Massimo Burigana

 

Intervista a Massimo Burigana, insegnante alla Giudecca

 

(Realizzata nel mese di ottobre 2001)

 

A cura della Redazione della Giudecca

 

Le donne che decidono di frequentare la scuola mi sembra che partano comunque da una motivazione più forte, di recupero di sé e delle proprie capacità, nell’uomo la scelta di continuare gli studi è spesso più strumentale, ha origine dal bisogno di muoversi dalla cella, di avere dei contatti

 

Massimo Burigana è insegnante di italiano nel corso di licenza media nel carcere femminile della Giudecca, e poi, come volontario, insegna italiano e latino nel corso di scuola superiore con indirizzo psicosociopedagogico. Ha 48 anni e vive a Venezia, una parte consistente del suo tempo la passa in carcere.

 

Lei insegna in carcere da molti anni. Che senso ha la scuola in questo contesto?

Spesso le persone che sono in carcere sono prive di un percorso di studi "serio", ovvero che le abbia fatte giungere ad un livello di maturazione critica della realtà. La scuola qui dentro vuole essere questo, ovvero fornire strumenti per capire. Da questo punto di vista il fatto di studiare italiano, latino, storia, geografia, matematica, ecc. non è semplicemente avere un cumulo di conoscenze, perché attraverso lo studio si sviluppa l’analisi critica nei confronti delle cose. In generale le riforme che riguardano le attività da svolgere negli istituti penitenziari puntano verso la formazione professionale, pensando che questa possa fornire alle persone gli strumenti per intraprendere una attività lavorativa. Ammesso, ma non concesso, che uno impari un’attività professionale, tuttavia il mondo dell’imprenditoria oggi non domanda specializzazione ma richiede personale che sia flessibile, cioè capace di adattarsi a situazioni diverse.

 

La flessibilità come si acquista? Attraverso una formazione professionale o attraverso lo sviluppo di una "testa" critica?

Io personalmente ritengo che la migliore forma di preparazione per introdurre le persone nel mondo del lavoro sia quella fornita dalla scuola che aiuta a sviluppare le capacità critiche, cioè di adattamento e flessibilità.

 

Secondo lei, la scuola ha un effetto positivo nei confronti dello stare in carcere?

In primo luogo la scuola è una scelta libera in un posto dove la libertà è negata. La scuola è una presenza costante 6 giorni su 7, e questo ritengo abbia un effetto importante anche sul piano psicologico: in un luogo dove il tempo diventa l’inizio della carcerazione e la presunta fine e in mezzo non c’è niente, la scuola crea un impegno scansionato nel tempo e perciò dà ordine mentale. È inoltre un luogo di confronto e di libera discussione. A scuola chiunque è libero di dire ciò che pensa, così come è libero di non venire. La scuola, oltre ai percorsi tipici dello studio, offre poi delle possibilità diverse attraverso i laboratori.

 

Ci può spiegare meglio che cosa sono questi laboratori?

Prendiamo il cineforum, per esempio: non si tratta solo di un momento di divertimento perché guardiamo film recenti, ma è un vedere e criticare le immagini, valutare le positività e le carenze di ciò che si è visto, è perciò educazione, ovvero sviluppo di spirito critico. Sta poi per essere realizzato anche un laboratorio di fitocosmesi e verrà creato un laboratorio di legatoria.

 

Ma come? Prima lei diceva che sono più importanti i percorsi di studio e ora parla di organizzare un laboratorio di legatoria?

Il laboratorio di legatoria che verrà realizzato risponde ad una necessità di cui spesso ci si dimentica, e cioè che le persone in carcere hanno bisogno di studiare, ma anche di guadagnare denaro; poi, per quanto riguarda la scuola, il laboratorio diventa quel luogo dove bisogna essere precisi, ordinati, progettuali. Questi sono i prerequisiti che deve avere qualsiasi studente e individuo.

 

Dall’immagine che dà della scuola potrebbe sembrare che tutto funzioni perfettamente.

La scuola, qui al femminile, ha avuto un sostegno positivo da parte della Direttrice dell’istituto, tuttavia le difficoltà esistono, per esempio: come raggiungere e convincere quelle persone, che passano il loro tempo nell’oblio, che la scuola può essere un momento importante? (le iscrizioni a scuola coinvolgono circa il 40% delle detenute). Come fare quando all’inizio dell’anno parti con le classi piene e a gennaio - febbraio, all’arrivo della puntuale depressione, ti trovi con le classi semivuote? Ritengo che la scuola da sola possa far poco di fronte a questi problemi, e sicuramente se anche altri operatori, psicologi, assistenti sociali, educatori potessero dedicare un po’ del loro tempo per convincere le persone dell’importanza di questa realtà, molto probabilmente sarebbe più semplice.

 

La scuola potrebbe, da parte sua, fare di più?

Io personalmente ritengo che la scuola dovrebbe essere sfruttata di più sia dalle alunne che dall’amministrazione penitenziaria.

 

Qual è il suo bilancio dopo tanti anni di insegnamento in carcere?

Il bilancio è positivo, perché in questi ultimi anni abbiamo avuto un aumento quasi esponenziale delle persone iscritte; è positivo, ma rimangono ancora molte cose da fare, e soprattutto riuscire a coinvolgere più persone possibili, perché questa è scuola per adulti e perciò sarebbe importante che il Ministero osasse scelte più coraggiose e desse alla scuola più valore, e alle persone che la frequentano riconoscesse l’importanza della scelta di dedicare molto del loro tempo allo studio.

 

Per finire, parliamo di differenze: lei ha insegnato nel carcere maschile e insegna al Femminile, può fare un confronto fra queste due realtà?

Prima di tutto c’è da dire che al Femminile, forse perché è una struttura più aperta dove c’è la possibilità di contattare noi insegnanti direttamente, le donne sembrano più motivate, al Maschile iscriversi non è così immediato, ci sono dei filtri, dei controlli, le verifiche dei divieti di incontro, quindi all’inizio il rapporto è meno diretto. Le donne mi sembra che partano comunque da una motivazione più forte, di recupero di sé e delle proprie capacità, nell’uomo la scelta di frequentare la scuola è spesso più strumentale, ha origine dal bisogno di muoversi dalla cella, di avere dei contatti. Al Femminile poi io giro, ascolto, le donne mi si rivolgono per qualsiasi problema, i contatti sono decisamente più facili. Si parla comunque di tutto sia al Maschile che al Femminile, e si scivola naturalmente sempre sulle storie personali, perché c’è da dire che le persone lì dentro cercano, prima di tutto, comprensione.

 

 

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