Discussone recidiva

 

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Non esiste una categoria “recidivi”, esistono tante storie troppo diverse per essere messe a confronto. E anche le statistiche servono a poco. Ne abbiamo parlato in redazione per “tenere alta la guardia”, perché interrogarsi sulla cause della recidiva non cura il male, ma almeno aiuta a cercare piccole possibili soluzioni

 

(Incontro avvenuto nel settembre 2006)

 

a cura della Redazione

 

Interrogarsi sulla recidiva dopo l’indulto è quasi d’obbligo, se si pensa che dall’inizio di agosto il mondo è pieno di gente che sta a fare la conta dei rientri e a catalogare le persone che subiscono reati come “vittime dell’indulto”. Ma i numeri e le statistiche, per quel che riguarda la recidiva, non aiutano, anzi a volte appiattiscono un problema, che di semplice non ha niente. Prima di tutto ci sono intere categorie di “recidivi” che hanno poco a che fare con i delinquenti comuni: i tossicodipendenti per esempio, che continuano a commettere reati certo non per arricchirsi, ma anche tanti immigrati che hanno sommato montagne di condanne per pure violazioni della Bossi-Fini. E ancora, quelli che non reggono perché non hanno mai vissuto con uno stipendio fisso di mille euro al mese, e quelli che non ce la fanno per disperazione e solitudine, e ancora, quelli che non riescono a togliersi di dosso l’etichetta di “ex detenuto” e si sentono condannati all’emarginazione, e quelli che tornano a commettere reati perché non sanno fare altro. Insomma, una realtà fatta di tante realtà, di cui siamo tornati a parlare in redazione. Di una cosa, comunque, siamo certi: per combattere davvero la recidiva, bisogna che la pena sia più vicina alla condanna, che le persone non vengano arrestate, rilasciate, e poi rimesse in galera dopo anni, perché così non è possibile costruire niente.

 

Ornella Favero: Vorrei che tornassimo sulla questione della recidiva. Ne abbiamo parlato molto quando c’è stata l’approvazione della ex Cirielli (N.d.R.: la legge che aggrava le pene per i recidivi e rende loro più difficile l’accesso alle misure alternative). Ora la questione è di nuovo al centro dell’attenzione dopo l’indulto, usata in modo strumentale dai media, e comunque non si può ignorarla, anche perché informare per noi deve voler dire far capire che non esiste una categoria “recidivi”, ma esistono tante storie diverse. Come si fa a pensare che il tossicodipendente che ruba per procurarsi la roba sia della stessa “categoria” del rapinatore che, dopo anni di carcere, esce e torna alla vita di prima perché non riesce ad adattarsi a una vita “normale”?

Marino Occhipinti: Sulla recidiva dei tossicodipendenti si fa fatica a parlare: non dico che è inevitabile, ma quasi purtroppo. Mentre invece casi come quello che abbiamo letto di recente, di uno che ha fatto venti, venticinque anni di carcere per reati come rapine a mano armata e simili, è in semilibertà e dopo un po’ di nuovo si fa tentare dai giri di una volta e rientra nel mondo della malavita, sono veramente la dimostrazione scientifica che in tanti casi il carcere non serve a niente.

Ornella Favero: Ma sono i soldi il motore che spinge le persone a tornare a commettere reati? È l’incapacità di adattarsi a fare quello che fa la gran parte degli italiani, cioè vivere con 1.000 euro al mese?

Elton Kalica: Penso che la cosa possa essere diversa per certe persone, che hanno fatto parte sempre del mondo della malavita. Molto spesso i soldi ce li hanno, dunque non avrebbero bisogno di fare rapine, penso che sia soprattutto uno stile di vita, la notorietà, la fama anche in negativo, il bisogno di essere sempre al centro della scena, perché è gente che fin da giovane è stata abituata ad avere l’attenzione di chi gli stava intorno per le “imprese” che faceva, e anche in carcere li hanno “rispettati” per il nome che avevano. Poi escono fuori, a 50 anni e più, e si trovano magari che al loro quartiere la gente non li saluta più perché i giovani non li conoscono, allora forse gli ritorna quella smania di dimostrare che sono qualcuno, “così parlano ancora di noi”.

Marino Occhipinti: Probabilmente uno si ritrova dopo 20 anni di galera a fare un lavoro faticoso da qualche parte, e uscire la mattina e rientrare la sera in carcere, senza nessuna prospettiva di miglioramento della sua condizione, e secondo me la voglia di dimostrare, più che agli altri a se stesso, che è ancora qualcuno è forte: ho visto che succede spesso nelle persone che finiscono in carcere che se qualcuno ti dimentica vuoi far vedere in tutti i modi agli altri che esisti ancora.

Ernesto Doni: Se io devo dire una mia opinione di quando sono uscito dal carcere, le cose sono andate così: sono uscito e mi sono sempre trovato in mezzo ad una strada. Adesso posso dire che sono un po’ guardato, sono un po’ curato. Io però ho paura che quando esco, se torno a Milano, sono rovinato un’altra volta.

Ornella Favero: Quindi la galera non è affatto un deterrente, cioè dopo tutti questi anni di galera a me sconvolge sentir dire: se vado lì perché ci sono i vecchi amici, rischio di restare di nuovo invischiato nelle vecchie storie, di farmi tentare da un ambiente che conosco, che è rassicurante, dove sanno chi sono. Ma Ernesto, quanti anni di galera hai fatto?

Ernesto Doni: 19 anni, è pesante, ma io ho paura di tornare dentro per questo: perché se vengo dentro ancora muoio qui stavolta.

Elton Kalica: Ernesto ha detto una cosa alla quale credo si debba dare molta importanza: “Se io vado a Milano”. “Se” comporta una scelta, è ovvio che se tutti noi scegliamo di andare a trovare i tipi “giusti” del quartiere da dove veniamo, siamo tutti destinati a rientrare in carcere, ma non è affatto scontato che lui esca fuori e scelga di andare a trovare i suoi vecchi amici a Milano. Quindi quello che ha detto lui riguarda tutti. Anche io se, quando esco, faccio la scelta di tornare a casa mia, prendo e vado nel mio quartiere e so chi sono i delinquenti, se vado là, li trovo li bacio li abbraccio, bevo, mangio con loro, andiamo in discoteca insieme, è ovvio che dopo due sere mi dicono: “Dai che c’è da fare un lavoretto oggi, vieni anche tu”. Però se io ho cambiato testa e scelgo di fare una vita regolare, evito di frequentare gli stessi posti, e quando vedo i vecchi amici, li saluto e basta.

Sandro Calderoni: C’è un altro aspetto della recidiva da considerare. Quando una persona esce dal carcere per lavorare all’esterno, sul posto di lavoro vive sempre con l’ansia che qualsiasi cosa succeda sarà lui il primo sospettato, sarà lui a essere preso di mira, e difficilmente avrà la possibilità di fare una vita “normale”, quindi dove va, dove finisce se non a continuare a fare i reati che ha fatto? anche questo è un motivo di recidiva, credo.

Ornella Favero: Quando diciamo che la persona che esce dal carcere si porta addosso molti pregiudizi, questo è vero da una parte, però se vogliamo essere onesti e realisti dobbiamo dirci che non si tratta sempre di pregiudizi, ma di una mancanza di fiducia che a volte si basa su fatti reali, su un passato che non si cancella così in fretta.

Alberto Xodo: Sì, ma spesso, quando hai commesso dei reati, alla fine paghi anche per delle cose che non hai fatto, non ne sapevi nulla e alla fine sei indagato per questi fatti, con sommari indizi, per esempio se nei paraggi di dove vivi tu a commettere un reato è stato uno con una certa corporatura o i capelli messi in un certo modo, allora devi essere tu per forza.

Ornella Favero: Una persona che è entrata ed è uscita dal carcere e ha commesso varie volte lo stesso genere di reati, o il tossicodipendente per esempio che ha rubato, che per la roba non ha guardato in faccia nessuno, secondo me non può parlare di pregiudizi se poi le persone che gli stanno intorno sono diffidenti nei suoi confronti. Allora distinguiamo le cose: se le forze dell’ordine ti sospettano sempre e comunque, vengono da te così senza prove, ti perseguitano senza motivo per quel che sei stato, questo è sbagliato. Però se tu sei in un posto di lavoro e lavori con dieci cittadini che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia e tu sei uno che ha fatto dentro e fuori dal carcere parecchie volte, allora io chiedo: ma voi di chi sospettereste se ci fosse un furto in un ambiente del genere?

Elton Kalica: Secondo me il fatto di essere etichettato come criminale influisce sulla vita di uno che è stato in carcere su due aspetti: uno nella vita quotidiana, e lì l’etichettamento ti spinge magari a vivere male, e non riesci a integrarti nella società o nel gruppo delle persone “per bene” perché sono tutti prevenuti, ti mettono un’etichetta di ex detenuto, di ex galeotto, di ex criminale, hanno la puzza sotto il naso, e tu allora ti dici “Meglio se vado coi compagni miei”. Ecco, questa è già una causa di delinquenza, mentre c’è un altro aspetto dell’etichettamento che è quello dei giudici, o dei poliziotti, e questo etichettamento ti porta in galera. Perché se tu vai di fronte ad un giudice, togliamo i casi in cui si viene arrestati in flagranza che sono pochissimi, la maggior parte delle condanne, dei processi si basa sui testimoni, su cose che dicono gli altri, dichiarazioni di gente che è stata fermata, arrestata o portata in questura o in carcere. Ecco se tu hai un precedente penale, se tu sei stato in carcere sei già al novantanove per cento colpevole, quindi i giudici, e prima ancora la polizia, i carabinieri hanno la convinzione che tu sei colpevole e cercano di trovare elementi su cui basare la loro convinzione, e spesso questo porta il giudice a dedicare minore attenzione ai fatti reali, alle prove. Come dire: ma certo che è stato lui, tanto lo ha già fatto... la cosa più grave però secondo me è il primo piano, è la vita comune, perché tu esci fuori e vedi che chi ti circonda, sia dove vivi che sul posto di lavoro, ti guarda dall’alto in basso. Questo lo sopporti una volta, due, ma la terza volta, visto che sono tutti o quasi “impermeabili” nei tuoi confronti, vai a trovare quegli amici che ti accettano per quello che sei, e però poi stando in compagnia con loro c’è naturalmente un maggior pericolo di ritornare a delinquere.

Graziano Scialpi: Sì, però io ho conosciuto gente che ha precedenti penali, e certamente sono andati a cercarli quando è successa una rapina nella zona dove stanno loro, ma se c’è stata la rapina e tu invece eri sul posto di lavoro, le forze dell’ordine angherie più di tanto non te ne fanno.

Elton Kalica: Proviamo però a pensare alla percentuale di recidivi che è dentro per rapina e ai recidivi che sono dentro per spaccio di stupefacenti: dei circa 500 detenuti che sono qui sono sicuro che per rapina ce ne saranno 20, il resto sono tutti per spaccio, e i recidivi per spaccio di stupefacenti spesso li arrestano perché c’è uno che, quando lo beccano con un grammo e gli chiedono “Chi è che te l’ha venduta?”, risponde magari “Elton”. E allora c’è poco da provare che Elton stava al lavoro, perché se Elton è stato una volta in carcere per spaccio e c’è un tossicodipendente che dice che si è procurato lo stupefacente da Elton, Elton viene automaticamente condannato.

Michele Cappabianca: Io per esempio, a un certo punto della mia vita ho lasciato il mio passato alle spalle e mi sono trasferito in un’altra città dove nessuno mi conosceva, ma i carabinieri, quando mi fermavano, la prima cosa che guardavano erano i precedenti penali, in base ai precedenti che avevo loro mi giudicavano: mi facevano controlli, mi perquisivano la macchina. Il problema è: se io mi comporto sempre bene e vado a lavorare, quanto mi possono turbare questi miei precedenti? A dire la verità la gente a me mi ha trattato sempre con cortesia, educazione, rispetto e fiducia, io facevo il muratore, mi davano le chiavi del loro appartamento, ho fatto dei lavori, non mi sono mai comportato male, ho avuto sempre la fiducia, però il problema esiste con le forze dell’ordine, perché magari sei un po’ arrogante, puoi essere prepotente nel modo di fare, io ho un caratteraccio, però mi sono sempre comportato bene, ho avuto una famiglia e lo Stato non mi ha dato niente, anzi tutto quello che mi sono costruito l’ho fatto con le mie forze, basandomi sugli errori della gioventù.

Franco Garaffoni: Comunque bisogna dire anche una cosa, esiste una “recidiva investigativa”, che chiaramente ci porteremo sempre dietro, non cambierà mai niente anche se passano vent’anni: è evidente che, se succederà qualcosa di illegale nel luogo in cui mi trovo anche io, sarò sempre il primo sospettato piuttosto di uno che è incensurato. Così, abbiamo un tipo di recidiva investigativa che non ci toglieremo mai dalle spalle. E occhio, perché giustamente Elton dice una grande verità: se io ho precedenti per spaccio e mi cuccano a parlare con te al telefono e ti dico “Portami la maglietta che hai a casa” e la maglietta è veramente la maglietta, un domani salta fuori un pentito che dice “Garaffoni spacciava cocaina”, e io pago anche se la maglietta era veramente tale e non un modo criptato per spacciare droga.

Ornella Favero: Mi ricordo una ragazza che faceva la ladra di appartamenti, e raccontava che di furti ne aveva fatti tanti, ma ne aveva pagati anche di quelli fatti da altri, che le “attaccavano” perché magari erano avvenuti nella stessa zona e non si erano trovati i colpevoli. Ovviamente se uno è recidivo il sospetto diventa quasi certezza, allora, a volte persone recidive finiscono per pagare anche reati che non hanno commesso, così come altri reati commessi sfuggono alla condanna. Questo è un problema, nel senso che una persona recidiva praticamente rischia di essere condannata a non uscire mai da questa spirale senza fine, perché anche nel momento in cui “appende al chiodo gli attrezzi”, e dice basta, se la troverà per anni probabilmente questa persecuzione. Però, io voglio fare l’avvocato del diavolo sulla questione che Franco, per esempio, ha chiamato “recidiva investigativa”: il pregiudizio, il fatto che tu sarai sempre quello sospettato, torno a ripetere che per questa questione qui, secondo me, scusate, ma una persona recidiva non si può lamentare più di tanto.

Sandro Calderoni: Io però vorrei almeno spiegare il problema che un recidivo ha rispetto alla vita di una persona normale. Per esempio mi ricordo quando ero ragazzo, e il Questore applicava l’articolo 1 (si tratta della legge n. 1423 del 27.12.1956, detta anche legge Tambroni, che prevede l’irrogazione di una serie di misure limitative della libertà a chi sia sospettato di mantenersi, anche solo in parte, con i proventi di reati, o di compiere abitualmente reati. La procedura prevede la notifica da parte del Questore di un “avviso orale” con l’invito a cambiare condotta di vita): non avevi reati, magari eri un po’ casinista, cose che si fanno da ragazzi, ti danno l’art. 1, l’invito a cambiare vita. A me, quando avevo 17-18 anni, l’articolo 1 l’hanno dato soprattutto per le chiacchiere di paese. Il fatto che comunque cominciano a darti misure del genere ti porta ad isolarti, a quel punto lì ti crei anche delle amicizie in ambienti di un certo tipo, perché lì trovi persone che magari sono isolate pure loro, così si crea tutta una catena senza fine che porta all’esclusione, e questo un po’ succede anche quando uno esce di galera, quindi a volte è l’isolamento che ti creano intorno a portarti a frequentare persone che hanno precedenti penali e a tornare in certi giri rischiosi.

Graziano Scialpi: Se io fossi un ascoltatore esterno sinceramente ti direi: sì, tu ti trovi perseguitato per tutta la vita, ma anche le vittime dei reati, anche i parenti di quello lì che gli hanno ammazzato il figlio durante una rapina, per tutta la vita se la tirano dietro, una storia così, anche quelli che sono rimasti scioccati, anche quelli che hanno subito il trauma di trovarsi l’appartamento buttato per aria, se la tirano dietro per tutta la vita. Ma la questione che rimane in sospeso è che c’è un 70 per cento di persone che continuano a commettere reati, o no?

Io sarei in difficoltà, se a me ponessero questa domanda: di tutta la gente che conosci in galera, su quanti scommetteresti dei soldi che escono fuori e vanno a lavorare otto o dieci ore al giorno e si accontentano di 800 euro al mese, e la sera stanno buoni in casa a guardare la televisione perché non hanno i soldi?

Piergiorgio Fraccari: Ma ce n’è stata di gente che è entrata la prima volta e, forse perché ha preso paura del carcere, ha capito tante cose e non è più tornata. Io posso portare l’esempio di gente incensurata che aveva una piccola attività, che si è trovata coinvolta con la droga, con la droga non devi metterti il passamontagna per fare rapine, non devi rischiare andando a rubare, ti danno in mano qualcosa, è facile fare i soldi. Quelli lì sono usciti e non sono più rientrati. Sono stati capaci di riprendere una vita normale, si sono attrezzati, hanno trovato una famiglia che li ha riaccolti.

Sandro Calderoni: Io volevo rispondere a Graziano che il problema non è che uno è recidivo e vuol fare vittimismo perché è recidivo, il problema è che quando esci sei isolato e difficilmente riesci a rientrare nell’ingranaggio della vita normale: se tu vai in un ambiente di operai, di lavoratori “veri”, raramente riesci a inserirti.

Gabriella Brugliera (volontaria): Sì, io penso che questo problema esiste, però facciamo il caso più eclatante, più semplice di recidiva, che è anche quella forse che più possiamo capire dal punto di vista umano, quello del tossicodipendente. Io sono stata derubata sul luogo dove mi fidavo moltissimo di lasciare tutto tranquillamente, e naturalmente in quel luogo c’era un tossicodipendente, tra l’altro mi legava e mi lega tuttora dell’affetto a questa persona, quindi nessun pregiudizio assolutamente, però nel momento in cui mi succede in un luogo del genere di essere derubata, anche se non ho la prova e anche se non faccio nulla, perché non ho voluto accusare nessuno, è chiaro che il mio pensiero è andato a quella persona. Quindi non è solo una questione di pregiudizio.

Marino Occhipinti: Se fanno un furto dove c’è un pregiudicato ovviamente si pensa subito a lui. Ma anche il Magistrato di Sorveglianza, quando si trova davanti a uno che è gia entrato ed uscito cinque, sei volte dal carcere, è logico che ha delle perplessità a concedere i benefici: cioè, poniamo per esempio che tu sei il Magistrato e hai davanti un incensurato che ha fatto un reato grave una volta, e poi invece quello che è recidivo: daresti i benefici più facilmente all’incensurato credo, è una cosa inevitabile.

Ornella Favero: È giusta la domanda, ce la poniamo spesso, è un po’ il senso di questa discussione: quante volte bisogna ritentare e che cosa si può fare perché comunque una persona non sia tagliata fuori e qualche possibilità le sia data. Ma dobbiamo affrontare questi problemi in modo aperto, sincero, perché è un terreno molto difficile su cui si cerca qualche possibile soluzione con grande difficoltà, e con l’ostilità di quasi tutto il mondo. Una domanda poi la faccio, brutale, ai recidivi: che cosa potrebbe farvi cambiare vita? se voi foste lo Stato di cui vi lamentate, su cosa investireste?

Franco Garaffoni: Qui in tanti siamo recidivi, noi sappiamo già il metro di valutazione che useranno con noi una volta che ci presenteremo davanti ad un Giudice. Ma il discorso vero è appunto cosa dovrebbe fare lo Stato, la società. Il fatto è che è automatico che quelli come noi hanno un credito presso la malavita uscendo dal carcere da non pentiti, ma non abbiamo invece, ovviamente, un “credito” di reinserimento presso la società: e qui è l’incongruenza. È la malavita stessa che mi dice: Franco vieni qui che hai un bel cervello, vuoi cominciare a “lavorare”, pronti, perché sa già che la società mi ha condannato, che fuori a livello sociale non trovo niente. Noi abbiamo un “bonus” da spendere presso la malavita, mentre lo Stato ti dà la riabilitazione e poi quando vieni fermato da chi deve essere il garante dell’applicazione delle sue leggi, cioè le forze di polizia chiamate a questo compito, tu per loro, anche se ti sei riabilitato, rimani sempre un pregiudicato. E allora ecco cosa dovrebbe fare lo Stato, rivedere questa situazione, bilanciare questa situazione, secondo il mio punto di vista, e allora ci sarebbe la possibilità di un reinserimento anche di chi esce di galera.

Graziano Scialpi: Io ho visto degli esempi concreti, conosco una persona, recidiva, è finita dentro per rapina e traffico di droga, si è rotta le scatole è uscita e ha cominciato a lavorare, sul posto di lavoro le sapevano queste cose, perché ha iniziato da semilibero a lavorarci. I primi anni i carabinieri, a ogni rapina che c’era in zona, andavano lì e guardavano se era sul posto di lavoro, poi si sono rotte le scatole anche loro, è finita, è stato promosso capo reparto. Adesso, però ha chiuso davvero con la vita di prima, i pregiudicati non li saluta neanche per strada, non si ferma a fare le quattro chiacchiere e a rievocare i vecchi tempi, va a pescare, ha amicizie in altri ambienti. Se te la vuoi costruire davvero, una vita diversa, ce la puoi fare, ma è dura, e non ci sono scorciatoie.

 

 

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