Ristrettamente utili

 

Anche in galera, tutta colpa degli immigrati?

Non è l’Europa che può tirarci fuori dal disastro delle carceri

Se si vuole fare qualcosa per ridurre il numero di stranieri detenuti, bisognerebbe almeno facilitare le espulsioni di quelli che se ne vogliono davvero tornare al loro Paese

 

Chiedere aiuto all’Europa per costruire nuove carceri, come ha fatto il ministro Alfano, difficilmente può portare alla soluzione di un problema tutto nostro come il sovraffollamento.

Con le leggi attualmente in vigore in Italia i detenuti aumentano ad un ritmo di quasi mille al mese, questo significa che per risolvere il problema del sovraffollamento dovrebbero essere costruite immediatamente carceri per gli oltre 20.000 detenuti che già sono in eccesso rispetto al numero di posti effettivamente disponibili, e poi bisognerebbe pensare a un piano perpetuo con migliaia di nuovi posti in carcere ogni anno. E per tutti questi detenuti servirebbero sempre più agenti, educatori, risorse... E questo per avere poi, a fine pena, persone probabilmente più pericolose di prima, perché tanta galera difficilmente rende migliori.

Se si vuole fare qualcosa per ridurre il numero di stranieri detenuti, bisognerebbe almeno facilitare le espulsioni di quelli che se ne vogliono davvero tornare al loro Paese, magari estendendole, dagli ultimi due anni di pena, a tre anni, e incoraggiando in questo modo le persone a recuperare la loro vera identità e a facilitare i meccanismi tecnici delle espulsioni.

Le testimonianze che seguono esprimono bene il senso di desolazione e di assenza di speranza che vivono oggi gli stranieri in carcere: da una parte, è un detenuto albanese a raccontare questa sensazione, che provano in tanti, di essere considerati ormai il male assoluto e di essere visti come nemici perfino dai loro compagni di galera, dall’altra a parlare è una operatrice dello Sportello di Segretariato sociale del carcere, che si ritrova a dover rispondere alle richieste angosciate dei detenuti stranieri spesso chiudendo loro ogni speranza.

 

 

Sbagliare è umano, ma agli stranieri non si perdona nulla

 

di Gentian Germani

 

Parlare del problema carceri in Italia oggi non è affatto conveniente per chi vuole ottenere consenso. Se poi affianco a questo si vuol parlare anche di stranieri e affrontare questo fenomeno nel modo giusto, senza spacciare delle soluzioni illusorie come una formula magica che risolve il problema, si rischia la più totale impopolarità. A me pare che la via scelta nel vostro Paese sia proprio la demonizzazione dello straniero, ancora una volta dipinto come la causa di tutti i mali. Mi riferisco anche ad alcune recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia sul sovraffollamento, secondo le quali le carceri in Italia sarebbero sufficienti per gli italiani, ma scoppiano per colpa degli stranieri che vi finiscono in massa.

Queste affermazioni rischiano di rendere più difficile l’operato della direzione degli istituti di pena e degli agenti della Polizia penitenziaria nel mantenere l’ordine e cercare di rendere più vivibile e dignitosa la vita in carcere. E rischiano anche di confondere le idee ai detenuti italiani, facendo aumentare gli attriti e generando una intolleranza verso gli stranieri, come se già le difficoltà della convivenza non bastassero. Affermare che la causa del sovraffollamento delle carceri siamo noi detenuti stranieri a mio avviso è anche ingiusto, perché il problema del sovraffollamento non è un fenomeno nuovo in Italia, dovuto solo all’immigrazione, come dimostrano gli indulti dati più volte negli anni 1978-82-86-90.

In Italia si dice che “sbagliare è umano, perseverare diabolico”. Ma ho l’impressione che gli stranieri non possano permettersi di sbagliare mai e allora mi domando se fanno ancora parte del genere umano. Tra le tante leggi che aggravano la già difficile situazione degli immigrati, e non solo quella degli immigrati irregolari, la norma che più divide le persone tra categorie superiori e inferiori è quella che non permette più il rinnovo del permesso di soggiorno agli immigrati regolari che perdono il lavoro (come molti italiani) e che così, se non riescono a trovare un altro impiego entro sei mesi, diventano automaticamente clandestini e cioè criminali.

Trasformare in potenziali criminali queste persone non solo non porta sicurezza, ma riempirà ancor di più le carceri e intaserà la già lentissima giustizia italiana. Le leggi che non affrontano i problemi in tutta la loro complessità, ma nascono condizionate da continue emergenze, e puntano al carcere per qualsiasi tipo di devianza, vorrebbero dare una sensazione di sicurezza e invece illudono solo che con la galera si risolvano i problemi subito. Il vero antidoto ai veleni dell’insicurezza, che cura e crea condizioni di vita più sicure per i cittadini a lungo termine, sono i percorsi di reinserimento, che permettono di ricostruirsi una vita con meno galera e più misure alternative, misure utili davvero a far diventare persone più responsabili.

 

 

La speranza di un futuro regolare in Italia per chi ha commesso un reato è svanita

 

di Francesca Rapanà

operatrice dello Sportello di Orientamento giuridico e

Segretariato sociale nella Casa di reclusione di Padova

 

Abbasso lo sguardo. Mi mordo un labbro. Stringo le spalle. Scuoto la testa. Mi accade sempre più spesso ultimamente, quando ascolto le domande che i detenuti, in particolare quelli di origine straniera, mi rivolgono allo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale. Aumentano drasticamente le domande a cui non solo non sono più in grado di dare una risposta, ma che mi mettono in imbarazzo, mi fanno sentire profondamente a disagio. Mi verrebbe quasi da chiedere “scusa”: scusate perché in questo Paese essere stranieri è diventato il peccato originale, scusate perché il Paese in cui vivo pretende di educarvi alla legalità mantenendovi nell’illegalità di una situazione di umiliante sovraffollamento.

Un ragazzo pochi giorni fa mi ha chiesto informazioni sulle procedure per sposarsi. Io gli ho spiegato che con l’approvazione del pacchetto sicurezza non è più possibile sposarsi senza permesso di soggiorno: lui mi guarda, spalanca gli occhi e sorridendo mi chiede: “Ma se due si amano?”. Eh, se due si amano… Difficile spiegare che la legge non contempla la possibilità che una persona straniera senza permesso di soggiorno si voglia sposare per amore. Se si vuole sposare deve essere chiaramente per ottenere un permesso di soggiorno, cos’altro? (e fosse anche così, come biasimarli con le difficoltà che ci sono per avere un permesso di soggiorno in Italia oggi?).

Un altro mi chiede informazioni sull’asilo politico: ha paura di tornare in Nigeria, dove gli hanno già ucciso padre e fratello. È terrorizzato dall’idea di dover rientrare nel suo Paese, dice che andrebbe bene qualsiasi paese, ma non la Nigeria. Le possibilità di ottenere l’asilo politico sono già basse normalmente, ancora di più per una persona condannata, mi spiega un avvocato. Mi chiedo cosa c’entri con una vita a rischio, il fatto che una persona sia stata condannata o meno. Mi sento supplicare: aiutami a non tornare lì, mi uccideranno. Anche se, su dieci richiedenti asilo, uno solo fosse in pericolo reale, chi mi dice che non è proprio la persona che ho davanti?

Un terzo non riesce a comprendere che non ha possibilità di rinnovo del permesso di soggiorno una volta finita la pena. Mi spiega che ha trascorso in Italia la maggior parte della sua vita, che in Algeria non conosce nessuno, non ha nemmeno più parenti, la sua vita è qua. È penoso dovergli aprire gli occhi sulla sua situazione e mi accade sempre più spesso, troppo spesso. Mi chiedo vigliaccamente: ma perché glielo devo dire proprio io? Alcuni non ci credono o si illudono o rimuovono. Altri si alzano dalla sedia attoniti e rispondono al mio sguardo quasi a dire: non preoccuparti, non è colpa tua. Mi chiedo quali pensieri li attraverseranno, adesso che la speranza di un futuro regolare in Italia per alcuni è praticamente svanita? Come fare a sopportare un periodo più o meno lungo in carcere senza coltivare un progetto? Ed è davvero una conquista per la sicurezza annullare qualsiasi possibilità di regolarizzare la posizione di persone che in molto casi rimarranno comunque in Italia? E mi chiedo anche quanto tempo deve passare perché una persona non sia considerata sempre e solo uno straniero legato indissolubilmente al suo Paese d’origine?

 

L’amaro compito di togliere ai detenuti stranieri tante illusioni

 

Da quando abbiamo aperto lo sportello, nel novembre del 2007, abbiamo incontrato circa trecento persone detenute di origine straniera.

Sta diventando però sempre più difficile affrontare questi colloqui, in cui, oltre alle richieste che ci pongono, affiorano frammenti delle storie di queste persone. Storie di ragazzi persi a rincorrere il sogno di una vita migliore, che per alcuni si limitava alla sopravvivenza, per altri invece era il sogno di una vita ricca, esagerata. Qualcuno dirà: sì, ma si tratta di sogni che si è cercato di raggiungere attraverso mezzi sbagliati, che siano furti o spaccio, e che devono essere puniti. L’impressione però che si ha, è che chi è immigrato nel nostro Paese ed è finito in carcere debba pagare una colpa aggiuntiva, quella appunto di avere un’origine straniera, e non importa se la persona è appena arrivata, se è da sola, se è qui da vent’anni e con tutta la famiglia, è e rimarrà sempre uno straniero su cui penderà sempre l’espulsione verso Paesi con cui magari non ha più nessun rapporto o addirittura non lo ha mai avuto.

Dai colloqui con le persone straniere poi si capisce bene come tanti abbiano introiettato l’idea di un’impunità diffusa, che invece in Italia riguarda solo persone ricche e in grado di pagarsi avvocati che le portino fino alla prescrizione dei reati. Per cui in pochi pensavano che davvero si potesse finire in carcere per non aver ottemperato all’espulsione e invece è sempre maggiore il numero di persone in carcere solo per questo reato. È il caso ad esempio di S.P., un signore che è venuto spesso allo sportello per chiedere assistenza nella compilazione dell’istanza per la liberazione anticipata. Pochi giorni fa l’ho incontrato in un corridoio del carcere, era molto contento, mi ha detto: tra due settimane esco. Io gli ho chiesto, ma dove andrai? Tornerai nel tuo Paese d’origine? No, mi dice. E io: come no? e dove vai? Non hai titoli per rimanere qui… Il suo sorriso scompare e il suo sguardo diventa interrogativo. A volte quando una persona non parla bene l’italiano, può illudersi di non aver capito bene. Mi chiede: come? Cosa vuoi dire? Cerco di spiegarmi daccapo, sempre più a disagio, come se fosse colpa mia che S. non ha titoli per rimanere in questo Paese. Mi guarda e mi dice: ma io ho finito, ho pagato tutto, no? adesso posso stare. L’eventualità di questa risposta non l’avevo calcolata e resto un po’ spiazzata… non credo sia così S… ma lui ne sembra convinto e io devo farmi coraggio per spiegargli come stanno le cose, ovvero che aver scontato la pena non gli darà certo la possibilità di rimanere qui.

C’è chi invece se ne vuole andare, e ha addirittura ottenuto dal magistrato l’espulsione come misura alternativa alla detenzione, ma deve rimanere in Italia perché mancano i soldi per organizzare il viaggio al Paese d’origine. Più di un detenuto straniero si è rivolto allo sportello per chiedere come sbloccare questa situazione, che risulta paradossale se si pensa quante volte viene sbandierata la necessità che gli stranieri scontino la pena a “casa loro”. Oltre ai problemi legati ai titoli di soggiorno, la condizione del detenuto straniero è particolarmente complicata, se si pensa anche solo alle difficoltà a reperire documenti, contratti telefonici per l’autorizzazione delle telefonate, e le ambasciate e i consolati spesso non sono di aiuto. E noi dello sportello possiamo aiutare, certo, ma abbiamo anche l’amaro compito di togliere tante illusioni.

 

 

Espulsioni e trasferimenti che non vengono attuati

Svuotare le carceri dagli stranieri?

La realtà è che spesso non si possono eseguire nemmeno le espulsioni e i trasferimenti già firmati

 

di Antonio Floris

 

Che il problema del sovraffollamento si stia aggravando ogni giorno di più è un dato di fatto assai allarmante. Per risolvere questa emergenza arrivano tante proposte, ma le più ripetute sono quella di costruire nuove carceri, e quella di mandare gli stranieri a scontare le pene nei loro Paesi. Se da un lato si dimentica che costruire nuove carceri richiede tempi lunghissimi per realizzarle e soprattutto tantissimi soldi (che non ci sono), d’altro canto, rimandare gli stranieri a scontare le condanne nei loro Paesi è ugualmente difficile, poiché si tratta di operazioni lunghe e complesse, mentre alcune questure non riescono nemmeno a dare esecuzione alle espulsioni poiché non hanno fondi.

Io sono un detenuto italiano che deve scontare una lunga condanna. E dato che vivo quotidianamente gli effetti del sovraffollamento, ho raccolto nel mio reparto detentivo due storie che possono essere interessanti per chi vuole ragionare sulle soluzioni per l’emergenza carcere.

 

La storia di Jon Olaru

 

Jon è un ragazzo moldavo che, come tanti altri provenienti dall’Est, ha lasciato il suo Paese d’origine perché chi era fortunato ad avere un lavoro riusciva a guadagnare in un mese l’equivalente di 80 euro. Arrivato in Italia nel 2003, non avendo il permesso di soggiorno ha lavorato sempre in nero facendo tanti lavoretti occasionali. All’inizio di quest’anno però è stato arrestato per furto, velocemente processato dal Tribunale di Bolzano e condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione, più 200 euro di multa. Pertanto il suo fine pena è fissato al 22 settembre 2010.

Dato che il furto fa parte di quei reati “lievi” per i quali è prevista l’espulsione per le condanne sotto i due anni, il Magistrato di Sorveglianza di Padova il 7 agosto 2009 ha emesso un’ordinanza di espulsione, concedendo nello stesso atto, così come prevede la legge, dieci giorni di tempo per presentare ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza.

Dato che Jon non ha fatto impugnazione, allo scadere dei dieci giorni il decreto è diventato esecutivo, e secondo la procedura una copia è stata mandata alla questura di Padova per l’esecuzione dell’espulsione.

Fin qui va tutto bene se non fosse che la questura non è venuta ancora a prenderlo. Nello stesso decreto infatti, c’è scritto che “Ove, una volta avvenuta la consegna alla questura, l’esecuzione dell’espulsione risulti momentaneamente impossibile per l’indisponibilità del vettore, o per altra causa di forza maggiore, l’interessato dovrà essere riportato nell’istituto di provenienza ove permarrà fino al momento in cui risulterà cessata la causa di forza maggiore”.

Ebbene, la “causa di forza maggiore” che impedisce a Jon di ritornare nel proprio Paese è che la questura non ha i soldi per pagargli il biglietto e neppure lui purtroppo non dispone dei 300 euro necessari per pagarsi il viaggio di ritorno! Pertanto, a cinque mesi di distanza dall’emanazione dell’ordinanza di espulsione, Jon è ancora nel carcere di Padova che aspetta.

 

La storia di Paolo Barata

 

Paolo è un detenuto portoghese arrestato nel marzo del 2004 con l’accusa di omicidio e condannato dal Tribunale di Trieste alla pena di diciotto anni di reclusione. Questa sentenza è passata definitiva nel dicembre 2005 e dopo due anni, nel dicembre 2007, lui ha avanzato la richiesta di scontare il resto della condanna nel proprio Paese, dato che l’Italia e il Portogallo hanno firmato sia la Convenzione di Strasburgo per il trasferimento delle persone detenute, sia altri accordi nell’ambito dell’Unione europea.

Intanto, il Ministero della Giustizia italiano ci ha messo quasi due anni per trasmettere la richiesta al Ministero della Giustizia portoghese e nel luglio 2009, dopo un interessamento presso le autorità del suo Paese, a Paolo Barato è stato fatto sapere che la condanna italiana era stata convertita da un Tribunale portoghese in modo conforme alle proprie leggi e che non c’erano ostacoli per andare ad espiare la pena lì.

Ora è in attesa che l’Italia dia esecuzione a questo trasferimento, ma ormai sono passati sei mesi da quando il suo Paese ha comunicato all’Italia la disponibilità a prenderlo in consegna, e quindi Paolo teme che i tempi diventino biblici. Se la richiesta di estradizione ci ha messo due anni ad arrivare a destinazione, allora la paura che passino altri due anni prima che la richiesta torni indietro è giustificata.

 

Il gioco dei numeri

 

Tutti i giorni si fa un gran dire delle tante spese che la popolazione detenuta causa allo Stato. Poi, quando i costi vengono addossati agli stranieri, il fatto di spendere cifre enormi, qualcuno dice 150 euro al giorno per detenuto, qualcuno addirittura 300, diventa ancora più mostruoso.

Di fronte a questo gioco di numeri, mi viene da domandare, a chi pensa che bisogna espellere per risparmiare, come mai non si trovano i 300 euro per il biglietto aereo di Jon quando la sua permanenza nelle carceri italiane costa tutti quegli euro al giorno?

In realtà, lo Stato, non ci stanchiamo mai di ripeterlo, paga poco più di 3 euro al giorno per ogni detenuto, se parliamo dei tre pasti che deve garantire. Mentre chi dice che costiamo 150 o 300 euro al giorno, non dice comunque la verità, dato che mette dentro l’intera spesa del sistema giustizia, comprese le paghe del personale penitenziario. Ora, espellere gli stranieri non è che fa risparmiare all’Italia tutti quei trecento euro, perché anche se si dimezza il numero dei detenuti, nessuno si mette a licenziare agenti ed educatori o a chiudere i Tribunali. Tuttavia, forse il risparmio ci sarebbe comunque, dato che teoricamente non dovrebbero più costruire carceri nuove e assumere altro personale per fare fronte ad una popolazione detenuta sempre in aumento. Ma il punto è un altro: se sono due anni che sento dire che l’unica soluzione è mandare via gli stranieri, ora che è chiaro il fatto che questo è difficile da fare, qual è il piano di riserva?

 

Il trasferimento delle persone condannate

 

Questa è un’operazione che avviene secondo la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983. Innanzitutto è necessario che sia il condannato stesso a richiedere il trasferimento. Il detenuto deve essere stato condannato in via definitiva. La domanda viene consegnata all’ufficio matricola del carcere che ne istruisce la pratica, che poi manda al Ministero della Giustizia. Il Ministero della Giustizia, attraverso gli organi diplomatici, trasmette la pratica al Ministero della Giustizia del Paese d’origine del detenuto straniero. A questo punto avviene la conversione della condanna italiana in una condanna emanata dal tribunale competente del Paese d’origine. Successivamente, la pratica ritorna al Ministero della Giustizia italiano che lo manda al Procuratore generale del Tribunale che aveva emanato la condanna, affinché esprima il proprio parere. Infine, preso atto della sentenza del Paese d’origine e del parere del Procuratore generale, tocca al Ministro della Giustizia prendere la decisione finale.

 

L’espulsione delle persone condannate

 

L’articolo 16 comma 5 del Testo Unico (D. Lgs. 286/98), prevede che nei confronti dello straniero, identificato, detenuto, che deve scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni, condannato per reati lievi, è disposta l’espulsione. Questa norma enuncia inoltre che competente a disporre l’espulsione è il magistrato di sorveglianza, che decide con decreto motivato. Lo straniero interessato può proporre impugnazione dinanzi al tribunale di sorveglianza entro dieci giorni. Il tribunale decide nel termine di venti giorni. L’espulsione è eseguita dal questore competente per il luogo di detenzione dello straniero con la modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. L’espulsione è estinta alla scadenza del termine di dieci anni dall’esecuzione, sempre che lo straniero non sia rientrato illegittimamente nel territorio dello Stato. In tale caso, lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena.

 

 

Indifesi di fronte alla legge

Gli stranieri nel nostro Paese sono “meno uguali” davanti alla legge

 

La ricerca “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi”, promossa dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’équipe del Dossier immigrazione Caritas/Migrantes, dice cose quasi strabilianti di questi tempi: che il “tasso di criminalità” degli immigrati regolari in Italia è solo leggermente più alto di quello degli italiani (tra l’1,23% e l’1,40%, contro lo 0,75%) ma, se si tiene conto della differenza di età, risulta uguale a quello degli italiani. Non c’è quindi alcuna corrispondenza tra l’aumento degli immigrati regolari e l’aumento dei reati in Italia. Eppure c’è un clima di sospetto e di paura che ha reso le leggi sempre più dure verso i migranti, oggi la condizione di irregolarità porta direttamente in carcere. E poi anche al momento del processo gli stranieri sono sempre “meno uguali” degli altri.

 

 

Carceri piene: non accanitevi su chi non ha colpa se non di essere qui senza permesso

 

di Salem Rachid

 

Dopo aver visto per anni tante trasmissioni televisive incitare alla paura, stiamo oggi assistendo all’applicazione del nuovo pacchetto sicurezza e alle sue conseguenze pesanti nella vita di tanti migranti. Questa concretizzazione delle teorie più rigide di prevenzione e sicurezza secondo me non ha un fondamento razionale ed è anche razzista. Il carcere si sta riempiendo di stranieri, alcuni sono condannati per il reato di clandestinità, altri stanno scontando pene per altri reati, ma visto che l’aggravante della clandestinità non permette più nessuna attenuante, c’è il rischio che le sentenze si traducano per molti in parecchi anni di galera.

Le misure alternative al carcere, come la semilibertà che ti permette di lavorare fuori durante il giorno, sono concesse solo ai pochi stranieri che grazie a punti di riferimento sul territorio sono in grado di trovare lavoro, la maggior parte sconta quindi la pena in galera fino all’ultimo giorno, con l ‘unica prospettiva di ricevere alla fine un foglio di via e cinque giorni di tempo per abbandonare l’Italia.

Ho visto diverse persone uscire di qui determinate a non tornare nel proprio Paese, che non offre nient’altro che miseria, e poi ritornare in cella perché arrestate per non aver abbandonato il territorio. Le condanne sono al massimo di un anno e mezzo, succede spesso che qualcuno ne cumuli più di una e ciononostante non ho ancora visto nessuno stancarsi e decidere di ritornare a casa di propria volontà. Si preferisce rimanere nella clandestinità lavorando in nero (oppure commettendo reati) per mandare soldi a casa, nella consapevolezza che quei soldi possono costare anche anni di galera, ma ritornare alla povertà del proprio Paese è un’idea che piace a pochi.

I vari pacchetti sicurezza servono a incrementare in maniera esponenziale gli arresti dei cosiddetti irregolari e aumentare il numero di detenuti, ma non svuoteranno mai l’Italia dagli immigrati. Le carceri stanno scoppiando, ho sentito dei politici dire che la colpa della disastrata situazione penitenziaria è degli extracomunitari. Mi domando allora come mai si continuano a riempire le carceri di stranieri che non hanno fatto male a nessuno, e la cui unica colpa è quella di voler vivere in queste terre. Bisognerebbe smettere di arrestarli e allora noi, che abbiamo invece commesso reati gravi e dobbiamo espiare una condanna “sensata”, potremmo farlo davvero e i politici non sarebbero più costretti a trovare qualcuno da colpevolizzare.

 

Tre giorni di processo e ventuno anni di galera

 

di Said Kamel

 

Da ragazzo ho cercato in tutti i modi di avere un visto di lavoro per venire in Italia in regola, però questa si è rivelata una impresa impossibile, così ho attraversato il mare su un barcone con destinazione Lampedusa: un viaggio pericoloso ma fortunato, visto che siamo arrivati vivi.

Dopo due giorni di attese fra questura, per l’identificazione, e ospedale, per le escoriazioni e le ferite ai piedi, mi diedero un foglio con l’ordine di lasciare il Paese. Io invece andai a Palermo in cerca di lavoro, ma era difficile perché non parlavo e non capivo una parola di italiano, e soprattutto non avevo nessun documento, così ho accettato la proposta di un mio connazionale di vendere piccole dosi di droga. Per qualche mese è andato tutto liscio, finché un gruppo di nostri paesani è venuto a minacciarci per vecchi rancori.

È così iniziato il disastro di una faida violenta tra di noi. Un giorno, durante una lite, hanno tagliato la faccia al mio amico, sfigurandolo definitivamente. Il desiderio di vendicarci di quella violenza ci ha oscurato la mente, presi da una rabbia cieca abbiamo perso il controllo e qualcuno ha colpito con il coltello uno di loro su un punto vitale, causandone la morte.

Subito dopo il mio ingresso in carcere è venuto da me il Pubblico Ministero per interrogarmi, il mio avvocato di fiducia mi ha consigliato di non dire niente e, siccome non parlavo la lingua italiana, sono rimasto in silenzio. Il giorno dopo venne a trovarmi in carcere una signora, appena iniziò a parlarmi cercai di spiegarle che non parlavo l’italiano, lei rimase a guardarmi per un po’ e poi se ne andò. Al mio ritorno in cella chiesi chi era e mi dissero che era la psicologa. Ritornò facendomi ancora domande, ma io non capivo, e così il mio isolamento e il senso di abbandono crescevano sempre di più dentro di me.

Dopo un anno arrivò il giorno del processo e andai in tribunale, dove trovai i miei due coimputati e un interprete di nazionalità marocchina che facevo fatica a capire, così come lui non capiva me. Il processo durò tre giorni di dibattimento tra avvocati e Pubblico Ministero, io mi sentivo come un pacco appoggiato in un angolo, mentre altri litigavano sul mio destino. L’interprete cercava di spiegarmi, ma io capivo meno della metà delle cose che diceva. Al terzo giorno il giudice mi chiese di parlare, ma l’interprete non capiva bene il mio dialetto tunisino, tanto che traduceva solo le parole che capiva e ignorava il resto. Alla fine del processo lui mi disse che ero stato condannato a ventuno anni di reclusione. Non avevamo capito niente di quello che era stato detto e l’avvocato non aveva fatto nulla per separare le responsabilità, ci sembrava tutto una truffa perché ci avevano condannato tutti e tre per omicidio, mentre noi sapevamo che non volevamo uccidere e che solo uno di noi aveva perso la testa.

Durante i mesi che seguirono la condanna, l’avvocato è venuto a trovarmi in carcere diverse volte, promettendo di difenderci meglio al processo di appello. Ma quando arrivò il giorno, appena entrato nell’aula del tribunale con i miei coimputati, ci è venuto incontro dicendoci che il procuratore generale, se patteggiavamo e rinunciavamo alla difesa, ci toglieva cinque anni. Con il mio italiano migliorato, gli chiesi cosa ne pensasse di questa offerta, e lui ci disse che non ci poteva garantire niente se facevamo un processo normale e che dovevamo prendere i cinque anni di sconto patteggiati. Ma noi non abbiamo capito il senso del patteggiamento e volevamo che si distinguessero le responsabilità, così abbiamo deciso di andare in dibattimento, invece non è successo niente altro che una ripetizione del primo grado e dopo tre giorni ci hanno confermato i ventuno anni.

Adesso di anni ne sono passati undici e penso che, se avessi conosciuto meglio la lingua e le leggi dello stato italiano, forse avrei capito cosa si è detto durante il processo, forse avrei potuto raccontare la mia storia come sto facendo con queste righe, e forse la Corte si sarebbe mostrata più clemente con noi.

 

 

Quando si è liberi e pieni di soldi, siamo tutti ugualmente interessanti

 

di Bardhiyl Ismaili

 

Sono venuto in Italia come molti altri albanesi che hanno lasciato con dispiacere la propria terra alla ricerca di un futuro migliore. Inizialmente ho cercato di assicurarmi un futuro attraverso il lavoro e la pazienza. Ma non tutti i lavori consentono una normale sussistenza, soprattutto quando il lavoro è in nero e dura lo spazio di un giorno. D’altro canto vedevo persone che non dovevano fare i miei sacrifici per vivere. A me, per esempio, faceva rabbia vedere alcuni ragazzi che, nonostante non lavorassero, potevano permettersi di stare tutto il giorno al parco, andare in giro col motorino, mangiare nei ristoranti, andare in discoteca e divertirsi spendendo a destra e sinistra in compagnia di belle ragazze, mentre io facevo fatica ad arrivare alla fine del mese. Naturalmente mi venne la curiosità di sapere come facevano a vivere così e quando ho fatto amicizia con un paio di loro, ho scoperto che i loro soldi provenivano da azioni illegali.

Entrando in un ambiente di questo tipo, gradualmente mi sono reso conto che anche persone che apparentemente sembravano oneste in realtà non lo erano affatto. Non parlo di cittadini con disagi familiari o disoccupati, ma di persone benestanti come amministratori di aziende, professionisti affermati e anche politici; quel che mi faceva meraviglia era che non avevano mai paura di essere arrestati. Così anch’io mi ero convinto che in Italia tutto fosse possibile e che tutti potevano fare quello che volevano. Forse è per questo che, partendo da piccoli reati, sono diventato man mano sempre più sicuro e spavaldo. Mi capitava di incontrare qualche parente o conoscente che era emigrato in un altro Stato europeo, il quale mi spiegava che dalle altre parti senza avere un lavoro stabile era difficile vivere, nel senso che, se non lavoravi, eri malvisto ed evitato dagli abitanti del Paese di residenza. Io raccontavo invece che tutto mi stava andando bene, e che da quando avevo cominciato ad avere soldi ero circondato di amici e amiche italiane.

In pratica, seguendo uno stile di vita che mi permetteva di avere tanti soldi, sono riuscito ad inserirmi bene e ad essere accettato. Solo che avere tanti soldi ti impone di frequentare ambienti pericolosi, così, quando mi sono sentito in pericolo, senza regole né aiuto, ho pensato che potevo risolvere tutti i problemi da solo. E mi sono anche fatto giustizia da solo, commettendo un reato grave. Non voglio dire che è colpa degli altri se sono finito qui dentro e mi rendo conto della gravità di quello che ho fatto, tuttavia mi fa rabbia vedere l’ipocrisia della gente che considera i reati commessi da uno straniero più gravi dei reati commessi dagli italiani e considera gli stranieri più pericolosi solo per il fatto che provengono da un altro Paese. Quando si è liberi e pieni di soldi, invece siamo tutti ugualmente interessanti.

 

 

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