Discussione affettività

 

Tu mi hai abbandonato, perché devo piangere per te?

Il groviglio degli affetti in carcere: figli a cui dire o meno la verità,

mancanza di qualsiasi intimità nei colloqui, la grande fatica

di salvare le famiglie dai disastri della galera

 

(Discussione avvenuta nell’ottobre 2006)

 

a cura della Redazione

 

Gli affetti sono i grandi assenti nel percorso che un detenuto deve fare per ritornare dentro alla società. Eppure i familiari sono vittime dei nostri sbagli e non è giusto che paghino proprio con la privazione degli affetti, che subiscano il nostro stesso trattamento. Bisognerebbe almeno avere un po’ di tempo e di spazio in più per un contatto più diretto e intimo con i nostri cari, i figli, le mogli, le madri, perché oggi il dialogo nelle sale colloqui è difficile, tante volte per pudore non si riesce a parlare, a “sciogliersi”, a trovare le parole e i gesti giusti. Un po’ di intimità, serve soprattutto quello, per dire ai figli la verità sulla propria condizione, per affrontare con le proprie compagne la separazione in modo meno traumatico, per non perdersi del tutto. Per questo ci piacerebbe rilanciare finalmente la proposta di legge per “salvare gli affetti” che prevede di introdurre la possibilità di colloqui intimi in carcere, una giornata e una notte da passare insieme, per tenere unite le famiglie, ma anche per continuare a esistere come persone nella loro totalità, testa, cuore, sesso. Ne abbiamo parlato in redazione.

 

Ornella Favero: Abbiamo spesso discusso del rapporto dei genitori detenuti con i figli, ma che cosa succede con le compagne, le fidanzate, le mogli? Quanto regge un rapporto d’amore se c’è di mezzo la galera?

Marino Occhipinti: Secondo me è quasi tutto basato sulla durata della detenzione: se un uomo viene rinchiuso per dieci anni o più, dire che sarà difficile salvare il rapporto è già un punto di vista ottimistico. Basta pensare che non tutti i famigliari hanno la possibilità di sfruttare interamente le sei ore al mese consentite per i colloqui, soprattutto se abitano molto lontano. Questi incontri poi avvengono in uno stanzone, seduti a dei tavolini come in un brutto bar, e certo non si può dire che queste condizioni siano le più adatte a salvare un rapporto affettivo.

Ornella Favero: Siamo uno dei pochi paesi dove ancora non c’è la possibilità di colloqui più intimi. Addirittura in Russia i detenuti, ogni quattro mesi, possono trascorrere tre giorni con le loro compagne in locali appositamente attrezzati, eppure la Russia non è certo all’avanguardia per quel che riguarda le condizioni della detenzione….

Salvatore Allia: Secondo me se venisse concessa questa opportunità il rapporto tra marito e moglie o convivente di certo sarebbe più umano, ma soprattutto più “concreto”. Non dico che con questo si salverebbero tutti i matrimoni, ma certamente aiuterebbe a portare avanti un rapporto, che è comunque sempre a rischio. Se un detenuto ha dei parenti fuori che lo seguono e che aiutano anche sua moglie, standole vicino e sostenendola, sa per certo che ha più possibilità di non perdere gli affetti, rispetto a una famiglia che si trova in una situazione disastrata, senza soldi, con casa e figli da mantenere e tante altre difficoltà. In questo caso capita spesso che la famiglia si disgreghi. Una donna sola e disperata può resistere meno di un’altra che ha appoggi, non le si può dire niente se decide di condividere la vita con un altro uomo che, oltre tutto, le risolve tanti problemi. Quindi cercare di preservare la famiglia è la cosa più importante che bisogna fare, e se questa stanza dell’affettività può contribuire, ben venga.

Marino Occhipinti: Però questa questione, dei colloqui con un po’ di intimità, non deve essere considerata solo dal punto di vista sessuale. Mio padre per esempio non viene più ai colloqui da sei anni e mezzo. Entrava piangendo, piangeva tutto il tempo e quando usciva ancora per due ore continuava a piangere, proprio non reggeva questa situazione. Questo mi è servito per capire nel profondo mio padre, che ritenevo il duro della famiglia, e invece poi ho scoperto la sua parte fragile, mentre mia madre, che sembrava la più debole, in realtà si è dimostrata la più forte, anche perchè trasmetteva a me la sua forza, che per altro anche adesso mi permette di andare avanti.

Salvatore Allia: La cosa più bella che è capitata a me, nonostante la situazione in cui mi trovavo è stata quando il Pubblico Ministero disse durante il processo: “Quando Allia ha dei problemi, gli si forma una corazza attorno che lo protegge, formata da padre, madre, sorelle, fratelli e quant’altro. E prima di poter arrivare a lui bisogna passare da tutti quanti”. Per lui questo costituiva una situazione alquanto strana, mentre a me ha riempito il cuore di gioia. Ricordo che il mio avvocato, prendendo la palla al balzo, rispose: “Dovremmo vedere la cosa da un altro punto di vista. Nel senso che finalmente troviamo una famiglia che, nel momento in cui un suo componente ha un problema, non lo lascia allo sbando, anzi lo aiuta e lo sostiene”. Per quel che mi riguarda, devo ringraziare Dio che ho avuto la fortuna di avere una famiglia di questo genere, che certamente ha sofferto tantissimo e continua a soffrire, anche perché è estranea ad ogni tipo di situazione “malavitosa”. La famiglia è un punto fermo prima e dopo: se, quando uno esce, trova un appoggio affettivo ha molte possibilità in più nel reinserimento. Immaginate chi viene abbandonato dalla famiglia, quanta fatica fa per tornare alla normalità, sempre che ci arrivi.

Alì Abidi: Il problema, secondo me, è a monte, perché lo stato di abbandono di gente che vive simili esperienze deriva soprattutto dalla società in cui viviamo. Dobbiamo analizzare come viviamo, come è cambiata la società, come sono cambiate le regole del vivere civile. Faccio un esempio: chi è recidivo, chi è un mafioso di certo non subirà l’abbandono della moglie, perché in quel caso c’è la consapevolezza della scelta che si è fatta, ci sono delle regole non scritte che impongono un certo comportamento.

Marino Occhipinti: Ma le mogli dei mafiosi non li abbandonano perchè quella è la regola o perchè li amano? Io vorrei che mia moglie stesse con me perché mi ama. Ho letto alcune “regole” mafiose che indicano un rispetto estremo per le mogli proprie e degli altri, che le donne non devono essere toccate perché chi lo fà avrebbe contro tutta la malavita del posto, che la donna non può lasciare il marito… In quel caso schiavizzi la moglie, lo so che è così, come so che la moglie di Provenzano o quella di Riina non li lasceranno mai, ma non sono sicuro che siano quelli i veri valori familiari.

Davor Kovač: In Italia non c’è la possibilità di avere questi incontri intimi tra marito e moglie in carcere, ma devo dire che ho sentito spesso dei compagni affermare che, anche se ci fosse la possibilità, non avrebbero mai voluto avere un rapporto qui dentro con la moglie. Il motivo è semplice, va dal disagio che può provare la donna, alle battute degli agenti e dei detenuti stessi.

Ornella Favero: Ricordo che nel secondo numero di Ristretti Orizzonti, quasi dieci anni fa, avevamo parlato delle “celle a luci rosse”, così come le avevano subito ribattezzate i giornali. E anche allora era venuto fuori un discorso del genere, nel senso che molti detenuti non erano d’accordo di fare venire le mogli in carcere per questo scopo. Una cosa vorrei che voi tutti però capiste: che quando si discute su un tema così importante non bisogna restare legati alla propria personalissima visione delle cose. Lo scopo è di valutare in generale quali frutti potrebbe dare la possibilità di avere incontri intimi in carcere, anche considerando altri punti di vista. Ricordo che, quando diedero questa concreta possibilità in Svizzera, inizialmente ci furono stupore, resistenze, problemi di ogni tipo, ma con il passare del tempo è diventata la normalità.

Elton Kalica: È un discorso da tenere separato. Nel senso che, se si discute di valori, bisogna stabilire di quali valori si sta parlando. Per esempio i valori etici dell’islam, o di un cristiano o i “valori” della malavita, oppure di uno a cui non importa dei valori dell’uno o dell’altro, ma che ha semplicemente i suoi. Quindi, quando si parla di valori, bisogna tenere presente che ce ne sono una miriade, derivanti da culture e tradizioni diverse. Ci sono poi principi diversi come quelli del detenuto che, pur avendo la possibilità di avere un rapporto all’interno del carcere con la sua donna, lo rifiuta. Per conto mio non mi farei problemi ad usufruire di una possibilità del genere. In Albania qualche tempo fa, nelle carceri, a causa del sovraffollamento avevano ridotto da 24 a 12 ore gli incontri “intimi” con la famiglia e vi assicuro che è successo di tutto: accoltellamenti incendi ed altro. Ora non capisco come ci possano essere dei detenuti che rifiutano di stare con le proprie famiglie in intimità, solo per paura di essere umiliati: in ogni caso bisogna lasciare possibilità di scelta.

Ornella Favero: Ho trovato spesso in carcere i sostenitori dei valori e dei principi. Già diffido della parola “valori”, nel Medioevo esistevano dei valori che oggi noi consideriamo orrendi. Se vi ricordate, tempo fa abbiamo avuto un incontro con uno scrittore, Edoardo Albinati, ed è emerso per esempio che il valore della famiglia va bene quando si parla della propria, ma non ci si fanno scrupoli se si tratta delle famiglie degli altri. Comunque quando si afferma che fuori non ci sono più valori, anche su questo ho dei dubbi: tante volte si esaltano le famiglie di una volta in modo acritico, dimenticando la carica di violenza e di repressione dei sentimenti che spesso tante famiglie nascondevano.

Salvatore Allia: Mi sembra di aver capito che tu sei sostenitrice del fatto che con il passare del tempo cambia la vita e cambiano i valori, e che tutto sommato non ne vedi alcun problema. Ma è proprio questo il nocciolo del discorso. Ti faccio un esempio: mio padre ha 80 anni, mia madre 75, si sono sposati e hanno vissuto per 50 anni sempre assieme nel rispetto ferreo di valori che gli sono stati inculcati dai loro genitori. Ora ho potuto raffrontare la situazione mia con quella di tanti altri: nella sfortuna sono stato fortunato, in quanto sono stato sostenuto grazie a quelle regole ferree di cui parlavo prima. La mia famiglia ha provveduto a darmi i migliori avvocati, non è mai mancata ad un colloquio, mi arriva minimo una lettera al giorno… In pratica gli interessi personali di ognuno della mia famiglia si sono convogliati verso di me, non tenendo in considerazione né tempo né soldi. Vi posso assicurare che quando sarò fuori troverò una casa e una famiglia che mi aspetta a braccia aperte. Se non avessi avuto una famiglia come la mia che, nel bene e nel male, ha sempre stretto i denti ed è sempre andata avanti tra mille difficoltà, ora mi ritroverei in mezzo ad una strada come tanti. Matrimoni che durano un anno, coniugi che alla prima difficoltà mollano il colpo lasciando i figli al loro destino, perché non siamo più in grado di fare sacrifici per i figli ma solo per noi stessi. Per me è ancora più fastidiosa la situazione che si viene a creare spesso proprio tra chi fa delle scelte di illegalità. Faccio un esempio molto ricorrente: uno si sposa, si fa una famiglia, sceglie il crimine come linea di vita. La sua compagna di certo sarà al corrente di quello che fa, di certo condivide con lui gioia e benessere fin quando dura. Poi un giorno lo arrestano ed ecco che il sogno svanisce. Fin quando andava tutto bene stavano uniti, dal momento in cui lui è stato arrestato viene anche abbandonato. Ora riflettendo bene mi dico: ma non era meglio quando c’erano delle regole ferree, che quanto meno garantivano il supporto nel momento in cui capitava un problema? Così invece si ragiona in modo egoistico. Tu non ci sei più: chi se ne frega mi trovo un altro che mi mantiene e fine della gita.

Marino Occhipinti: A me non sembra neanche corretto che se finisco in carcere con un ergastolo debba obbligare mia moglie a sostenermi per tutta la vita.

Ornella Favero: Secondo me Salvatore ha fatto un esempio sbagliato. Perché non si può richiamare un valore partendo da un altro valore che è sbagliato in partenza. Nel senso che marito e moglie vivono alla grande grazie ai reati che lui commette. È proprio la debolezza di questo discorso che indica la poca concretezza di questi valori. È poco sensato esaltare queste mitiche famiglie in cui le persone sbandierano il valore dell’unità e della solidarietà, quando poi condividono uno stile di vita quanto meno discutibile.

Elton Kalica: In ogni caso dal momento in cui uno entra in carcere deve mettere in conto anche la rottura del rapporto. Quindi ben vengano tutte le cose che possano favorire il prosieguo del rapporto, anche perché nella sentenza non c’è scritto che non devo più avere rapporti con la mia compagna. Mi è stata tolta la libertà, è vero, e non lo discuto, però non c’è scritto da nessuna parte che devo essere privato anche di tutte le altre cose come l’affetto dei miei cari ed il rapporto con mia moglie. Non mi è stato tolto anche il diritto di fare l’amore.

Michele Cappabianca: Io penso che un figlio si debba cercare di prepararlo a certe verità. Mi ricordo che quando mio figlio doveva andare all’asilo, dove abitavo io è un paesino piccolo e c’erano delle persone con molti pregiudizi che parlavano dietro le spalle, perché ogni tanto mi fermavano i carabinieri per i miei precedenti penali, per cui avevo questa fama di essere un delinquente. Io allora ho cercato di preparare mio figlio, gli ho detto: “Guarda che papà ha avuto dei problemi nel passato: è vero, mi sono trovato in carcere, però questo non significa che non sono una brava persona, ho fatto degli errori, ma adesso lavoro e ti voglio bene”. Allora lui mi ha domandato cos’è il carcere, e io gli ho spiegato che quando una persona commette un reato, tipo rubare o rispondere male a un carabiniere, ti possono arrestare e ti mettono in un palazzo grande, dove stai chiuso in una cella e devi rispettare le regole che ti dice la guardia. Un po’ come quando la mamma ti dice di lavare il bicchiere dove hai bevuto, oppure mettere a posto le ciabatte. Poi gli ho spiegato che quando va in asilo, se qualche bambino gli dice che il suo papà è stato in carcere, non deve dargli retta. Certo non è semplice, non è un gioco da ragazzi affrontare queste questioni con un bambino, ma bisogna cercare di farlo nel modo più decente possibile. Mio figlio poi è andato all’asilo e non ha avuto mai problemi, anche perché i maestri erano abbastanza in gamba e non hanno mai fatto cadere nei pregiudizi i bambini.

Alì Abidi: Ci sono però tante situazioni diverse, non c’è una ricetta unica. Se il detenuto è incensurato, dipende dalla pena che ha decidere se si può dirlo al bambino o no. Invece quando uno è recidivo già il figlio capisce tutto, e purtroppo non c’è neppure bisogno di andare a nascondere i fatti.

Ornella Favero: Certo è una situazione molto più difficile quando uno entra ed esce dal carcere. Mi viene in mente la lettera che il figlio di un detenuto plurirecidivo aveva scritto al padre, una lettera durissima, in cui gli diceva: basta con tutte le promesse che hai fatto e poi non hai mantenuto!

Alberto Xodo: I miei figli per esempio quando vengono a colloquio non mi chiedono mai niente. Io credo che loro sappiano e capiscano tutto, perché lo sentono dagli altri, cioè dai vicini, a scuola, però con me non ne parlano, parliamo d’altro ma mai del perché io sono in carcere.

Marino Occhipinti: Ma invece di saperlo dai vicini non è meglio che gli parli tu di quello che è successo? Michele ha parlato di prepararli prima, però non in tutte le situazioni li puoi preparare prima. Dipende dal perché uno è finito in carcere, dipende quanti anni ha da fare, dalla reazione dei bambini, da quanti anni hanno… Cioè ogni situazione è completamente a sé. Io mi ricordo quando venne la più grande delle mie figlie, aveva sei anni a quei tempi, dopo due mesi durante i quali non le era stato detto nulla, ci ritroviamo in sala colloquio separati da un bancone con sopra il vetro. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Papà ma tu sei in galera?”. Voglio dire, allora non era meglio se lo sapeva prima?

Ornella Favero: Ci sono due problemi che io vedo pesantissimi quando bisogna dire la verità ai figli. Il primo è il problema di chi ha commesso un omicidio, perché noi viviamo in una società in cui l’omicidio è un grande tabù. Ieri leggevo i nuovi testi che i ragazzi delle scuole mandano qui e sempre c’è questa cosa: possono perdonare tutto, possono capire tutto, però chi ha commesso un omicidio secondo loro non merita nulla, né le misure alternative, né i permessi, nulla. E poi c’è il problema della recidiva, che è anche più difficile da gestire: ho sentito figli giustamente spietati verso quei genitori, che li riempiono di promesse e poi non riescono a stare lontani dalla galera.

Alì Abidi: Verifichiamo però prima se la situazione mi permette di dirlo a mio figlio. Sono molti gli aspetti negativi, secondo me, nel dire tutta la verità. Per questo io guardo alla durata della pena, se è abbastanza breve per me è meglio non dirlo.

Kastriot Shei: È un tema molto delicato. Parlo nel mio caso: mio figlio ha poco più di tre anni e sono quasi tre anni che non lo vedo e passeranno ancora due anni prima di vederlo. Quando parlo al telefono capisco che lui è nella fase in cui ripete le parole senza capire molto e quindi è ancora piccolo. Questo mi tranquillizza un po’, anche se tante volte penso che ho perso un periodo molto importante della sua vita. D’altra parte sono fortunato al confronto di altre persone che hanno un fine pena più lungo e hanno i figli più grandi, per loro è un vero problema mantenere i legami con i loro figli. Dal mio punto di vista non puoi tenere vivo questo legame con un’ora alla settimana di colloquio, quindi è indispensabile almeno conoscere l’ambiente dove vive il figlio, ed esserci anche tu in quell’ambiente, non fisicamente, però con una bella dose di racconti su di te… Per esempio io voglio dedicare un’ora ogni giorno per scrivere a mio figlio, per dirgli cosa ho fatto oggi e poi anche per inventare dei racconti. Però serve una collaborazione da parte di mia moglie o comunque di qualcuno della famiglia, che ogni sera, prima di dormire, gli dovrebbe far leggere queste lettere. Sono sicuro che un figlio ti può vedere anche attraverso delle lettere.

Emilio Coen: Se però invece un bambino può venire a colloquio, dobbiamo pensare anche a che tipo di shock può causargli incontrare il padre in carcere. Il bambino si può chiedere: “Ma perché posso stare solo un po’ di tempo con mio papà e poi devo andare via per forza?”. È facile dargli dei segnali negativi che poi gli rimangono per tutta la vita.

Marino Occhipinti: Non puoi essere tu però a dirgli che sei in carcere e a spiegargli la storia. Dovrebbero essere i famigliari fuori, quindi non è che nell’ora di colloquio gli devi spiegare perché sei lì. Tornando al discorso di Alì, tu dici che per un anno, un anno e mezzo si può tacere… Io non sono stato mai via da casa più di due-tre giorni, improvvisamente passano una settimana, due, tre e non torno più a casa, non telefono, non mi faccio sentire, mia figlia più grande piangeva e basta perché era convinta di essere stata abbandonata. Quando sono riuscito a telefonare, dopo due mesi, sai quali sono state le sue parole? “Guarda papà che io non piango più, perché non ti voglio più bene”. Qualsiasi bambino a quell’età direbbe: tu mi hai abbandonato, perché devo piangere per te? Questa è stata nella sua testa la prima reazione, poi le è stata detta la verità e alle telefonate successive ha ricominciato ad adorarmi. Proprio per questa esperienza non lo so cosa avrebbe pensato mia figlia se avessi avuto una pena breve, appunto come diceva prima Alì, e però fossi scomparso per un anno, un anno e mezzo… Non è stato bello neanche dirle: “Guarda, papà è in carcere”, però credo che per lei sia stato meglio sapere che ero in carcere piuttosto che pensare che l’avevo abbandonata.

Alberto Xodo: Il problema è dopo, cioè come si difende il bambino dalle cattiverie degli altri. Il problema è che mi sento impotente a difendere mio figlio, sento mia moglie che mi dice che il bambino lo hanno preso in giro… insomma non è una cosa facile da gestire.

Davor Kovač: Io penso che è meglio dirglielo prima che dopo. Perché se un bambino viene a sapere da estranei che il papà è stato in carcere, forse può prendere una brutta strada una volta che diventerà grande. Penso anche che parlando a scuola possa cominciare forse a vantarsi, non perché ne è convinto, ma come una reazione di difesa

Michele Cappabianca: Se noi insegniamo ai nostri figli la legalità, il rispetto verso gli altri, anche se papà ha sbagliato ed è stato in galera, anche se è recidivo… guarda che i bambini non sono così stupidi da dire: “Io voglio fare quello che ha fatto mio papà”.

Ornella Favero: Francamente non lo so se un bambino per reazione possa tendere a trasformare il padre in una specie di eroe. Quello che so per certo è che il 30 per cento dei figli dei detenuti finisce a sua volta in carcere: vuol dire che qualche problema ci sarà effettivamente. Una volta che noi abbiamo detto che è meglio dire la verità al figlio, siamo solo all’inizio, perché tutti i problemi nascono dopo. Vi faccio un altro esempio che riguarda parecchie persone: quando il reato del padre finisce sui giornali, come ci si comporta con un figlio? Perché quello è un massacro. Non solo nel caso di eventi eclatanti con titoli che urlano al mostro… ma anche per cose più piccole, con quel nostro vizio tutto italiano di scrivere il nome e cognome della persona anche se è solo indagata.

Salvatore Allia: Secondo me ci sono delle situazioni molto diverse. Per esempio c’è il papà che parte da un Paese straniero, viene in Italia, commette un reato e finisce in carcere. Allora è più facile che da parte della sua famiglia, nel suo Paese, ci sia un supporto valido per il bambino, e si può anche evitare di dire che il padre è finito in carcere. Poi, magari quando il bambino sarà grande, il papà si potrà prendere la briga, se vuole, di spiegare quello che gli è successo. Dal punto di vista di una persona che è italiana, con la televisione, la stampa, questo discorso non si può fare. La cosa è valutata in un modo diverso, perché chiaramente un figlio può sapere la verità prima dagli altri che dalla famiglia, e sarà una cosa devastante.

Sandro Calderoni: Se tu hai un bambino di tre o quattro anni, cosa gli devi dire? Solo se è un po’ più grande al limite puoi cercare di spiegargli qualcosa del perché sei lì. Ma anche se tu lo vedi a colloquio per un’ora, non è che stai lì a dirgli: “Sediamoci qui un attimo e facciamo un ragionamento”. Quando lo vedi pensi solo a giocare con lui, magari a farlo divertire, perché stai con lui per un’ora e quell’ora la devi far fruttare al massimo. Poi quando arriva a sette-otto anni, e ovviamente la madre gli ha detto dove sei, allora puoi cominciare a parlargli secondo il tuo punto di vista. Sei tu che poi entri nell’argomento se vuoi e lui sicuramente ti ascolterà.

Ernesto Doni: A mio figlio mia moglie ha tenuto nascosto il fatto che io ero in galera. Poi, piano piano, lo ha preparato. Quando mi è successa la disgrazia che sono finito in carcere, però, ho dovuto far spostare tutta la famiglia da Milano al Veneto, perché se io stavo lì dove è successo il fatto, la notizia gli avrebbe provocato uno shock.

Pier Giorgio Fraccari: Io invece penso sia una decisione sbagliata quella di non portare il bambino da un genitore in carcere. Il bambino di due o tre anni non capisce il luogo, né il motivo per cui è lì il suo papà. Lui vede solo suo padre, sente la sua presenza, quello che conta per lui è la sensazione di essere amato. Ma la verità è dura da affrontare anche con gli adulti. Per esempio ai miei consuoceri non è stato detto che sono in carcere: “Dov’è il papà di Giorgia e di Nicola? È in Olanda che lavora. Ma come? Non viene in Italia per il matrimonio di suo figlio? Potrebbe anche perdere un po’ di soldi e lavoro per motivi così importanti!”. Perciò, per non far sapere che ero in carcere, sono passato per una persona avida e insensibile. Ho dovuto accettare il fatto compiuto, anche se ho sgridato i miei figli per questo. Insomma, la verità, per quanto possa far male, è sempre la scelta giusta, correre dietro a delle bugie può alla fine determinare proprio la rottura di quel legame, che volevi salvare.

 

 

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