti del Dap. Lo sa il ministro Alfano. Lo sanno tutti. E sanno anche qual è l’unica soluzione. Ma fino ad oggi hanno deciso di fare finta di nulla accampando un piano carceri che, anche se solo riuscisse a decollare in parte dopo i tanti rinvii, non risolverebbe nulla se non gonfiare i portafogli di quegli imprenditori che avranno gli appalti.

A Sollicciano lunedì sera la tensione è salita alle stelle. Le cronache raccontano l’attivazione di un immediato piano di sicurezza. La Casa Circondariale è stata subito circondata da gazzelle del nucleo radiomobile dei carabinieri e da agenti delle volanti. Altri rinforzi sono arrivati dal reparto mobile della polizia. Attorno al carcere è stato costituito un fitto cordone di sicurezza, neanche dovessero fare fronte a una guerra civile.

Ma forse è un po’ a questa idea che i governanti vogliono prepararci. Già ad ogni crocicchio e semaforo di strada si vedono mimetiche dell’esercito armate di tutto punto. Nell’immediato dopoguerra alcune rivolte esplose in diverse carceri sovraffollate come oggi vennero sedate a colpi di cannone. Ci fu un massacro.

Stiamo attenti, dunque. Per fortuna l’altra sera la situazione si è placata nel giro di alcune ore, la polizia penitenziaria è entrata sezione dopo sezione per spegnere i focolai d’incendio. La protesta è di nuovo ripresa alle 10 e 30 del mattino successivo con una nuova battitura. Il garante per i detenuti Franco Corleone dopo un sopralluogo ha spiegato che le proteste nascono da una somma di carenze, diffuse un po’ ovunque nei penitenziari della penisola, aggravate dall’affollamento: la riduzione dei colloqui con familiari e delle ore di passeggio causa ferie del personale di custodia, la mancanza di docce, l’impossibilità di avere visite mediche rapide, sommata alla mancanza di spazi, l’impossibilità di lavorare o svolgere attività, la sordità delle magistrature di sorveglianza che negano i benefici penitenziari.

Non stupisce allora se anche a Como, una delle strutture penitenziarie più degradate d’Italia, la protesta è durata tre giorni. Dalla battitura iniziale e lo sciopero della fame intrapreso da alcuni, si è passati nei giorni successivi all’esplosione delle bombolette di gas in dotazione per i fornellini da cucina fino alla rottura dei neon delle celle col tentativo di provocare cortocircuiti, almeno secondo quanto riferito da un esponente della Uil penitenziaria. Angelo Urso, in una nota ha ricordato come nel carcere di Como "in questi anni non sono mai stati realizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Pertanto la fatiscenza e l’insalubrità dei locali non può che aggravare la condizioni detentive".

Qualcosa di simile era già accaduto nella prigione di Lucca nei primi giorni di agosto. Anche lì, una protesta dimostrativa si era trasformata in un piccolo tumulto con il lancio di bombolette e focolai d’incendio nelle sezioni. Insomma si assiste ad una fisiologica tendenza all’inasprimento delle forme di lotta conseguenza dell’esasperazione suscitata dalle condizioni d’invivibilità. Nonostante questi ripetuti segnali e i continui appelli lanciati da tutti gli operatori del settore, dal cielo della politica non vengono risposte. Il governo è in vacanza, come i vertici del Dap e del ministero.

Intervistato dal Gr della Rai, Ionta ha ribadito le virtù del suo piano straordinario d’edilizia carceraria, senza però indicare date precise sulla sua presentazione. Un’incertezza dietro la quale si nasconde l’assenza di copertura finanziaria e una sostanziale mancanza di credibilità. L’opposizione dovrebbe mobilitarsi con una grande iniziativa politica per impedire che nelle carceri avvengano tragedie. È ora di riaprire la vertenza sull’amnistia.

Giustizia: Corleone; dare voce ai detenuti per evitare "rivolte"

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 20 agosto 2009

 

Dopo la dura protesta inscenata lunedì sera è continuata la mobilitazione dei detenuti del carcere di Sollicciano. Un quasi tumulto che aveva fatto temere l’avvio di una rivolta in grande stile tanto da far scattare l’allarme attorno alla cinta muraria, subito circondata da importanti forze di polizia. Nella serata di martedì è partita ancora una volta la battitura delle sbarre, ripresa nella mattinata del giorno successivo. Iniziata intorno alle 22 è durata per circa due ore. Questa volta con modalità meno dure, senza incendi e danneggiamenti.

Preoccupato per le notizie che giungevano dal carcere fiorentino e per episodi analoghi avvenuti in altri istituti, il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, si è recato ieri in visita al carcere per accertarsi di persona della situazione.

Oltre a Lucca, Como, Arezzo, Perugia, si segnalano proteste ad Ancona, prima di ferragosto, alle quali sembrano seguite punizioni, e Pesaro che ospita ormai 300 detenuti invece dei 170 regolamentari. Sempre ieri si è tenuto il preannunciato incontro tra il direttore della Casa Circondariale di Sollicciano, Oreste Cacurri, e una commissione di detenuti, circa urla trentina, rappresentativi delle diverse sezioni. Alla riunione ha preso parte anche il garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze, Franco Corleone, a cui abbiamo chiesto di raccontarci come è andata.

 

Cosa è successo veramente a Sollicciano lunedì sera?

Non chiamerei quanto accaduto una rivolta. C’è molta esasperazione in una popolazione costituita fondamentalmente da soggetti deboli, incapaci di dare voce alle loro richieste. Prima si tagliavano per comunicare, ora protestano. La molla scatenante è stata la distribuzione di pane ammuffito il giorno di Ferragosto, dopo che da diverso tempo veniva lamentato un vitto molto scadente. Il cibo distribuito nelle carceri ha un costo medio per detenuto di 1,53 euro a pasto. Forse questo spiega molte cose.

 

Allora si è trattato di un tumulto del pane come nella più manzoniana delle tradizioni?

Quella è stata la scintilla. Ma le ragioni di fondo sono le condizioni materiali intollerabili e la preoccupazione per il futuro, l’insopportabilità del sovraffollamento, il timore che possa durare all’infinito e che la cifra di 950 detenuti, invece dei 400 previsti, possa aumentare ancora. Ormai è stabile la terza branda in celle nate per essere singole.

 

Cosa è venuto fuori dall’incontro col direttore?

Richieste molto concrete che segnalano una situazione degradata: un’alimentazione più decente, doccia anche la domenica, le ore d’aria che vengono ridotte, gli spazi angusti. Una situazione dove i detenuti vengono considerati pacchi da spostare da un corridoio all’altro e non persone titolari, di diritti. Poi la sanità che non funziona, il codice fiscale non più attribuito agli stranieri (causa l’ultimo pacchetto sicurezza) che così non possono più lavorare, l’impossibilità di chiamare i cellulari quando molte famiglie non hanno più numeri fissi, le condizioni dei colloqui, l’atteggiamento ostruzionistico delle magistrature di sorveglianza che non applicano le misure alternative previste dalla legge.

 

Un po’ come chiedere la luna?

Si, quando regna una mentalità sciatta e burocratica. Ma il vero problema è che per molto tempo gli stessi detenuti hanno dimenticato di essere portatori di diritti e quindi hanno cercato di sopravvivere nel carcere alla meno peggio, senza parlare, senza farsi sentire, vittimizzandosi con l’autolesionismo.

 

Il responsabile della Uil penitenziaria, Eugenio Sarno, ha detto che a "fomentare la rivolta sarebbero i detenuti stranieri". Esponenti dell’Osapp hanno chiesto di ripristinare lo stato d’emergenza, come nel 1977. È giusto utilizzare il termine "fomentare"? Non è forse la situazione a fomentarsi da sola?

In questo caso spinte all’intervento militare ci sono sempre. Ma io credo che l’esempio di oggi sia confortante. Non c’è stata una chiusura a riccio dell’amministrazione. Ho spiegato a Ionta che la protesta è giustificata. Se da questa vicenda uscisse fuori la possibilità che si riconoscano, in ogni carcere, commissioni di detenuti in grado di formulare documenti con richieste, con la possibilità di negoziare direttamente con le Direzioni e il Dap, sarebbe un passaggio positivo. Tornare ad avere voce nella vita delle prigioni è per i detenuti l’unico modo per uscire da una condizione di minorità. Occorre ridare la parola a una popolazione incarcerata rimasta per troppo tempo muta.

Giustizia: Palma; sovraffollamento europeo, Italia la peggiore

di Stefano Milani

 

Il Manifesto, 20 agosto 2009

 

Tutti conoscono le condizioni delle carceri italiane, tutti a denunciarne il sovraffollamento ma al dunque nessuno fa niente. A differenza di quel che succede nel resto d’Europa dove qualcosa, seppur lentamente, si muove". La tirata d’orecchie è di Mauro Palma nella doppia veste di presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e di presidente onorario di Antigone, associazione che si batte per i diritti dei detenuti.

 

Partiamo allora dalle soluzioni: come si può arginare il fenomeno del sovraffollamento in ascesa ormai da anni?

Innanzitutto, bisogna rivedere le tre leggi che hanno causato questi numeri abnormi. Prima fra tutte quella dei reati legati alla detenzione e consumo di sostanze stupefacenti. Secondo, la Bossi-Fini che ha criminalizzato l’irregolarità dei migranti e che funziona come una grossa macchina burocratica nella quale si entra per un illecito amministrativo e si esce con il reato penale. Tutto ciò ora è ulteriormente inasprito dall’introduzione del reato di clandestinità fortemente voluto dal ministro Maroni. A queste due leggi, che hanno fatto aumentare le entrate in carcere, bisogna aggiungere una terza che ne ha ridotto le uscite. Parlo dell’incidenza della recidiva sull’impossibilità di concedere misure alternative, ovvero l’ex Cirielli. Modificare queste norme sarebbe già un grosso passo avanti. Tutte proposte fattibili ma che

necessitano di tempo.

 

Come agire invece nell’immediato?

Un punto su cui intervenire piuttosto velocemente è sulla cosiddetta "liberazione anticipata". Attualmente è di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata. Già portarla a 60 giorni con effetto immediato, e possibilmente retroattivo all’ultimo semestre, accelererebbe non poco lo svuotamento delle carceri.

 

Questo del sovraffollamento è un problema esclusivamente italiano?

Direi di no, è un trend che investe tutta l’Europa occidentale. In Francia sono al collasso come da noi, così in Germania e nel Regno Unito. Va un po’ meglio in Spagna, ma lì hanno aumentato negli ultimi anni il parco detentivo, costruendo nuovi istituiti circondariali o ampliando quelli già esistenti. Quello che differenzia l’Italia dagli altri paesi europei è la rapidità di crescita del numero dei detenuti, passati da 30.000 nel 1990 agli attuali 63.000. In nessuna nazione occidentale si è registrato un fenomeno del genere.

Se va avanti con questi ritmi possiamo costruire tutti i carceri che vogliamo ma i disagi rimarranno lo stesso. Aggiungiamo poi che quasi tutti gli istituti italiani lamentano un sotto organico di personale, che non riesce a gestire questa alta densità carceraria, e siamo di fronte ad una bomba ad orologeria. Ma non sono le uniche anomalie italiane.

 

Le altre?

Il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, né ha ratificato il protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite (Opcat) strumento di fondamentale importanza per creare un sistema internazionale di monitoraggio contro la tortura. Sembra una cosa da poco, ma non lo è. Avere anche in Italia una sorta di organismo indipendente che tiene sotto controllo la situazione ed è capace anche di capire prima dove la situazione può degenerare in questo momento può far solo che bene.

Potrebbe essere utile anche per controllare cosa succede all’interno del Cie, dove in questi giorni si susseguono le proteste del cosiddetti "ospiti", Parlando da presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura posso dire che da parte nostra c’è una forte preoccupazione sulle condizioni in cui sono costretti a vivere gli immigrati. A fine luglio il Consiglio d’Europa ha inviato alcuni ispettori in tre centri (Caltanissetta, Catania e Ponte Galena a Roma), ora verrà redatto un rapporto che verrà inviato all’Italia. Questi rapporti molto spesso non vengo presi molto bene dal nostro Paese e ne nasce sempre una polemica Italia-Europa.

 

Come mai?

Mistero. In tutti gli altri paesi l’invio di un rapporto è sempre occasione di discussione e dibattito, in Italia no. Mi auguro che questa consuetudine si blocchi presto e si cominci invece una collaborazione seria e costruttiva. Checché se ne dica, le critiche mosse da Bruxelles sono sempre dirette alla risoluzione di un problema e mai a giudicare le azioni di un determinato governo.

Giustizia: Caniato; carceri disumane, le istituzioni hanno fallito

di Paolo Brocato

 

L’Osservatore Romano, 20 agosto 2009

 

"La civiltà di una nazione si misura anche dalla dignità della pena detentiva. Quando le condizioni nelle carceri e negli istituti di pena sono disumane e disumanizzanti, tali cioè da non indurre il processo di riconquista del senso di un valore e di accettazione delle corrispondenti responsabilità, le istituzioni falliscono nel raggiungere i loro scopi essenziali".

A parlare è monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani italiani del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile. Mentre lo intervistiamo, nel suo ufficio romano alle falde del Gianicolo, là fuori c’è chi intrattiene un altro tipo di colloquio con gli "abitanti dell’altra città", i detenuti del vicino carcere di Regina Coeli. Ogni giorno, a sera, quelle grida, quel canto disperato tra i familiari e i detenuti, tagliano l’aria. Quelle voci esprimono attese e speranze, ma anche angosce e disperazione. "La pastorale dei carcerati è difficile. Lo è - sottolinea monsignor Caniato - per la situazione delle persone, i carcerati, la polizia carceraria e per la situazione dell’ambiente, il carcere stesso che, specialmente oggi, registra, anche a causa del sovraffollamento, disagi, difficoltà talvolta al limite dell’indicibile".

Troppo spesso, purtroppo, il carcere si trasforma in un luogo di violenza assimilabile a quegli ambienti dai quali i detenuti non di rado provengono. Ciò, è evidente, vanifica ogni intento riabilitativo ed educativo delle misure detentive. "Queste complesse tematiche - osserva il responsabile della pastorale penitenziaria in Italia - sono state affrontate più volte nel corso della storia e non pochi progressi sono stati realizzati nella linea dell’adeguamento del sistema penale sia alla dignità della persona umana sia all’effettiva garanzia del mantenimento dell’ordine pubblico.

Ma i disagi, le fatiche vissute nel complesso mondo della giustizia e, ancor più, la sofferenza che proviene dalle carceri testimoniano che ancora molto resta da fare. In molti Paesi del mondo le carceri sono assai affollate. Ve ne sono alcune fornite di qualche comodità, ma in altre le condizioni di vita sono precarie, per non dire indegne dell’essere umano. I dati sono sotto gli occhi di tutti e ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere".

Monsignor Caniato, nel ricordare una sua inchiesta negli istituti penitenziari di vari Paesi, ribadisce il "forte appello che giunge dalle innumerevoli carceri disseminate nel mondo, dove sono segregati milioni di nostri fratelli e sorelle. Essi reclamano soprattutto un adeguamento delle strutture carcerarie e a volte anche una revisione della legislazione penale. Dovrebbero essere finalmente cancellate dalla legislazione degli Stati le norme contrarie alla dignità e ai fondamentali diritti dell’uomo, come pure le leggi che ostacolano l’esercizio della libertà religiosa per i detenuti". Occorrerà anche rivedere - aggiunge - i regolamenti carcerari che non prestano "sufficiente attenzione ai malati gravi e a quelli terminali; ugualmente si dovranno potenziare le istituzioni preposte alla tutela legale dei più poveri".

Ma anche nelle circostanze in cui la legislazione è soddisfacente, molte sofferenze derivano ai detenuti da altri fattori concreti: "Basti pensare in particolare - ricorda - alle condizioni precarie dei luoghi di detenzione in cui i carcerati sono costretti a vivere, come pure alle vessazioni inflitte talvolta ai detenuti per discriminazioni dovute a motivi etnici, sociali, economici, sessuali, politici e religiosi".

Altre difficoltà sono patite dai reclusi per poter mantenere regolari contatti con la famiglia e con i propri cari, e gravi carenze spesso si riscontrano nelle strutture che "dovrebbero agevolare chi esce dal carcere, accompagnandolo nel suo nuovo inserimento sociale.

"Dal Giubileo nelle carceri del 2000 - ricorda monsignor Caniato - c’è stato un risveglio e una presa di maggior coscienza anche da parte dei vescovi italiani. Di grandissimo valore il messaggio del 9 luglio 200o, così intensamente desiderato dai cappellani, del compianto Giovanni Paolo II. Il messaggio fu inviato non solo alla Chiesa universale ma anche ai capi di Stato. Sono aumentate così le presenze significative dei vescovi in visita alle carceri e l’insegnamento espresso in molti scritti e discorsi. Sono sorte nuove iniziative di aiuto sia dentro che fuori il carcere. C’è stata una maggiore attenzione alla pastorale penitenziaria, riconosciuta dalla Conferenza episcopale italiana come pastorale specifica di cui sono responsabili i vescovi che mandano e delegano i cappellani delle carceri a livello diocesano e l’ispettore generale dei cappellani a livello nazionale.

"Pastorale - sottolinea monsignor Caniato - significa l’azione della Chiesa in tutti i suoi membri per la realizzazione del suo essere e della sua missione che è l’evangelizzazione. "Andate in tutto il mondo" ha detto Gesù. Egli vuole salvi tutti gli uomini. Il termine "penitenziaria" - per chi non è dell’ambiente, può far pensare alla penitenza, al sacramento della confessione - si riferisce ai penitenziari o carceri, cioè al mondo della giustizia penale, al potere giudiziario dello Stato, di cui il carcere è una parte integrante.

"Sì, perché anche in carcere - dice monsignor Caniato - la pastorale è una sola e si rivolge a tutte le persone ospiti, detenuti e operatori penitenziari. Naturalmente si deve adattare alla struttura carceraria, a ogni singola persona, che non sono solo i detenuti e che può essere cattolica, cristiana, atea, musulmana, buddista, italiana, comunitaria, straniera e nella sua condizione di detenuto o di operatore".

Ci si può chiedere: come la Chiesa, e quale suo tramite il cappellano in carcere, può rivolgersi ai detenuti cattolici sostenendo tuttavia anche tutti i detenuti?

"La pastorale in carcere o evangelizzazione, deve seguire ciò che Cristo ha fatto. Gesù - conclude monsignor Caniato - ha accostato tutti gli uomini, parlando, operando anche miracoli, senza chiedere nulla: così la Chiesa, i cappellani, i volontari cristiani, gli operatori cristiani del carcere, per esigenza intrinseca del loro essere cristiani e mandati a evangelizzare devono accostare tutti, senza distinzione di nessun tipo: sono disponibili per tutti quelli che li cercano. I cappellani però non sono assistenti sociali, sono evangelizzatori inviati dal primo Pastore".

Giustizia: Commissione per la Pastorale cattolica nelle prigioni

 

L’Osservatore Romano, 20 agosto 2009

 

Particolare rilievo di coordinamento e progettualità nell’azione dei cappellani carcerari assume, oggi, la commissione internazionale della pastorale cattolica delle carceri (Iccppc: International commission for catholic prison pastoral care).

Gli scopi della commissione possono dedursi dal motto stesso e dall’emblema della commissione. L’uno, con la dizione Vinculum unitatis, riassume la solidarietà dei cappellani cattolici, che li caratterizza e li unisce alla Santa Sede, con la quale - in particolare con il Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace - gli Statuti prescrivono "strette relazioni".

L’altro, l’emblema, rappresentando due mani - una delle quali dietro sbarre carcerarie - che tende l’una verso l’altra, esprime fra cappellani e detenuti una solidarietà che vince ogni ostacolo e abbraccia ogni tipo di assistenza, spirituale e materiale. Gli scopi giuridicamente dichiarati dagli Statuti (1996) sono inoltre di "arrecare alla Chiesa universale una più vasta consapevolezza e sensibilità nell’esercizio della pastorale carceraria" e di "stimolare la creazione di cappellanie cattoliche delle carceri in tutte le nazioni, in collaborazione con le relative conferenze episcopali, offrendo il sostegno necessario". Altro scopo dichiarato è di "contribuire nel proprio campo specifico alla riforma e alla revisione del sistema penale in tutto il mondo".

Quest’ultimo intento ha già dato occasione di impegno da parte della commissione nel campo dei diritti dell’uomo, mediante servizi di informazione inseriti nel Bollettino "Newsletter", proposte e, recentemente, concrete iniziative per il proprio riconoscimento in seno all’Onu come organizzazione ufficiale non governativa, che darebbe alla commissione rilievo e forza contrattuale notevoli per la realizzazione di progressi in campo penale.

Particolare impegno assunto dalla commissione, è anche quello di lottare contro la pena di morte, sia perché di fatto non venga applicata, sia perché ne sia attuata una piena e universale abolizione.

La struttura della commissione internazionale si articola in un presidente eletto dall’assemblea plenaria. Attualmente a ricoprire tale carica è il dottor Cristian Kuhun. Il primo organo, per importanza, della commissione, è l’assemblea stessa dei membri, che per votare debbono essere preposti alla pastorale carceraria nei loro Paesi di origine dalle relative conferenze episcopali.

Per ciò che riguarda la storia, la commissione internazionale trova la sua origine nel dopoguerra degli anni Cinquanta, quando gli stessi cappellani italiani avevano da poco concretizzato le loro aspirazioni a un organismo centrale che li coordinasse. Fu allora (1950 a Roma e 1954 a Friburgo in Svizzera) che si ebbero i primi due congressi internazionali dei cappellani delle carceri, i soli convocati nella loro universalità a tutt’oggi.

Nel secondo di essi fu creata una "commissione", che peraltro non si riunì mai ufficialmente. Nel 1955, a Friburgo in Brisgovia (Germania) si tenne la prima riunione informale della commissione, nel corso della quale venne eletto il suo primo presidente nella persona di Monsignor Verheggen (Paesi Bassi). Ancora non esisteva alcuno statuto. Nel corso di un suo soggiorno in Svizzera, monsignor Ronca, arcivescovo e ispettore dei cappellani italiani, in un colloquio col cappellano tedesco Schmitz e con due altri cappellani, Rousset, francese e Teobaldi del Cantone svizzero del Ticino, propose che si celebrasse a Roma un nuovo congresso di tutti i cappellani.

A tale scopo furono invitati a Zurigo il 31 gennaio 1972 alcuni cappellani generali. In tale riunione fu deciso di rinunciare al congresso internazionale di tutti i cappellani e di convocare invece a Roma la commissione, nell’autunno dello stesso anno. Questa sessione fu organizzata da Monsignor Ronca a Roma dall’8 all’11 ottobre 1972, e coloro che vi parteciparono furono ricevuti dal Papa Paolo VI. Nel corso della stessa sessione si avvertì da ogni parte la necessità di strutturare la commissione in forma giuridica, e pertanto fu istituito un comitato esecutivo provvisorio che preparasse un progetto di statuto, il quale si riunì nel febbraio 1973 a Essen e ancora, in agosto, nel Belgio.

A tale scopo fu utilizzato il codice civile svizzero, e fu scelta per qualificare la commissione una forma di associazione civile disciplinata dalla legislazione svizzera. La commissione internazionale non fu dunque inclusa alle origini in fattispecie canoniche. La questione canonica fu ripetutamente oggetto di attenzioni e sforzi, ma è stata disciplinata dal congresso solo a Varsavia nel 1996, dove gli statuti originari furono rinnovati e ampliati. La commissione viene riconosciuta e fornita di personalità giuridica canonica anche dalla Santa Sede come associazione privata di fedeli, composta di chierici e laici, conforme al Codice di diritto canonico.

Giustizia: tra i Radicali e Ionta polemiche su proteste detenuti

 

Ansa, 20 agosto 2009

 

"Leggo una dichiarazione del Capo del Dap Franco Ionta che, pur essendo stato favorevolmente impressionato dalle visite dei parlamentari del Ferragosto in carcere, aggiunge che "era prevedibile che all’esito di questa riprovata", mi auguro che intendesse dire "ritrovata", attenzione ci sarebbero state ulteriori proteste da parte dei detenuti. Mi dispiace veramente che il capo del Dap si esprima con tali insinuazioni in merito alla più corposa iniziativa di sindacato ispettivo nelle carceri mai realizzata in Italia". Lo afferma Rita Bernardini, esponente Radicale eletta nelle liste del Pd.

"Dispiace anche che, a differenza del Guardasigilli, non riconosca il totale stato di illegalità costituzionale dei nostri istituti che dovrebbe, invece, portarlo - suggerisce Bernardini sempre riferendosi a Ionta - a ringraziare detenuti, agenti, direttori, educatori, medici e psicologi per il senso di maturità e di responsabilità che continuano a dimostrare nella situazione data. Quando poi conclude marcando la necessità di non dimenticare le enormi carenze di organico della polizia penitenziaria, mi sento autorizzata a rispondergli che è soprattutto lui che non si deve dimenticare, visto che fino ad ora ha saputo preannunciare solo ulteriori sacrifici ai limiti della sopportabilità umana".

"Da quanti anni non si fa un concorso per rimpiazzare l’organico mancante di ben 5.000 agenti? Cosa intende fare urgentemente su questo fronte mentre aumenta a dismisura la popolazione detenuta? Con quale personale organizzerà le future nuove carceri di cui annuncia la costruzione peraltro in mancanza dei finanziamenti necessari? Cosa accadrà nel frattempo per i detenuti, più del 50 per cento in attesa di giudizio, che sono costretti a passare le loro giornate ammassati l’uno sull’altro in spazi angusti, sporchi e fatiscenti, senza poter svolgere alcuna attività umana", conclude Bernardini.

Giustizia: Ionta; le carceri in emergenza, basta proteste incivili

di Giovanni Maspero

 

Avvenire, 20 agosto 2009

 

Dopo l’ennesima rivolta parla il capo del Dap, Franco Ionta: "Non saranno tollerate aggressioni agli agenti e al personale".

Si alza il livello di attenzione del ministero della Giustizia per il dilagare della protesta nelle carceri italiane. Nelle stesse ore in cui a Voghera il killer ergastolano della mala meneghina Luciano Vella mette a segno la sua progettata evasione, a Firenze il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta si reca di persona a Sollicciano per rendersi conto della situazione dopo tre giorni di proteste con tanto di lenzuola e coperte date alle fiamme.

Tutto è ora tornato sotto controllo, sia a Firenze che a Perugia, dove sono stati dimessi dall’ospedale i cinque agenti penitenziari intossicati dall’incendio appiccato ieri al materasso della branda da un detenuto extracomunitario. Ma queste e le recenti proteste nelle carceri di Biella, Arezzo e Como destano preoccupazione. Ionta non la nasconde, ma confida nel "senso di responsabilità".

Perché - ammonisce il capo del Dap - "una cosa sono le proteste in termini civili, soprattutto se veicolate tramite i garanti per i detenuti, di cui l’amministrazione penitenziaria terrà conto; ma se le proteste diventano non civili o degenerano in aggressione al personale, ciò non verrà assolutamente tollerato". Rimasto "favorevolmente impressionato dalla sensibilità di molti parlamentari" per il sistema penitenziario durante il periodo di Ferragosto, Ionta ritiene in ogni caso che fosse "prevedibile" il fatto che "all’ esito di questa riprovata attenzione ci sarebbero state ulteriori proteste da parte dei detenuti".

Vista la brutta piega che stava prendendo la situazione a Sollicciano, due parlamentari hanno compiuto la notte scorsa un blitz bipartisan: il deputato radicale del Pd Marco Perduca e il consigliere provinciale del Pdl Massimo Lensi hanno verificato che nel carcere di Firenze "non c’è stata una rivolta, ma una protesta contro le terribili condizioni di vita imposte dal sovraffollamento cronico di un istituto da 400 posti dove sono costrette oltre 950 persone".

Ieri mattina, con l’arrivo di Ionta, la schiarita: il direttore del carcere Oreste Cacurri, assieme al garante dei detenuti Franco Corleone, ha incontrato una delegazione di detenuti. Oltre al miglioramento del vitto (a far scattare la protesta era stata la distribuzione di pane ammuffito), i detenuti chiedono docce domenicali, aperture più frequenti del campo sportivo, materassi nuovi e detersivi per i bagni delle celle.

Ma a protestare e a chiedere maggiore attenzione sono anche gli agenti di polizia penitenziaria: siamo "sotto organico di 5mila unita", denuncia il sindacato Uil-Pa. L’evasione da Voghera di Luciano Vella, condannato all’ergastolo per aver ucciso per conto di una donna e del suo amante il marito di lei, rinfocola la polemica. Vella stava lavorando su un trattore in una zona perimetrale del penitenziario ma, approfittando del fatto che a sorvegliare tutto il perimetro esterno del carcere c’era un solo agente, si è dato alla macchia.

Giustizia: Sappe; l'affidamento a tutti i condannati fino 3 anni

 

Comunicato Sappe, 20 agosto 2009

 

L’allarmante situazione delle carceri italiane sta determinando in molti istituti penitenziari tensioni tra i detenuti e inevitabili problemi di sicurezza interna che ricadono sulle donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, come hanno dimostrato le proteste di detenuti avvenute a Como, Firenze Solliciano, Genova Marassi, Perugia e in altri istituti di pena del Paese. La situazione rischia di degenerare e non si può perdere ulteriore tempo, considerato anche che il Corpo di Polizia penitenziaria è carente di più di 5mila unita. Fermo restando che non si possono tollerare in alcun modo manifestazioni violente nelle nostre prigioni, bisogna anche proporre soluzioni concrete. E il primo Sindacato della Polizia penitenziaria, il Sappe, non si sottrae di certo a queste responsabilità.

Partiamo dal dato che all’11 agosto scorso c’erano nei 206 penitenziari italiani 63.557 detenuti, di cui 23.423 stranieri. Rendiamo concreta la possibilità che questi stranieri scontino la pena nelle carceri del proprio Paese d’origine. Ancora: circa 20mila degli attuali detenuti sono condannati a pene inferiori a 3 anni.

Il Governo e il Parlamento abbiano allora il coraggio di far scontare in affidamento ai servizi sociali con contestuale impiego in lavori socialmente utili - che è detenzione a tutti gli effetti - il residuo pena ai detenuti italiani con pene inferiori ai 3 anni e si attivi per espellere tutti gli stranieri in carcere, mandandoli a scontare la detenzioni nei Paesi d’origine. Avremmo così anche un notevole risparmio di svariati milioni di euro al giorno, costando un detenuto in media circa 200 euro al giorno, soldi che potrebbero essere destinati tra l’altro proprio alla riorganizzazione del sistema carcere del Paese.

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alle manifestazioni di protesta di detenuti in atto in alcuni penitenziari del Paese.

Nell’occasione, la Segreteria Generale del Sappe, rinnova un paio di proposte al Governo: "Serve una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile. È necessario un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria, prevedendo un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) che hanno finora fornito in molti Paesi europei una prova indubbiamente positiva.

E se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva, anche la Polizia Penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene."

Giustizia: da Bari ricerca sulla efficacia delle misure alternative

 

Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2009

 

Il progetto di ricerca, finanziato nel 2008 dal Comune di Bari con fondi del Por Puglia 2000-2006, ha inteso offrire un contributo alla conoscenza delle prassi applicative delle misure alternative e dell’impatto da esse prodotto.

La ricerca è riferita ai condannati in misura alternativa presso l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Bari tra il 2000 ed il 2002, residenti nel territorio dell’Area Metropolitana di Bari (31 Comuni). Essa si è articolata su due livelli di analisi: il primo, di carattere prevalentemente qualitativo, ha esplorato le percezioni dell’esperienza della misura alternativa da parte di coloro che ne sono stati i fruitori; il secondo, di carattere quantitativo, si è incentrato sulle caratteristiche e sui percorsi dei soggetti che hanno fruito di una misura alternativa.

Quanto al primo livello, la parte qualitativa della ricerca si è sviluppata attraverso la somministrazione di un’intervista semi-strutturata ad un campione di sedici persone che hanno beneficiato di una misura alternativa presso l’Uepe di Bari; dalla narrazione delle esperienze è stato possibile ricavare le loro percezioni riguardo ad una pluralità di aspetti: il significato dell’eventuale periodo di detenzione prima dell’accesso alla misura; l’ingresso in misura alternativa; i rapporti con gli attori istituzionali preposti alla gestione dell’esecuzione penale; gli aspetti positivi e le difficoltà incontrate durante lo svolgimento della misura; le proprie esperienze devianti e le motivazioni che hanno indotto a mutare i comportamenti.

Il secondo livello di analisi, quantitativo, si è posto l’obiettivo di valutare l’impatto delle misure alternative sui percorsi esistenziali dei beneficiari, con particolare riguardo alla recidiva ed alle sue possibili correlazioni con le caratteristiche sociali e giuridiche dei soggetti. È stato preso in esame un campione di 265 fascicoli sui 1.108 in carico nel periodo considerato, pari a circa il 25% dell’universo. I dati, ricavati dalla consultazione dei fascicoli personali dei condannati, sono stati trasposti a cura degli assistenti sociali dell’Ufficio di Bari in tre schede in formato elettronico: una scheda sociale ante-misura, una scheda sociale post-misura e una scheda giuridica.

Le prime due riguardano i dati sulle condizioni socio-economiche, lavorative, familiari, del campione di individui preso in considerazione (rispettivamente, nella situazione precedente alla misura alternativa e in quella successiva alla stessa), oltre a informazioni sul numero e sul tipo di interventi svolti dall’Uepe; la scheda giuridica, invece, raccoglie informazioni sui reati commessi entro 15 anni prima e dopo la concessione della misura, sulle eventuali condanne riportate, sul numero, tipo e durata di altre misure alternative accordate prima e dopo la misura presa in esame, ecc.

Riguardo al fenomeno della recidiva, è risultato che abbiano commesso reati dopo la fine della misura il 13,95 % dei soggetti, percentuale che, con tutte le cautele del caso riguardo agli aspetti metodologici della ricerca (composizione del campione, tipo di ricerca, ecc.), è decisamente inferiore a quanto rilevato in altri studi a carattere nazionale sul tema: la ricerca di Santoro e Tucci (2006) rileva un tasso di recidiva pari al 19%, quella di Frudà (2006) un tasso del 36% e quella di Leonardi (2007) un tasso pari al 22,37%. (Vedi il testo integrale della ricerca - in pdf)

 

Susanna Ficco Regina

Ufficio Esecuzione Penale Esterna Prap Puglia

Giustizia: sarà il Parlamento ad indagare sulle "stragi di mafia"

 

Il Velino, 20 agosto 2009

 

A settembre il senatore Marcello Dell’Utri, se non l’avrà già fatto il suo partito, presenterà una proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi di mafia del 1992. Era ora. È la prima cosa seria che si sente da quando, e sono mesi, persino le procure del professionisti dell’antimafia sono state costrette a riconoscere che le indagini e i processi per la strage di via D’Amelio, dove furono massacrati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta, sono falliti e che, dopo diciassette anni, non si conoscono ancora gli esecutori materiali e i veri mandanti e tutti quelli che sono stati finora indagati e giudicati in ben tre diversi processi, con sentenze confermate in Appello e in Cassazione, e condannati all’ergastolo, non sono i veri responsabili. E da quando, invece di fare ammenda delle indagini sbagliate e dei loro clamorosi errori giudiziari e di avviare la revisione dei processi sbagliati, liberando gli innocenti e trovando i veri colpevoli, le stesse procure hanno ripreso a parlare confusamente di "trattative" tra lo Stato e la mafia e hanno ripreso a processare, invece dei mafiosi, i carabinieri che li hanno arrestati.

Ce n’è di materia su cui indagare e su cui in tutti questi anni i professionisti dell’antimafia non hanno saputo e potuto e forse non hanno veramente voluto indagare. A partire, prima ancora delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, dall’assassinio dell’onorevole Salvo Lima, quello che "sconvolse" letteralmente Giovanni Falcone e lo spinse, poco prima di essere a sua volta ucciso, a recarsi segretamente negli Stati Uniti per interrogare Tommaso Buscetta. Falcone intuì, e lo dichiarò, che da quel momento "niente più sarebbe stato come prima", perché il movente di quell’assassinio era "politico", e non era quello che fu frettolosamente adottato di una "vendetta" della mafia per promesse non mantenute. Come, dall’altra parte della barricata, lo intuì e lo scrisse Vito Ciancimino, che parlò di un "architetto" di un’operazione politica, ma chiese invano di essere ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Luciano Violante.

E prima ancora il Parlamento dovrà indagare su chi e perché, prima di ammazzare Lima, indusse un falso "pentito", quel tale Pellegriti detenuto nelle carceri di Bologna, ad accusare Lima di essere stato il mandante dell’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, volendo così inguaiare, prima di ucciderlo, il capo della corrente di Andreotti in Sicilia, e alla vigilia delle elezioni del nuovo presidente della Repubblica. Falcone non credette a Pellegriti e invece di arrestare Lima arrestò il falso pentito, rivolgendo le indagini decisamente verso il movente politico (e telefonò persino ad Andreotti per avvertirlo del complotto in atto contro di lui). Ma, ucciso Falcone, i professionisti dell’antimafia misero in piedi un processo farsa, in cui invece di processare gli assassini processarono Lima, l’assassinato, e gli assassini, rimessi in libertà e retribuiti dallo Stato in quanto "pentiti", furono chiamati a deporre contro colui che avevano assassinato.

Lo stesso filone politico, intuito da Falcone e denunciato a tutte lettere da Ciancimino, fu indicato, fin dalle sue prime dichiarazioni, da Giovanni Brusca, l’uomo che organizzò la strage di Capaci e premette il pulsante per far saltare in aria Falcone, quando rivelò che Totò Riina volle fare tutto in fretta perché erano in corso le votazioni per la Presidenza della Repubblica e Forlani si era ritirato e Andreotti rischiava di essere eletto. Anche per la strage di Capaci, dove pure furono trovati e processati gli esecutori materiali e i mandanti propriamente mafiosi, bisognerà indagare e rivedere radicalmente i veri moventi e individuare i mandanti politici: nemmeno Falcone fu ucciso semplicemente per una tardiva "vendetta" della mafia e anche per l’assassinio di Falcone, come aveva scritto Ciancimino, ci fu un "architetto", che non poteva che essere lo stesso architetto dell’assassinio di Lima.

E quando l’inchiesta del Parlamento sarà arrivata alla strage di via D’Amelio non potrà non indagare, anche a proposito della famosa "trattativa" tra lo Stato e la mafia, sui processi ai carabinieri che si susseguono interrottamente da diciassette anni. E sulle singolari coincidenze che riguardano almeno sette di questi carabinieri e che vanno dal maresciallo Lombardo al generale Mori. Il maresciallo Lombardo fu infamato alla televisione e minacciato di arresto e si suicidò proprio mentre si apprestava a recarsi negli Stati Uniti a prelevare il boss Gaetano Badalamenti che sarebbe venuto a deporre al processo Andreotti per smentire Buscetta. Il tenente Canale, che era il cognato di Lombardo ed era il principale collaboratore di Paolo Borsellino, fu indagato e processato proprio quando denunciò davanti ai magistrati e davanti la commissione antimafia le vere ragioni del suicidio del cognato e fece i nomi dei responsabili. Il colonnello Obinu, processato assieme al generale Mori per non aver voluto arrestare Provenzano, aveva accompagnato Lombardo negli Stati Uniti per convincere Badalamenti a venire a deporre al processo Andreotti e aveva denunciato nel rapporto stilato per il comando dei Carabinieri che il magistrato della procura di Palermo che li aveva accompagnati nella missione gli aveva consigliato di lasciar perdere.

Il capitano De Donno, collaboratore di fiducia di Falcone, è stato denunciato quando aveva rivelato che il dossier segreto dell’inchiesta sul problema mafia - appalti, da lui portata a termine per incarico dello stesso Falcone, era misteriosamente fuoriscito dalla Procura di Palermo ed era finito nelle mani degli inquisiti. Il tenente colonnello Meli, che comandava i carabinieri di Monreale, era stato iscritto nel registro degli indagati quando aveva intercettato le telefonate del "pentito" Baldassare Di Maggio, quello del "bacio" tra Andreotti e Riina, e aveva scoperto che Balduccio, mentre a spese dello Stato scorazzava libero in Sicilia, secondo la teoria dell’"utilizzazione dinamica dei pentiti", in effetti aveva ricominciato a mafiare e ad uccidere.

Il capitano Sergio Di Caprio, il famoso capitano "Ultimo", che sotto la direzione del generale Mario Mori aveva catturato Totò Riina, è stato processato assieme a Mori ufficialmente per aver lasciato incustodito il covo di Riina invece di perquisirlo immediatamente per permettere alla mafia di portar via il famoso "papello", prova regina della trattativa tra la mafia e lo Stato: in effetti per accreditare il teorema che Riina non era stato catturato, ma era stato "consegnato" proprio in seguito alla trattativa e a condizione di non prelevare i documenti più compromettenti e di dar mano libera in seguito a Bernardo Provenzano. E ci siamo: Mori e Obinu sono di nuovo sotto processo perché non vollero arrestare Provenzano. Sette carabinieri, dal maresciallo al generale, il fior fiore dell’Arma Benemerita, il meglio che lo Stato ha offerto per combattere la mafia negli anni delle stragi. Questa singolare guerra dei professionisti dell’antimafia ai carabinieri dura appunto da diciassette anni e si intreccia strettamente alle stragi di mafia. L’inchiesta del Parlamento non potrà non occuparsene, come dovrà indagare a fondo su questa famosa "trattativa" tra lo Stato e la mafia, se veramente c’è stata perché, come dice Dell’Utri, "non si può stare qui a sentir parlare dell’accordo tra Stato e mafia come se fosse l’accordo tra la Confindustria e i sindacati", e su questa storia, come sulle stragi, "è assurdo che non ci sia stato ancora un verdetto di verità acclarata accettata da tutti". E a questo punto soltanto il Parlamento, con buona pace dei Di Pietro e dei De Magistris, a cui farebbe comodo che il tutto restasse eternamente nelle mani e a discrezione dei responsabili dei fallimenti di questi anni, può fare chiarezza.

Lettere: detenuti Massa; nostra condizione non da paese civile

 

Il Tirreno, 20 agosto 2009

 

"La nostra condizione non è da paese civile". È quanto hanno scritto i detenuti del carcere di Massa in una lettera aperta letta al deputato dell’Idv Fabio Evangelisti, nel corso della sua visita al penitenziario, avvenuta nel giorno di Ferragosto. Nell’occasione i detenuti hanno denunciato le gravi condizioni di sovraffollamento in cui vivono. "Stiamo stipati in anguste celle, chiusi 20 ore al giorno - scrivono - su pericolosi letti a castello e non è da paese civile". I detenuti sostengono che le celle siano "piene di persone che in realtà non dovrebbero starci, finiti in carcere per reati ridicoli - scrivono - per aver sottratto prodotti alimentari al supermercato per nutrirsi, per piccoli furti o per qualche spinello, persone che sottraggono diritti agli altri detenuti". La lettera si conclude con la richiesta a Evangelisti di farsi portavoce in Parlamento anche dei loro attuali disagi.

E il deputato - sempre attento a queste problematiche - non mancherà. Tre anni fa grazie all’indulto un’ottantina i detenuti del carcere di via Pellegrini tornarono in libertà. L’indulto aveva praticamente svuotato il penitenziario. Fu un’estate davvero strana per chi si trovava dietro le sbarre. Molti di loro si fecero i conti, sperando di rientrare nell’esercito dei graziati. Anche perché l’ultimo indulto prima di quello di Clemente Mastella risaliva al dicembre 1990. Sedici anni, in pratica una condanna per episodi particolarmente gravi o per un cumulo di pene. In quei giorni davanti all’uscita del carcere si poteva assistere a scene di gioia. Mogli e figli abbracciavano chi varcava quel portone con una borsa sulle spalle e la speranza di non fare più ritorno in una stanza con le sbarre.

Qualche lacrima e l’invito a non interrompere quel momento. Del resto la maggior parte di chi usciva non era un criminale, al massimo un piccolo delinquente. La maggior parte erano extracomunitari che avevano alle spalle reati di microcriminalità: i più erano scippatori o ladri, altri avevano violato le norme sull’immigrazione.

Tanti avevano a che fare con la detenzione e lo spaccio di droga. Molti di loro però avevano anche fatto subito rientro in carcere. In tre tornarono ad ottobre: appena liberi si misero a delinquere ognuno per conto proprio. E le forze dell’ordine strinsero ancora una volta le manette ai loro polsi. Forse tra i firmatari di quella lettera inviata a Evangelisti ci sono pure loro.

Lettere: solo tre ore nel carceri di Ascoli e sono uscita sconvolta

 

Liberazione, 20 agosto 2009

 

Carissimo direttore, il 14 agosto, nell’ambito dell’iniziativa "Ferragosto in carcere" ho avuto l’opportunità di visitare la Casa Circondariale di Marino del Tronto (Ascoli Piceno) con Giuliano Brandoni, capogruppo Prc al Consiglio regionale delle Marche. Ti assicuro che sono state tre ore di visita sconcertanti. In una struttura con una "accoglienza" massima di 60 persone ce ne sono oggi 85 (fino a qualche giorno fa ne erano 91).

Parlare di numeri non rende reale la drammatica situazione che si vive lì dentro: molti sono detenuti in attesa di giudizio, età media 30 anni, rinchiusi principalmente per detenzione di droghe, reati al patrimonio, bancarotta. Stanze adibite a celle originariamente nate per altre funzioni (stanze di lettura), lo spazio per l’aria minuscolo e con il sole cocente di quest’estate quasi impraticabile.

Celle con 8 persone dentro, si sfrutta l’altezza delle stanze con letti a castello in fila di 5. Si mangia sul letto perché non c’è lo spazio fisico per un tavolo. Bagni spesso divisi dai letti da una improvvisata tenda di stoffa: si mangia, si dorme, si legge, si spera, nello stesso spazio dove si va al bagno. La maggior parte dei detenuti non è del posto, non ricevono quindi né visite, né denaro. Lavorano a turno per la durata di 1 mese ciascuno e così possono avere, ogni tanto, un po’ di liquidità per l’acquisto di quotidiani, detersivi, saponi per l’igiene personale.

La scorsa settimana è deceduto un ragazzo tunisino, trovato morto sul suo letto la mattina. Non conosco le cause del decesso, so però che i suoi compagni di cella sono veramente sconvolti. Io stessa mi meraviglio di come si possa resistere anche solo un giorno lì dentro. Sto sicuramente raccontando cose che sai già ma io sento la necessità di condividere la mia impotenza, il mio disagio. Non è possibile per me andare a dormire e svegliarmi come se quella visita non avesse lasciato in me un segno profondo.

Non si risolve il problema del sovraffollamento costruendo altri penitenziari, è assurdo tenere dentro per mesi, talvolta anni, persone in attesa di giudizio che poi addirittura risultano innocenti, non si può e non per questi tipi di reati. Da tutti è venuta un’unica richiesta: raccontate fuori come si sta qui dentro e non dimenticatevi di noi. E per non dimenticarli ti propongo, almeno questa volta d’imitare la Chiesa che fa pervenire gratuitamente al carcere 100 copie de "l’Avvenire": facciamo entrare "Liberazione" gratis, se non proprio con 100 copie almeno con la metà.

 

Paula B. Amadio, segretaria Prc Ascoli Piceno

Firenze: Ionta (Dap) in visita a Sollicciano; la protesta resti civile

 

Corriere Fiorentino, 20 agosto 2009

 

Franco Ionta, capo della Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), è andato nel carcere fiorentino dove da tre giorni sono in corso proteste da parte dei detenuti.

Una "miriade di richieste puntuali" che vanno da un vitto migliore ad accessi più frequenti alla palestra, passando per materassi nuovi e detersivi per i bagni delle celle. Sono quelle dei reclusi nel carcere di Sollicciano, di cui si è fatto portavoce il garante dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, incontrando il capo della Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, in visita alla struttura.

Le richieste sono state illustrate dai detenuti al direttore del carcere, Oreste Cacurri. "È stato un dialogo fruttuoso - ha detto Corleone - Non c’è, da parte dei detenuti, un clima di rivolta. Oggi stileranno una piattaforma di richieste e chiederanno un incontro anche con il sindaco, Matteo Renzi. Domani faranno un nuovo punto della situazione con il direttore del carcere". Fra le istanze dei detenuti: "la possibilità di fare docce anche la domenica - ha spiegato Corleone - visite mediche più accurate, più accessi al campo sportivo, bombole di gas per cucinare nelle celle. Ovviamente, alla base c’è il problema del sovraffollamento: a Sollicciano ci sono 950 detenuti e la struttura potrebbe accogliere senza disagi, al massimo, 600 persone". A Ionta, Corleone ha chiesto "un migliore utilizzo delle strutture toscane e di riflettere sulla possibilità di chiudere la casa di cura e custodia femminile per donne seminferme di mente: l’unica in Italia è a Firenze".

"È stata una riunione positiva - ha spiegato Cacurri - Molti di quei problemi possono essere risolti". La riunione è stata organizzata in seguito alle proteste dei detenuti di questi giorni. "Si sono lamentati - ha spiegato Cacurri - anche perché nei giorni scorsi hanno trovato del pane ammuffito. Si è trattato di un episodio, già risolto con il fornitore, e dovuto al fatto che c’era di mezzo Ferragosto. Credo che quella sia stata la scintilla per un disagio che nasce per motivi diversi e che non riguardano solo Sollicciano, come il sovraffollamento e la vivibilità delle carceri".

Stamani a Sollicciano ha fatto visita Franco Ionta, capo della Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). "Ci è stato vicino - ha detto Cacurri - gli ho detto che domani mi incontrerò di nuovo con i detenuti per fare il punto della situazione sulle loro richieste. Spero che le proteste cessino, ma non mi stupirei se, per qualche giorno, continuassero a farsi sentire. Comunque, le loro contestazioni sono state civili e contenute". Ionta ha voluto rendersi conto personalmente della situazione incontrando il direttore di Sollicciano, il comandante della polizia penitenziaria del carcere, e il garante per i detenuti Franco Corleone. Da parte del capo del Dap c’è stata disponibilità ad accogliere alcune delle richieste dei detenuti vincolate attraverso il garante, in particolar modo quelle riguardanti il cibo (il pane ammuffito era stata la causa scatenante della protesta). "Un conto sono le proteste in termini civili - ha detto Ionta - soprattutto se veicolate tramite i garanti per i detenuti, di cui l’amministrazione penitenziaria terrà conto; ma se le proteste diventano non civili o degenerano in aggressione al personale, ciò non verrà assolutamente tollerato".

Visita-blitz bipartisan nella notte, al carcere di Sollicciano, dove da lunedì sera i detenuti protestano. Il deputato del partito Democratico Marco Perduca e il consigliere provinciale del Popolo della Libertà Massimo Lensi si sono presentati, intorno alle 23, all’ingresso del penitenziario per un’ispezione a sorpresa. "Abbiamo ritenuto opportuno farlo perché solo arrivando non annunciati, è possibile vedere come si vive davvero nei penitenziari", hanno spiegato stamani Perduca e Lensi nel corso di un incontro con i giornalisti fiorentini.

È durata un paio di ore la protesta ripartita ieri, intorno alle 22, dei detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano, che hanno iniziato a sbattere oggetti contro le sbarre. Già nel corso della notte e della mattinata precedente, i carcerati avevano dato vita a iniziative simili: le contestazioni riguardano anche la cattiva qualità del vitto. Le proteste coinvolgono i detenuti comuni o in attesa di giudizio del reparto giudiziario; quelle della notte scorsa sono state meno vigorose rispetto alla notte precedente, quando dalle finestre erano state lanciate lenzuola e coperte incendiate. Per oggi è in programma un incontro fra il direttore della struttura, Oreste Cacurri, e la commissione dei detenuti.

Ravenna: il Provveditore regionale; l'ex direttrice non ha colpe

 

Il Resto del Carlino, 20 agosto 2009

 

Il Provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Nello Cesari, ha fatto pervenire una nota in cui afferma che "Caterina Cirasino, già direttore della casa circondariale di Ravenna, ha avuto un trasferimento che ha tenuto conto di esigenze dell’ufficio e dello stesso funzionario; la sua pertanto non è stata una rimozione, ma una destinazione ad altro istituto con connessi oneri a carico dell’Amministrazione per un identico incarico dirigenziale". Cesari ritiene quindi "arbitrario ogni accostamento" del trasferimento "a inchieste in corso", inchiesta giudiziaria che peraltro scaturì nell’autunno di un anno fa dopo un’ispezione straordinaria disposta dal ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Cesari, rispondendo poi all’intervento dei Giuristi Democratici difende l’operato della ex direttrice per quanto riguarda l’impegno a contenere il sovraffollamento del carcere: "Lo stesso dirigente ha più volte sollecitato trasferimenti di detenuti" al Provveditorato regionale come all’ufficio ministeriale. "Nel corso dell’anno sono stati sfollati 27 detenuti da questo provveditorato e 116 dal Dipartimento". Va da sé, comunque, che solo ora il ministro ha disposto che il carcere di Ravenna non possa ospitare più di 106 detenuti.

Per Cesari "la situazione precaria della casa circondariale" ravennate, "dovuta alla carenza di organico, all’insufficienza di fondi, all’inadeguatezza delle strutture, aggravata dal sovraffollamento, non può essere addebitata al direttore e neppure solo all’Amministrazione".

Scrive Cesari: "Da decenni infatti si è ipotizzato la costruzione di un nuovo carcere; gli enti locali avrebbero dovuto mettere a disposizione le aree e i vari governi, succedutisi nel tempo, i fondi necessari". Il fatto è che se è vero che lo Stato non ha mai trovato fondi per finanziare la costruzione di un nuovo carcere a Ravenna, è altrettanto vero che l’Amministrazione comunale da anni ha individuato l’area per la realizzazione del carcere e lo ha scritto a chiare lettere e ripetutamente al ministero della Giustizia.

Nello Cesari fa poi "un’ultima constatazione: da oltre un anno il servizio sanitario, ivi compreso il controllo igienico sanitario alle strutture, è passato alle Asl e l’Amministrazione penitenziaria non ha alcuna competenza in materia. È ingiusto e ingeneroso scaricare sugli operatori penitenziari, ivi compreso il direttore, le emergenze penitenziarie che chiamano in causa la società nel suo complesso".

Melfi: Polizia; carcere ad alto rischio di criminalità organizzata

di Fabio Amendolara

 

Giornale della Basilicata, 20 agosto 2009

 

C’è chi si dedica allo studio e riesce a laurearsi e chi si è suicidato. Chi ha tentato un omicidio, chi gioca a calcio, chi costruisce navi nelle bottiglie di vetro e chi è riuscito a evadere. Il carcere di massima sicurezza di Melfi è in cima al paese. In gergo penitenziario viene definito "carcere di terzo livello": ovvero per detenuti pericolosi. Soprattutto calabresi. Come Vincenzo Macrì da Siderno, detto "ù baruni", il barone. Qualche anno fa i carabinieri del Ros origliarono una sua chiacchierata. Il boss, sicuro di non essere ascoltato, nel silenzio della sua cella disse al suo fedelissimo genero, "Gratteri fici disgrazi ‘nta ionica".

Gratteri è Nicola Gratteri, magistrato d’assalto della procura antimafia di Reggio Calabria. E le disgrazie di cui parlava il boss erano le operazioni antimafia che avevano decimato la sua cosca. In quell’occasione il boss decise che "ù sangu", il sangue, doveva scorrere. Il magistrato fu salvato appena in tempo. Per lui era già pronta un’autobomba. Poi il boss è andato "al passeggio", a fare "la socialità" - così in carcere chiamano l’ora d’aria - e ha fatto amicizia. È questo che preoccupa gli investigatori della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Potenza. In un’annotazione inviata alla procura antimafia descrivono "la situazione degli istituti penitenziari lucani, e in specie di quello di massima sicurezza di Melfi, unico carcere della Basilicata a ospitare detenuti raggiunti da provvedimenti cautelari per reati di mafia".

 

L’apprendistato

 

"Nel corso della presente indagine - si legge nell’informativa - si è scoperto che è proprio nel carcere di Melfi che la criminalità organizzata lucana entra in contatto con esponenti di vertice di organizzazioni mafiose a carattere nazionale, dalle quali mutua le proprie strategie criminali e i programmi operativi, strutturati oltre che da traffici illeciti e azioni delittuose, anche da omicidi, intimidazioni e persino aggressioni a rappresentanti dello Stato". Anche questo è il carcere di Melfi. È il caso di un agente di polizia penitenziaria che ha subito un’azione intimidatoria. Si chiama Michele Patella e da quel giorno ha dovuto lasciare il suo incarico operativo per sedere dietro a una scrivania.

 

Boss in trasferta

 

Ma a Melfi accade anche che un latitante della ‘ndrangheta decida di consegnarsi e che pretenda di scegliere in quale cella passare i giorni della sua detenzione. Una storia "singolare e al tempo stesso inquietante", la definisce il vicequestore aggiunto Barbara Strappato, capo della Squadra mobile, negli atti che il Quotidiano ha potuto consultare. È la storia di Fancesco Cusato di Siderno. Arriva a Melfi con il suo avvocato, si fa arrestare e chiede di alloggiare nella cella di Vincenzo Macrì, "ù baruni", "scambiando - scrive il capo della Squadra mobile - il complesso penitenziario per un albergo per gite scolastiche, dove ognuno può scegliersi il compagno di stanza".

 

Minima sicurezza

 

La cella del barone era un porto di mare. "Fragilità del sistema penitenziario", la chiamano gli investigatori. Con lui in cella c’era anche un altro personaggio: Alberto Luciano Franco, un grossista del mercato della droga che qualche mese prima era stato fermato a Melfi con alcuni esponenti del clan Cassotta.

 

Polizia preoccupata

 

"Va segnalata infine - si legge nell’informativa - la circostanza davvero incredibile e, per certi versi, anche pericolosa derivante dalla decisione assunta dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma di spostare l’indagato Gerardo Navazio (in carcere con l’accusa di omicidio ndr) dalla Casa Circondariale di Castrovillari a quella di Rossano, dove risulta ristretto da diverso tempo Angelo Di Muro, col quale vi sono evidenti ragioni di contrasto che potrebbero determinare spiacevoli conseguenze per entrambi".

Voghera (Pv): il carcere più grande, al Comune non interessa?

 

La Provincia Pavese, 20 agosto 2009

 

"Il carcere va verso il raddoppio e un riassetto, il Comune lo sa?". Pd e Rifondazione accusano la giunta di centrodestra di essere troppo distante. Distante da un tema che investe direttamente anche la città. Il capogruppo del Partito democratico in Regione, Carlo Porcari, e il capogruppo comunale del Prc, Sergio Vitellini, incalzano il sindaco Aurelio Torriani.

"Quando si costruì l’allora supercarcere la giunta di Italo Betto aprì il canale del dialogo, oggi sembra che in via Prati Nuovi ci sia un mondo a se stante, avulso dal contesto cittadino".

I due esponenti sono preoccupati. Il Prc si prepara a una nuova visita, in delegazione con il consigliere regionale Muhlbauer, alla struttura diretta da Paolo Sanna. Vitellini mette le mani avanti: "L’impressione è che non si vada solo verso il sospirato ampliamento del complesso carcerario ma che, al contrario, si profili una radicale trasformazione dell’attuale assetto interno. Come può un’amministrazione comunale restare alla finestra?

Ci auguriamo di sbagliare, ma a quanto abbiamo appreso sembra che potrebbero esser sottratti laboratori e risorse utili alla rieducazione dei detenuti comuni per lasciar posto alla nuova ala per i sorvegliati speciali. Serve un approfondimento immediato - sprona -, questa è una questione che investe la politica locale". In particolare Rifondazione teme possa perdere peso la dimensione territoriale del carcere per lasciar posto alla detenzione di soli boss o detenuti in regime di massima sicurezza.

"Il carcere di Voghera - dice l’esponente di Prc - deve anzitutto servire a rieducare e reinserire. Da anni ci rechiamo periodicamente in visita, più di una volta l’anno, all’interno la struttura. Crediamo si debba continuare a lavorare per spingere chi sbaglia a ripartire da zero". Rifondazione teme che spariscano spazi per i detenuti comuni, in particolare quelli destinati al progetto Argo, il canile in carcere, che nel 2005 l’ex direttrice della struttura penitenziaria, Stefania Mussio, e l’Enpa, coordinata da Grazia Centelli, trasformarono in un’iniziativa nazionale.

Anche Carlo Porcari, capogruppo del Pd in Regione, teme un colpo di scure alla dimensione territoriale e rieducativa del carcere: "Lo scorso fine settimana, prima del break di Ferragosto, ho voluto toccare con mano lo stato in cui versano alcune carceri. Sono stato anche a Voghera dove mi pare manchino, come altrove, personale e strumenti per sostenere la sfida a mio avviso cruciale che si chiama reinserimento".

Porcari, allargando il campo, parla di un malessere diffuso: "In Italia e in Lombardia siamo abituati a uno stato d’emergenza perenne sul fronte del sovraffollamento ma, garantite condizioni di decenza a chi già sconta la privazione della libertà, si è solo a metà dell’opera. Non bisogna solo ingrandire le carceri ma anche creare le condizioni perché, scontata la pena, i detenuti non tornino più in cella".

Porcari è chiaro: "Vivere in certe condizioni la detenzione vuol dire solo entrare da ladri e uscire da ladri incalliti. La rieducazione è un lavoro lungo, che necessita di spazi e personale. Credo sia singolare che la giunta vogherese non si ponga il problema di cosa succederà in via Prati Nuovi. Considerando il carcere un mondo a parte i problemi non scompariranno, anzi, rischiano solo d’ingigantirsi".

Voghera (Pv): poco personale, evade collaboratore di giustizia

 

Adnkronos, 20 agosto 2009

 

"È evaso un detenuto dalla Casa Circondariale di Voghera", in provincia di Pavia. Lo riferisce, in una nota, la Uil Pa Penitenziari, specificando che si tratta di "un collaboratore di giustizia di 2° fascia, siciliano 54enne con fine pena 2015, detenuto per armi e altro, ammesso ai sensi dell’articolo 21 O.P. al lavoro esterno".

"Da ciò che sappiamo - dichiara Angelo Urso componente della segreteria nazionale della Uil Pa Penitenziari - pare che il detenuto, ammesso al lavoro esterno nell’area demaniale dell’istituto non ha fatto rientro al termine dell’orario di lavoro. D’altro canto l’insufficienza degli organici della polizia penitenziaria costringe a determinare servizi sotto i livelli minimi di sicurezza". Il sindacato, "nel rimettere agli Uffici competenti l’accertamento di eventuali responsabilità, non può non affermare come anche questo ennesimo evento critico tiene alta l’attenzione sul mondo penitenziario e sulle difficoltà che ne caratterizzano il periodo".

"Ogni giorno - aggiunge Urso - il carcere assurge agli onori della cronaca a dimostrazione che gli allarmi lanciati dalla Uil negli ultimi tempi non erano infondati. Aggressioni, evasioni, proteste e rivolte - continua il sindacalista - sono la prova che la politica, senza bandiere e senza colori, deve interessarsi al sistema carcere. Occorre individuare soluzioni utili. L’attuale sovraffollamento con il trend in continua crescita determineranno a breve un grave problema di ordine pubblico e di garanzia della sicurezza sociale".

"Il punto non è solo se costruire nuove carceri e/o nuovi padiglioni per incrementare la ricettività del sistema ma anche e soprattutto che il sistema penitenziario incrementi le risorse umane disponibili. E non parliamo di incrementi, sia chiaro, ma di colmare le attuali deficienze che, per la polizia penitenziaria, ammontano a ben 5mila unità", aggiunge Urso.

"Dopo le rivolte di questi giorni, l’evasione di Bologna e quella odierna di Voghera" la Uil "torna a chiedere al Ministro Alfano un incontro tra le parti, fermo restando che le nostre manifestazioni di protesta e sensibilizzazione restano confermate sul territorio e si chiuderanno il 22 settembre davanti a Montecitorio, noi crediamo che gli eventi impongano al Ministro Alfano un confronto con le rappresentanze sindacali. Il Ministro ha più volte annunciato assunzioni straordinarie ma non ci risulta abbia ancora formalizzato disegni di legge in tal senso".

"È l’ora, invece, di fatti concreti. Senza soluzioni certe e atti che alimentano la speranza la situazione potrebbe diventare ingestibile ed ingovernabile. È, quindi, l’intero Governo chiamato a dare segnali concreti. Quel Governo che non smette mai di far riferimento alle politiche sulla sicurezza; il carcere è l’emblema della sicurezza. Se lo si lascia al proprio triste destino, poi, non potranno piangere sul latte versato", conclude il sindacato.

Sanremo (Im): Sappe; detenuto tenta suicidio, carcere al collasso

 

www.riviera24.it, 20 agosto 2009

 

Come Sappe crediamo proprio che si arriverà tra pochi giorni ad un consistente segnale di protesta, almeno su quanto è preferibile mettere sul tavolo di contrattazione e migliorare con urgenza ciò che a nostro avviso è migliorabile.

Un immigrato tunisino, detenuto presso le carceri di Sanremo, è stato salvato in extremis dalla polizia penitenziaria, ieri sera, da un tentativo di suicidio. L’uomo, infatti, in preda a una crisi autolesionistica, si era procurato, sembra con una lama, diverse ferite di seria entità ai testicoli e ad una vena del braccio destro. "Ha messo a dura prova tutto il sistema - spiega una nota del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria - e il risicato personale di turno già impegnato su diversi fronti. Si è trattato di un soccorso al limite tra la vita e la morte del detenuto, che ha perso molto sangue".

Pare che fosse da giorni che lo stesso detenuto continuava a procurarsi ferite sugli arti e a tenere sotto scacco il personale della penitenziaria. Ora, gli agenti minacciano l’agitazione: "Entro il mese prossimo - conclude la nota - se non arrivano segnali di considerazione per il Sappe e per i suoi rappresentanti, saranno messi in atto perentorie proteste congiuntamente anche ad altre sigle che non sembrano lontane da idee di questo genere, iniziando dallo stato di agitazione globale e dalla astensione della mensa, fino ad arrivare a un sit-in di protesta davanti al carcere".

 

Il comunicato del Sappe

 

Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria della Liguria dopo la incandescente situazione di tensioni e di scarsa sicurezza nelle carceri di tutta Italia , venutasi a creare per l’imponente sovraffollamento degli istituti di pena ma anche per una mancanza di personale denunciata da anni da questa sigla sindacale: ieri sera, alle 18:30 circa, la Polizia Penitenziaria di stanza al carcere di Valle Armea, ha salvato in extremis la vita di un detenuto di nazionalità Tunisina che, per delle procurate autolesioni di seria entità, una ai testicoli e una alla vena principale del braccio destro ha messo a dura prova tutto il sistema e il risicato personale di turno già impegnato su diversi fronti.

Si è trattato di un soccorso al limite tra la vita e la morte del detenuto a causa di una copiosa ed inarrestabile fuoriuscita di sangue. Lo stesso detenuto è da giorni che continuava a procurarsi ferite sugli arti e a tenere sotto scacco il personale ridotto all’osso, ritenuto come altri ingestibile per il forte stato di psicolabilità. Sarebbero bastati pochi minuti ancora e molto probabilmente il soggetto avrebbe potuto perdere la vita, questo e quanto è stato accertato dal primo momento. Come primo sindacato di categoria siamo stati ragguagliati che le condizioni lavorative sono veramente pessime, da giorni i poliziotti del carcere non fanno altro che scortare detenuti presso gli Ospedali di Sanremo e Imperia accumulando ore e ore di lavoro.

Le condizioni di lavoro sono molto approssimate, l’esiguo numero di Agenti non regge più alle continue sollecitazioni, si chiede pertanto di integrare con urgenza il personale di prima linea attraverso una riorganizzazione dei servizi. Ormai è giunta l’ora di rinunciare momentaneamente a qualche poliziotto addetto a mansioni d’ufficio e pensare di dare maggiore considerazione al mantenimento esigente ed importante della sicurezza in attesa di nuovi ed auspicabili rinforzi. Secondo una prima stima mirata esclusivamente alla sicurezza e con un carcere giunto ad ospitare 350 detenuti a fronte dei 209 previsti, deve essere rafforzata la catena dei servizi e dei posti di servizio pertinenti la sicurezza.

È impensabile continuare a chiedere la cosiddetta prestazione lavorativa di garanzia sempre agli stessi, vanno subito riviste alcune problematiche senza perdere altre occasioni, infatti è da tempo che questa sigla attende un incontro con la Dirigenza dell’Istituto, in vero dal mese di maggio e mai arrivata a concretizzarsi per la latitanza già più volte stigmatizzata dal Sappe della Direzione del carcere, sempre più convinta dei propri mezzi. Sappiamo bene che la situazione delle carceri di tutta la penisola è allarmante, i dati parlano chiaro, oltre 65.000 detenuti sono oggi ospiti delle patrie galere, sono stipati, affastellati in condizioni penose, ma avere dall’altra parte anche la caparbietà e la anomala voglia di poter continuare a gestire il carcere seguendo linee personalissime senza dare, da diversi mesi, ascolto al sindacato, non è più ammissibile.

Come Sappe crediamo proprio che si arriverà tra pochi giorni ad un consistente segnale di protesta, almeno su quanto è preferibile mettere sul tavolo di contrattazione e migliorare con urgenza ciò che a nostro avviso è migliorabile per il bene di tutti i poliziotti di Valle Armea. È alle porte una buona opera di protesta, in quanto proprio stasera con il rischioso soccorso e il successivo salvataggio del detenuto extracomunitario i poliziotti hanno esternato indignazione e malessere per come è costretto a lavorare da alcuni mesi or sono. Si sa, l’insofferenza il tumulto attorno agli agenti è pressante e sfiancante, secondo questa segreteria questa sera, grazie alla professionalità e alla prontezza di un certo personale esperto e navigato, si è riusciti a pelo ad evitare il peggio pur operando in condizioni incresciose.

Entro il prossimo mese, se non arrivano segnali di considerazione per il Sappe e per i suoi rappresentanti, saranno messi in atto perentorie proteste congiuntamente anche ad altre sigle che non sembrano lontane da idee di questo genere, iniziando dallo stato di agitazione globale e dalla astensione della mensa, fino ad arrivare ad un sit-in di protesta davanti al carcere! In conclusione si vuole portare a conoscenza di tutto il personale della sede sanremese, tutta la nostra solidarietà per quanto stanno facendo e per quanto hanno dimostrato nel particolare frangente di questa sera. A loro i nostri complimenti.

Palermo: teatro di Vito Zappalà per i detenuti dell’Ucciardone

 

Asca, 20 agosto 2009

 

Provincia in Festa entra nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. Oggi alla casa circondariale palermitana, la compagnia Vito Zappalà manderà in scena la commedia in due atti "U scimunito da Vucciria" di Vito Zappalà. Lo spettacolo destinato ai detenuti è uno degli appuntamenti nel campo del sociale inserito nel cartellone di Provincia in Festa. "Un’attenzione particolare - sottolineano il presidente della Provincia di Palerrmo, Giovanni Avanti, e l’assessore alle Politiche sociali Domenico Porretta - verso soggetti che non possono partecipare ad altri eventi. Dopo l’esperienza al Pagliarelli dello scorso aprile, abbiamo voluto creare un altro momento di incontro e di svago per una giornata sicuramente diversa dal solito". La rappresentazione, ambientata nel popolare mercato palermitano, si snoda intorno alla figura della giovane orfana Cicaledda (interpretata da Cinzia Zisa) e dei suoi pretendenti. A salire sul palco saranno anche Vito Zappala (nei panni di Pietro ù scimunitu), Teresa Zappalà, Massimo D’Aleo, Donato Zappalà, Grazia Zappalà, Calogero Spina.

Immigrazione: massacro in Libia, 20 somali uccisi dalla polizia

di Gabriele Del Grande

 

Fortress Europe, 20 agosto 2009

 

Bagno di sangue a Bengasi. Almeno 20 rifugiati somali sarebbero stati uccisi dalla polizia libica durante un fallito tentativo di evasione dal centro di detenzione di Ganfuda, dove erano detenuti perché sprovvisti di documenti.

Cinque di loro sarebbero morti sotto gli spari della polizia al momento della fuga. Gli altri 15 sarebbero invece morti a seguito delle violenze inferte loro dagli agenti di polizia, armati di manganelli e coltelli. La repressione è stata durissima, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali.

I fatti risalgono alla prima settimana di agosto. La notizia è stata diffusa il 10 agosto dal sito internet della diaspora somala Shabelle Media Network che ha parlato telefonicamente con un testimone oculare della strage. La notizia è stata ripresa anche dalla stampa libica (Libia Watanona) e internazionale (Voice of America). Ed è confermata da una terza fonte, con cui Fortress Europe è direttamente in contatto a Benghazi, ma della quale non possiamo svelare l’identità per motivi di sicurezza.

Sebbene al momento non si conosca ancora l’esatta ricostruzione dei fatti e non si sappia con certezza il numero delle vittime, si tratta comunque della più grave strage avvenuta nei campi di detenzione libici. Una notizia credibile anche alla luce di massacri ben più atroci, come quello che venne commesso a Tripoli, nel carcere di Abu Salim, nel giugno del 1996 e che costò la vita a centinaia di detenuti libici. Ovviamente le autorità libiche hanno prontamente smentito la notizia. L’ambasciatore libico di stanza a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur ha definito la notizia una "menzogna" e ai giornalisti ha chiesto: "prima di parlare o scrivere dovrebbero confrontarsi con noi".

Questa notizia è gravissima. Questa è la Libia verso cui l’Italia rispedisce fieramente centinaia di emigranti e rifugiati. Gli ultimi 80 somali sono stati respinti lo scorso 12 agosto. Dall’inizio di maggio i respinti sono almeno 1.216. O almeno quelli di cui si ha notizia. Perché di altri non si sa niente. Come del gruppo di 80 eritrei imbarcatisi il 29 luglio e mai arrivati, eppure ufficialmente mai respinti. Dall’estero i familiari chiedono notizie di loro. Speriamo soltanto che non sia accaduta una tragedia in mare.

Droghe: il Dpa denuncia Grillo; "istiga al consumo di cannabis"

 

Notiziario Aduc, 20 agosto 2009

 

Il Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri ritiene che "le affermazioni fatte nel blog da Beppe Grillo, relative ad alcuni aspetti sulla Cannabis e sulla carcerazione di persone che utilizzano tale sostanza, siano esternazioni fortemente inesatte, fuorvianti e prive di fondamento".

"Questa sorta di inno alla cannabis - prosegue il Dipartimento - sfiora senz’altro gli estremi previsti degli articoli 82, 83 e 84 della legge sulle droghe (Testo Unico 309/90) di istigazione e proselitismo e induzione all’uso di droghe. Per questo motivo il Dipartimento ha predisposto una segnalazione alla Procura affinché valuti se i contenuti del Blog possano connotare gli estremi di reato riscontrati negli articoli specifici". A scatenare la reazione del Dipartimento è stato l’intervento apparso ieri sul blog del comico genovese e dal titolo "L’erba di casa mia" dopo aver annunciato la sua campagna per la marijuana libera.

"Buon 168 - ha esordito Grillo - Vi parlerò della droga! La droga! I drograti! Se usi la droga sei un drogato! Due dati: secondo il ministero della Giustizia, fino alla fine del 2008 in galera c’erano 58.127 detenuti. Adesso ce ne sono 63.771. Sono aumentati di circa 5.500 unità, l’unica cosa che aumenta in Italia sono i detenuti. L’indulto ceppalonico ne aveva liberati ventimila, che sono rientrati quasi tutti. Ma l’indulto, lo sapete meglio di me, è servito non per togliere dalle carceri dei delinquenti ma per tenere quelli veri fuori. Il discorso è malposto, molto malposto: qui parlano di costruire nuove carceri, ma se Zanna Bianca Maroni dice che la criminalità sta diminuendo che senso ha fare delle carceri nuove, se ci saranno meno criminali fra un po’?.

E ancora: ‘Per fare tutto questo bisogna mettere mano alla legge Fini-Giovanardi, una legge indegna, indecorosa, come chi l’ha concepita. È una cosa indegna equiparare la marijuana, la cannabis, la canapa cioè una piantina a una droga pesante, bisogna essere bacati di testa.

La legge riempie le carceri ma anche i cimiteri: io ho scritto di quelle persone morte in carcere dopo essere state arrestate per una piantina, parlo del falegname di Perugia Aldo Bianzino e l’operaio Stefano Frapporti di Rovereto.

La canapa - ha scritto ancora Grillo - è una pianta, come si fa a incriminare una pianta? Anche il Sassofrasso allora. Contiene il principio attivo dell’ecstasy... è un albero, magari Giovanardi ne ha uno nel suo parco. Avrà un Sassofrasso, allora diamo sei anni, dieci anni di galera a uno che detiene un Sassofrasso che contiene il principio attivo dell’ecstasy? Siamo veramente fuori. Cosa bisogna fare? La Corte di Cassazione il 10 gennaio 2008 ha sancito che la coltivazione sul balcone di casa anche di una sola piantina è da considerarsi un reato perseguibile. Ma perseguibile quanto? Quanto si può perseguire uno che si tiene una piantina sul balcone? Si può perseguire da sei a venti anni di carcere, dice la legge, con una multa che va da 26.000 a 260.000 euro nonché la sospensione del passaporto, patente di guida, porto d’armi, dovrà anche seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo a casa di Giovanardi. Ora lo capite: uno preferisce la pena di morte.

Nel frattempo, mentre fanno queste leggi, anni di galera a uno che ha una piantina -ha proseguito Grillo - a Gioia Tauro scaricano centinaia di tonnellate di coca che impestano tutta l’Italia. Mentre danno da sei a dieci anni di carcere a uno con una piantina a Milano 150.000 habitué consumano cocaina tutti i giorni.

Questa - ha concluso Grillo - è una legge ingiusta, antieuropea, ipocrita, mortale, antisindacale, anti intelligenza, discrezionale. Va riscritta, la detenzione di cannabis va depenalizzata: chi fuma uno spinello pagherà una multa, non puoi metterlo in galera come un delinquente abituale. Va fatto un indulto per toglierli tutti dal carcere e fare una legge speciale per mettere dentro i consumatori abituali di cocaina che sono in Parlamento, che conosciamo tutti.

 

Perduca a Dpa: dopo Grillo denunci anche me

 

"Mi autodenuncio al sottosegretario Giovanardi, col quale abbiamo avuto un dibattito alla Radio settimana scorsa proprio sulle dichiarazioni di Beppe Grillo sulla depenalizzazione della cannabis, che da stasera sul mio blog perdukistan.blogspot.com pubblicherò il post di Grillo L’erba di casa mia che il dipartimento anti-droga del Governo considera "una sorta di inno alla cannabis che sfiora senz’altro gli estremi previsti degli articoli 82, 83 e 84 della legge sulle droghe (Testo Unico 309/90) di istigazione e proselitismo e induzione all’uso di droghe".

Lo afferma Marco Perduca, segretario della Lega Internazionale Antiproibizionista eletto senatore nelle liste del Pd. Da oltre 30 anni, prosegue "i Radicali ritengono che la tossicomania sia una malattia da curare e che contro la criminalità comune e mafiosa occorra legalizzare, e quindi regolamentare, produzione, consumo e commercio delle sostanze proibite. La metà dei reclusi d’Italia che ho potuto incontrare in questi giorni, è privata della libertà in virtù di violazione della legge Fini-Giovanardi - una serie di misure che combinate con la ex Cirielli sono letteralmente criminogene" conclude Perduca. Invito quindi il Dipartimento a predisporre una segnalazione alla Procura affinché valuti se i contenuti del mio blog possano connotare gli estremi di reato riscontrati negli articoli summenzionati".

Israele: un presentatore della televisione, si è ucciso in carcere

 

Ansa, 20 agosto 2009

 

Un popolare presentatore della Tv israeliana, Dudu Topaz, 62 anni, si è ucciso stamani in un carcere di Tel Aviv.Lo showman era detenuto in attesa di essere giudicato per l’accusa di aver commissionato una serie di aggressioni contro esponenti del mondo dello spettacolo israeliano per vendicarsi del suo calo di notorietà e del suo allontanamento dagli schermi. Topaz si è impiccato approfittando dell’assenza di un secondino che lo aveva accompagnato a farsi la doccia.

 

 

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