Vita - 15 marzo

 

Un po’ di lavoro ridà dignità, anche dietro le sbarre

 

Un po’ di lavoro e un po’ di dignità: è chiedere troppo per gli stranieri in carcere? Ci sono carceri dove gli stranieri sono ormai il 70-80% della popolazione detenuta. Spesso sono ragazzi molto giovani, sono in Italia da poco, sono soli, non hanno parenti che possano dargli una mano nei momenti di difficoltà. Finiscono in galera e per mesi, a volte anni, come racconta Karim nella lettera che segue, devono andare avanti con quello che gli passa l’Amministrazione penitenziaria, cioè il minimo per la pura sopravvivenza.

 

Ornella Favero

 

Tutti dicono che quello che è particolarmente difficile, per noi extracomunitari in carcere, è di poter usufruire di permessi premio e di altri benefici. In realtà, una delle prime difficoltà per un detenuto che sconta una pena di diversi anni è quella di trovare una maniera per riuscire a mantenersi. Gli extracomunitari spesso sono stati arrestati poco dopo il loro arrivo, a malapena hanno capisco la sentenza che il giudice gli ha letto in aula e sono arrivati in carcere con i vestici che indossavano al momento dell’arresto e senza avere un parente da cui farsi portare almeno la biancheria di ricambio. L’aumento della popolazione carceraria significa poi dividersi in parti ancora più piccole quel poco di lavoro disponibile dentro al carcere. Gli italiani almeno hanno le famiglie, i colloqui, i pacchi da casa che li aiutano a sopravvivere, anche se è dura, per un adulto, essere ancora di peso ai familiari; ma noi, noi siamo proprio abbandonati, spesso non riusciamo neppure a trovare i soldi per le sigarette. L’amministrazione fornisce il minimo indispensabile di cibo, e col menù ministeriale non c’è da stare allegri e neppure si corre il rischio di avere problemi di linea. Poter avere poi il sussidio igienico - sanitario è quasi un’impresa disperata, in pratica se hai anche pochi soldi sul libretto non puoi ricevere gratis shampoo, lamette da barba, detersivo per panni e piatti. Altro tasto dolente sono le comunicazioni: quando sei rinchiuso anche un francobollo ha il suo costo, e se non ce l’hai lo puoi chiedere a un compagno una volta, due, ma la terza è troppo.

Per fortuna ci sono i volontari, che cercano di rispondere a tutte queste necessità, ma non possono farsi carico di tutto questo peso. Ci sono persone (anche tra i reclusi) che pensano che noi stranieri siamo sempre lì a chiedere, o che vogliamo troppo! Ma la realtà è che proprio ci manca tutto. Mangiamo per anni con le 3.600 lire previste dall’amministrazione per i nostri pasti, spesso non comunichiamo con i nostri cari: insomma, per tutti i detenuti, ma in particolare per gli extracomunitari, lavorare in carcere è la condizione minima per riuscire a mantenersi e riacquistare la dignità che permette di non elemosinare.

 

Karim Ayari

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