Discussione Giudecca

 

Chi ha voglia di “farsi prendere per mano”?

Il salto nel vuoto, dal carcere alla libertà, fa paura, ma fa paura anche l’idea di uscire

“sotto tutela”, di essere sottoposte cioè a un accompagnamento,

che finisca per diventare un controllo

 

(Realizzata nel mese di settembre 2006)

 

a cura della Redazione della Giudecca

 

Ragionare sul dopo carcere è difficile, perché non c’è niente di razionale nella realtà della detenzione: una persona prima viene isolata dalla società per essere “risocializzata”, poi viene rimandata fuori di colpo, e tutti stanno a guardare se regge. È come se, per insegnare a una persona a nuotare, la tirassero fuori dall’acqua, le facessero lezioni teoriche di nuoto e poi la ributtassero dentro nella speranza che riesca a fare subito i movimenti giusti. Ma quali sono i “movimenti giusti” per non andare a fondo quando si esce dal carcere? Ne abbiamo parlato alla Giudecca

 

Ornella: Una delle poche ricerche sulla recidiva disponibili, realizzata dall’Università di Trento alcuni anni fa, giunge alla conclusione che il reinserimento è più difficile per le donne. Allora vorrei provare a ragionarci su.

Paola: Intanto c’è una questione elementare: che noi non possiamo fare i muratori, non possiamo fare lavori pesanti. Tempo fa c’era una cooperativa sociale a Padova che prendeva solo ex detenuti, l’attività era quella di fare traslochi, facevano un lavoro di fatica e quindi prendevano solo maschi. I lavori che troviamo, anche qui a Venezia, quali sono? Alle donne vanno i cessi, è l’unico lavoro non troppo pesante quello della gestione dei bagni pubblici, gli altri sono lavori di fatica, per cui non prenderebbero mai una donna.

Cristina: E comunque anche le donne che non hanno, come noi, precedenti penali fanno più fatica a trovare lavoro, perché c’è l’idea che una donna un giorno o l’altro si sposa, dopo resta incinta, ha una famiglia da accudire. Io so di una mia amica che aveva presentato il curriculum a un paio di aziende, ed era una con una buona preparazione, ma le hanno detto semplicemente: lei è fidanzata, deve sposarsi? allora non la prendiamo.

Ornella: Ho sentito di recente dire da un Magistrato di Sorveglianza che più che una statistica e una ricerca sulla recidiva, gli piacerebbe venisse fatta una ricerca su quelli che ce l’hanno fatta a reinserirsi dopo il carcere. Voi da qui ne vedete uscire spesso di donne, riuscite a capire quali sono le persone che ce la possono fare? E che cosa si potrebbe pensare per preparare l’uscita, ora che ci sono meno di 37.000 detenuti e ci sarebbe finalmente la possibilità di investire risorse nel programmare un percorso delle persone il più possibile “indolore” per passare dal dentro al fuori? Oltre tutto da circa 22.000 persone in misura alternativa siamo ora a poco più di 5.000, come fare allora perché non si ricrei più quella situazione che abbiamo visto con l’indulto, e che vediamo spesso anche nella “normalità” delle uscite dal carcere? e perché si riesca finalmente a fare in modo che le persone siano messe in condizione di avere un’uscita graduale, “governata”? Magari creando un gruppo di lavoro in ogni carcere che coinvolga gli operatori dentro, gli operatori dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna e quelli dei servizi sociali degli enti locali, e poi i volontari, in una rete che prenda in carico le persone che potrebbero cominciare un percorso verso l’esterno.

Paola: Alla Giudecca, la preparazione interna all’uscita in semilibertà non manca, nel senso che si comincia a lavorare già qui, e soprattutto c’è l’abitudine al lavoro vero, con dei committenti esterni e quindi la necessità di rispettare criteri di efficienza e di qualità. Quello che manca sono le misure alternative, che vengono date poco. Ma questo è un problema su cui credo si possa fare poco.

Ornella: Sì, questo è un nodo che ritorna fuori sempre, se si pensa a quante persone erano dentro prima dell’indulto, nonostante avessero residui pena bassi o bassissimi. Su come preparare l’uscita resta comunque una grande incertezza. Il Ministero del Lavoro ha stanziato un finanziamento sul dopo indulto, che prevede anche che le persone siano accompagnate e seguite nel reinserimento da una specie di tutor, una figura che le assista, le aiuti se hanno difficoltà sul posto di lavoro, le affianchi se incontrano delle difficoltà.

Natasha: In che senso inserite, accompagnate? Io mi sento responsabile, a me non va neanche di avere una sorta di angelo custode… cos’è, uno psicologo da cui andare a sfogarsi quando hai problemi di rapporti con altre persone, insomma che cosa vuol dire?

Ornella: Bella domanda. Me la sono posta anch’io, però vorrei che facessimo un ragionamento, non a partire da “io non ho bisogno di avere una babysitter fuori”: il problema è che dovreste provare a pensare alle persone che escono, a tanti tipi di persone che escono da qui, con esigenze molto diverse, con fragilità diverse.

Natasha: Anch’io so che avrò dei problemi a rientrare in famiglia, e a recuperare il rapporto con mia figlia, che ora sta con mia madre e si è attaccata moltissimo a lei, anzi ora le dice proprio “Tu sei per me come mia mamma”. So che per riprendere i contatti con lei mi serve aiuto, ma io penso che mi possano aiutare i miei genitori, che ci conoscono da sempre, non voglio essere aiutata da una persona estranea. A parte che quando rivedrò mia figlia sarò anche io una persona estranea per lei, perché ci siamo separate che aveva tre anni e non so quando potrò rivederla.

Paola: Io invece penso che molto dipende dalle modalità con cui dovrebbe “accompagnarti” questa persona: funziona nel caso che puoi contattarla se ne hai bisogno, però che non sia un obbligo, non deve essere una persona che ha una funzione di controllo, se no siamo rovinati, voglio dire. Bisognerebbe pensarla bene questa cosa. Basta vedere come vanno le cose in America per esempio, dove c’è un sistema, la così detta “probation”, per il quale hai una persona che ti segue strettamente, ti controlla, ti marca stretto. Non so come funzioni esattamente, però è una figura difficile, anche perché fa presto a scivolare sul controllo e basta. Ma se la verifica tu la fai, non tanto per riferire alla magistratura, alla polizia, quanto piuttosto prendendo la persona e dicendole: “Ehi, guarda che stai “marcando” male”, questo tipo di controllo va fatto e fa anche bene, l’importante è che poi uno non faccia il lavoro del poliziotto. Io vorrei però anche puntualizzare una cosa: le donne che sono rientrate recidive qui dentro, sono zingare e tossicodipendenti, tutte le altre non sono rientrate.

Ornella: Sì, infatti, lo diciamo sempre che la recidiva è molto più alta fra le persone tossicodipendenti, anche lì non si riesce a trovare che cosa potrebbe servire per accompagnare queste persone all’uscita dal carcere, quel che è certo è che i servizi che ci sono ora non bastano, il Ser.T. non basta..

Paola: Non è che serva per tutti la stessa cosa, dipende dalla situazione. Ci sono anche quelle che andrebbero più seguite, ricordo di recente due ragazze tossicodipendenti che quando sono uscite avrebbero davvero avuto bisogno di una guida, di qualcuno che le aiutasse.

Ornella: Io credo che bisognerebbe avere più attenzione per le persone che sono a rischio, e che si sentono anche di esserlo, che cercano un sostegno e accettano di avere qualcuno che le affianchi. Le difficoltà invece nascono quando una persona non ne vuole sapere di farsi dare una mano, men che meno di avere un tutor, o di accettare di fare un passo alla volta, che per un tossicodipendente può essere dal carcere alla comunità e poi alla libertà, e non direttamente dalla galera alla vita libera.

Sonia: Anche a me sinceramente non va di avere qualcuno attaccato, perché mi dà fastidio, se ho voglia di far qualcosa la faccio, altrimenti non la faccio, ma voglio finalmente essere di nuovo io a scegliere.

Paola: Sì, ma tu, nonostante i problemi con le sostanze, lavoravi anche prima, tu “mediavi” comunque, quando eri fuori, con una vita normale, la tua famiglia, la tua casa, il tuo lavoro.

Sonia: Sì è vero, io prendevo il metadone e riuscivo a lavorare e a trovare un equilibrio comunque, anzi ho sempre avuto nel lavoro un equilibrio, è nelle altre cose che non l’ho avuto. Io anche se stavo male mi alzavo e andavo a lavorare, mi sentivo la responsabilità del lavoro.

Ornella: Però io non ho visto tante persone che, nonostante la tossicodipendenza, riuscissero a rispettare gli impegni, perché il problema che vedo è che molti tossicodipendenti non riescono proprio a mantenersi il posto di lavoro.

Sonia: Beh, quello dipende anche da un tipo di tossicodipendenza rispetto all’altra, io ho avuto sempre il problema, ma la mia ex titolare è venuta lei per due volte a cercarmi, quando mi sono licenziata per altri motivi, perché voleva che tornassi. Io ero responsabile in un’impresa di servizi di pulizia, e davvero il lavoro lo reggevo nonostante l’uso di sostanze.

Paola: Però ci sono quelli che hanno bisogno di essere presi per mano, ma perché hanno, più che problemi di tossicodipendenza, problemi psicologici. Poi ci sono anche le persone che proprio non hanno tanta voglia di lavorare. Io ho un’amica che quando dura un mese dura tanto, perché non ha voglia di alzarsi dal letto, non riesce ad affrontare un normale ritmo di vita.

Cristina: Ma quando tu a tredici anni cominci a farti di tutto e di più, non hai mai avuto la capacità di incominciare a lavorare, non hai mai lavorato a parte cose saltuarie e occasionali, forse allora davvero sei una persona che bisogna prendere per mano e tirare su come si fa coi bambini.

Sonia: C’è gente che però non ha la forza e la voglia di dire: va bene, devo alzarmi, devo andare al lavoro, devo trovare da qualche parte le energie per fare qualcosa. E però non è da buttare via questa gente qui, sono già in troppi che dicono: “Buttiamola in galera e tutto è finito” .

Ornella: Io non voglio dare per perso nessuno, qualcosa bisogna pur trovare, l’unica cosa che so è che non esistono soluzioni standard, ricette da applicare a tutti. Qualche volta può essere una comunità, una struttura protetta.

Cristina: Io in comunità non ci sono mai stata, conosco però tanta gente che c’è stata. Ma se non sei tu che lavori dentro te stesso, non c’è niente che serva, e infatti quando sono usciti dalla comunità, alcuni sono andati a farsi come prima: è una cosa interiore, se decidi che deve andare bene va bene, se non hai la volontà non funziona nulla.

Ornella: Comunque l’idea, giusta o sbagliata che sia, dell’accompagnamento non riguarda solo i tossicodipendenti, riguarda chi ha difficoltà di relazioni, chi non ha una famiglia dietro, chi ha problemi psichici, chi da solo non ce la fa.

Paola: Ma già qui dentro al carcere alcune persone che escono vengono spinte a fare un certo tipo di percorso, mi ricordo per esempio queste due ragazze con problemi pesanti di tossicodipendenza, hanno tentato in tutti i modi di convincerle ad andare direttamente in comunità quando sono uscite da qui, almeno una comunità diurna, ma sono state loro a rifiutare, ecco quindi la cosa deve partire da una segnalazione da qui dentro, forse. Per questo penso abbia un senso parlare di una struttura che si occupi di preparare l’uscita: sono l’educatore o gli psicologi o comunque chi ti segue che possono dire chi ha più bisogno di questo supporto. Poi ci sono persone che comunque sono in grado di stare in piedi con le loro gambe, di esempi ne abbiamo per fortuna, di donne che sono fuori già da un pezzo ormai, e reggono bene, e viaggiano dritte senza farsi prendere dall’ansia.

Natasha: M. è diventata mamma, ha avuto da poco una bambina, si è messa a posto, anche N. ha avuto un figlio pochi giorni fa, proprio lei e suo marito si sono conosciuti in comunità, e ora hanno cambiato vita, sono andati a lavorare in un altro paese e mi pare che si siano davvero “messi a posto”.

Ornella: Allora tutte quante mi dite che le donne che ce la fanno sono quelle che riescono a ricostruirsi una rete di affetti, questa è l’unica “ricetta”.

Sonia: Se invece una persona non ha una famiglia, una relazione che la “tiri fuori”, bisogna che almeno si possa appoggiare a una casa-famiglia per non finire proprio in strada. Io so di diverse donne che sono andate in casa-famiglia, sono strutture che possono davvero aiutare, se sono abbastanza “elastiche” per viverci. Di solito hai la tua stanza, il tuo bagno, hai degli orari, entro le dieci o undici di sera devi rientrare.

Ornella: Mi domando se basta una struttura così, o ci vorrebbe qualche figura di sostegno, perché se una persona è autosufficiente, ha trovato un suo equilibrio, una struttura così va benissimo, altrimenti rischia di diventare un parcheggio. Ma anche mettere in queste strutture persone che aiutino-controllino è una contraddizione, a nessuno di noi piace fare il controllore, a me scoccia dover dire a un detenuto che lavora all’esterno o che è in permesso di “darsi una regolata” (non sto parlando di reati, sto parlando di piccole trasgressioni, di non essere nel posto dove dovresti essere, queste cose qui). Finché uno è agli inizi, alle prime uscite, sente che c’è questa specie di “elastico” tra il dentro e il fuori e sta attento, però un po’ alla volta si allenta molto questo elastico, si allenta il rapporto con la galera, e quello è il momento in cui io non so come ci si deve comportare.

Paola: Quello che può servire è parlare, far venir fuori i problemi, le ansie: perché man mano che passa il tempo, cominci a rilassarti un po’. Alle prime uscite ero paurosa di tutto, ma la galera si fa presto a dimenticarla, quando sei dentro ti ricordi tutto quello che hai passato, ma quando vai fuori… io vedo che vado fuori in permesso e mi sono già dimenticata di tante cose.... è vero che alla libertà ci si abitua subito, per cui c’è questo rischio, di non riuscire a gestire la “mezza libertà” che ti trovi improvvisamente ad avere, e davvero una figura di accompagnamento in certi casi ci vorrebbe, che sapesse parlare con te, che fosse una figura che tu rispetti, che conosci prima di cominciare un percorso verso l’esterno: cioè ti hanno fissato la camera di consiglio tra sei mesi, beh in questi sei mesi conosciamoci, perché dopo io fuori sarò quella che ti segue. Non dovrebbe però essere la stessa assistente sociale che avevi quando eri dentro, ma una figura che poi segue solo le persone impegnate in misure alternative per esempio, o nella prima fase del fine pena. Una persona che non pensi tanto a segnalare le piccole infrazioni alle prescrizioni, che non ti dia la percezione del controllore, ma che parli con te, con franchezza, che ti dia una mano a ritrovare un equilibrio.

 

 

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