Gli immigrati e il “cattivo esempio” degli italiani

Gli immigrati fanno davvero in Italia tutto quello che vogliono?

Sì, perché fanno quello che vedono fare a tanti italiani: a dirlo è il prefetto di Padova, uno che ai suoi concittadini chiede di essere i primi a dare il buon esempio del rispetto delle regole

 

In un’intervista al Mattino di Padova, il prefetto Ennio Mario Sodano ha dichiarato: “Si dice che Germania e Inghilterra hanno più stranieri dell’Italia, ma che qui gli stranieri fanno quello che vogliono. Io rispondo che è così perché vedono gli italiani fare quello che vogliono”. Alcuni detenuti italiani della redazione di Ristretti Orizzonti, dopo aver letto l’intervista, hanno provato a ragionare sul rapporto che c’è tra gli stranieri che trasgrediscono le regole e il senso che la popolazione locale ha della legalità.

 

 

Chiedere agli altri solo quello che noi italiani sappiamo dare

 

di Maurizio Bertani

 

Le affermazioni del prefetto sono interessanti e hanno il potere di far pensare. È senz’altro vero che vivendo in una società in cui c’è un’illegalità diffusa, se ne possono assorbire facilmente le cattive abitudini. Personalmente ricordo gli anni settanta e i miei viaggi in terra elvetica, dove le strade cittadine sembravano passate con l’aspirapolvere e io, italiano con l’abitudine di gettare a terra carte, mozziconi o pacchetti di sigarette vuoti, non mi sarei mai sognato di ripetere un gesto del genere dopo essere stato richiamato da un’attempata signora che mi rimproverava di sporcare il suolo dove lei viveva. Però, quando sono tornato in Italia, le mie cattive abitudini sono riprese e così carte, mozziconi e pacchetti di sigarette vuoti sono ritornati a finire sui marciapiedi e sulle vie del mio paese.

Quindi vivere in un contesto sociale dove i comportamenti viaggiano in linea con la legalità ti porta a rispettare le leggi del posto, mentre se ci sono comportamenti illegali diffusi, questo condiziona pure i comportamenti degli stranieri. Anche perché i comportamenti illegali sono più facilmente assimilabili e quando la vita è difficile il rispetto delle regole è ancora più faticoso. Il passo è poi breve e da piccole trasgressioni si può sconfinare anche in reati gravi.

Certo il tracimare da un comportamento scorretto al reato penale non è mai giustificabile, poiché comunque a suo fondamento vi è sempre una scelta individuale, ma non si può neppure negare che l’immigrato che arriva in Italia si confronti con una realtà fatta spesso di lavoro in nero, affitti senza contratto, che a volte sono il triplo o il quadruplo del costo normale, vendita sottobanco a minorenni di prodotti come alcol e sigarette che dovrebbero di regola essere vietati. Di fronte ad una situazione così, penso che diventi poi difficile concepire un atteggiamento di legalità. Ritornando alla mia attempata signora svizzera, che mi rimproverò per quel pacchetto di sigarette vuoto gettato distrattamente sul marciapiede, e raccogliendolo e mostrandomi il cestino dei rifiuti mi diede quella sonora lezione di educazione e rispetto delle regole, non mi rimane che condividere appieno il concetto di legalità espresso dal prefetto: possiamo pretendere dagli stranieri quello che noi italiani sappiamo dare, e solo così potremo poi lamentarci dei loro comportamenti illegali.

 

 

Il Paese delle regole che le regole non le rispetta

 

di Pietro P.

 

Che questo sia il Paese delle tante leggi e regole non c’è dubbio, il problema è capire a chi siano dirette tutte quelle nuove sanzioni che ogni anno vengono emanate dal nostro Parlamento.

Gli immigrati, anche se ormai sono diventati indispensabili per l’economia del nostro Paese, si sentono ribadire la necessità del rispetto delle regole del Paese che li ospita, cui dovrebbero essere grati per l’ospitalità ricevuta. In sostanza è contestato loro il fatto di essere sempre più spesso al centro di numerosi episodi di cronaca nera che quotidianamente avvengono sulle nostre strade, e di contribuire così a diffondere la paura, aumentando così l’insicurezza delle nostre città.

Sarà anche così, ma non si può negare che in fatto di rispetto delle regole, purtroppo, noi italiani non abbiamo da insegnare niente a nessuno, visto che il nostro senso civico è uno dei peggiori tra quelli dei Paesi cosiddetti civili, e questo da molto prima dell’arrivo degli immigrati. Forse io l’ho capito dopo aver conosciuto la galera, ma anche per chi è fuori basterebbe guardarsi in giro per accorgersi come la furbizia sia oggi il valore che più risalta nel nostro Paese, molto più di quello dell’onestà.

Io penso che si possono capire le regole anche senza la paura della galera. Ma come si fa a capire i valori a cui la nostra società si ispira? Agli stranieri, così come a noi detenuti che dovremmo essere rieducati alla legalità, basta fare un po’ di zapping sulle reti televisive per accorgersi che, dalla velina al calciatore, i modelli imperanti sono quelli fondati sulla possibilità di arricchirsi in fretta e facilmente.

A ciò si aggiunge il fatto che nel nostro “bel paese” sono presenti tre tra le maggiori organizzazioni criminali del panorama internazionale, delle loro collusioni con la politica parla tutto il mondo. Così come tanti onesti imprenditori del nord, appena vincono gli appalti nel sud d’Italia, la prima cosa che fanno è quella di cercare il referente locale a cui versare il pizzo.

E poi ci sono le carceri sovraffollate. Anch’esse simbolo dello scarso senso di legalità del nostro Paese, ormai contenitori in cui relegare le fasce più emarginate della società: la maggioranza dei detenuti infatti è rappresentata da stranieri e tossicodipendenti. Uno spaccato incompleto però, se si pensa che l’Italia è un Paese in cui si commette un numero altissimo di reati finanziari, i quali, anche se sono meno visibili dello spaccio, dei furti o degli scippi, hanno quasi sempre conseguenze gravissime sui cittadini che perdono i risparmi di una vita.

Alla fine della mia riflessione mi viene da chiedermi se la mia ricostruzione pessimistica della società italiana non sia solo figlia della galera. Forse allora è vero il contrario, noi italiani siamo diversi: non siamo razzisti, siamo il Paese dell’accoglienza, siamo onesti e abbiamo un senso civico tra i più sviluppati al mondo, e io che ho commesso reati e sono detenuto sono solo un’eccezione. Forse.

 

 

Quando la discriminazione dei francesi portava gli italiani a commettere reati

 

di Walter Sponga

 

L’intervista al prefetto di Padova ha fatto riflettere anche me sui problemi che attraversano attualmente la nostra società. Certo l’alcol è un problema per i giovani d’oggi, così come l’uso delle droghe e la tendenza delle nuove generazioni a spingere i loro comportamenti illegali verso direzioni da cui spesso è molto difficile far ritorno. E poi ci sono gli immigrati, che hanno sempre più difficoltà ad integrarsi nel nostro Paese.

Mi viene in mente una sola considerazione ed è quella che il nostro Stato non sia più in grado di trasmettere alle nuove generazioni un’educazione adeguata, fondata sulla fratellanza, l’uguaglianza e il sentimento di appartenenza. Uno Stato che è assente e quando si fa sentire è per emanare nuove leggi più repressive solo per alcune persone, peggiorando la loro situazione spesso già drammatica.

Quello che mi spinge a fare queste valutazioni è il fatto che i problemi che sono costretti ad affrontare gli stranieri che immigrano oggi nel nostro Paese, io li ho già vissuti ventisette anni fa.

Come clandestino in Francia, quando mi recavo in un’agenzia per chiedere di affittare una casa, la risposta era sempre la stessa: “Siamo nell’impossibilità di affittarle un alloggio, in quanto lei non dispone di un lavoro regolare”. Invece, quando mi recavo in un’agenzia di lavoro, mi veniva detto “Siamo spiacenti, ma considerando che lei non dispone di un alloggio, non è possibile trovarle un lavoro”.

Costretto quindi ad accettare un lavoro in nero e ad affittare una stanza anch’essa in nero in quartieri malfamati, era per me più facile prendere la strada sbagliata. Nella pensione in cui vivevo c’erano diversi immigrati italiani che incontravano le mie stesse difficoltà d’inserimento, e molti hanno finito per commettere piccoli reati, come furti e spaccio, e qualcuno anche reati più gravi.

Io invece ho sempre evitato di lasciarmi trascinare in attività illegali, anche perché avevo già conosciuto il carcere in Italia. Oltre all’esperienza passata, altri due fattori che mi hanno permesso di non avventurarmi in reati più gravi sono stati la mia scelta personale di non voler ritornare in galera e il fatto che non avevo bisogno di soldi, poiché lavorando in nero riuscivo a coprire le mie spese. Sono andato avanti così per diversi anni, finché un giorno ho incontrato una ragazza francese e sposandola sono riuscito a regolarizzarmi.

Mi ricordo comunque che anche in quegli anni il problema dell’alcol era molto presente fra i giovani che frequentavo, la sola differenza stava nella discrezione, si evitava di farsi vedere, anche coloro che spacciavano erano molto discreti. Oggi invece dalle nuove generazioni tutto viene fatto alla luce del giorno e i loro problemi sono per questo maggiormente al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche.

Vorrei comunque che ci ricordassimo che, soprattutto nella prima meta del novecento, anche noi italiani siamo stati un popolo di migranti e lo siamo in parte ancora, e forse ci siamo dimenticati come siamo stati accolti, come ci hanno emarginato e umiliato.

Stiamo trattando gli stranieri che immigrano da noi nella stessa maniera in cui siamo stati trattati noi, eppure anche loro, come noi in un tempo non troppo lontano, sperano in un’esistenza migliore. Tutte le sofferenze che ci sono state inflitte come stranieri non sono allora servite a niente? Da quello che sento e vedo, mi pare di no.

 

 

Sport, soldi facili, illegalità

L’inganno nei sogni e nei desideri di un adolescente

L’impegno nello sport, e poi i combattimenti clandestini per inseguire il mito dei guadagni facili

 

di Serghei Vitali

 

Da bambino, quando ho iniziato a fare sport, quasi subito la mia passione mi ha spinto sul ring a praticare Kickboxing , e il Full-contact , e mi piaceva tanto da ritenerlo a quel tempo la mia unica ragione di vita. Tuttora lo amo, forse con meno trasporto, ma sempre di un amore viscerale.

Fin dall’inizio frequentavo regolarmente le palestre, assolvendo con il massimo impegno a tutti i compiti che questo sport richiedeva, fino a quando non sono arrivato ad un livello da poter combattere in città diverse da quella dove vivevo.

Naturalmente mi sono sempre piaciuti e tuttora mi piacciono molto i film con i combattimenti. Questo però mi fa tornare al passato, e a tutti i ricordi che io mi porto dentro, alcuni bellissimi, altri detestabili, ma ancor di più mi porta a ripensare a quello che poi è accaduto nella mia esistenza, e a come io sento di essere stato ingannato proprio guardando questi film e la tivù, che quasi sempre ti inducono a desiderare di avere tutto e subito.

Di solito nello sport non si guadagna molto, almeno finché non diventi un buon professionista a livello internazionale, e allora può anche succedere di fare tanti soldi.

Il passaggio che io non sono riuscito a evitare sono stati i combattimenti irregolari, dove io combattevo non più per il vero senso sportivo, ma per guadagnare, cosa che lo sport ufficiale non mi permetteva di fare. In fondo il mio sogno di ragazzino era di avere al più presto soldi e raggiungere la fama, senza rendermi conto che non era la fama di un onesto sport, ma quella di uno sport irregolare dove si guadagnava molto di più di quello a cui si poteva aspirare con lo sport vero. Credevo così di poter diventare ricco e di essere conosciuto dalle persone che contano, quelle che organizzavano questo tipo di incontri. Pian piano invece l’illusione della ricchezza e della notorietà mi hanno allontanato dallo sport regolare, per spingermi sempre più nel mondo degli incontri clandestini, facendomi perdere il contatto con la realtà.

Oggi riesco a parlare di questa esperienza, non per incolpare qualcuno però, perché i propri errori, anche se commessi in giovane età, non si possono scaricare sugli altri o sulla televisione che valorizza l’avere più che l’essere, ma con la consapevolezza, nell’esperienza negativa che sto vivendo in carcere, di essere stato ingannato, io ragazzo giovanissimo, da quegli adulti che mi proponevano modelli con al centro solo denaro e notorietà, fuori dalle corrette regole di una sana attività sportiva.

Mi trovo da sei anni a dover scontare una pena di vent’anni di carcere per un bruttissimo reato, per aver spento la vita di un altro essere umano, proprio perché ero intriso di valori superficiali, e perché convinto di poter emulare i personaggi di certi film, che ottenevano tutto facilmente e subito, mentre in qualsiasi campo l’uomo voglia cimentarsi (sport, cultura o lavoro), deve sentire il calore della fatica e del sacrificio se vuole appagare i propri desideri. Invece ho capito troppo tardi che la cosa più importante non è raggiungere i massimi livelli, ma essere consapevole di aver impegnato il proprio tempo e tutte le energie per riuscirci, e questo ti farà sentire comunque appagato, mentre per i ragazzi come me, che si lasciano attrarre dal voler ottenere in fretta cose apparentemente facili da raggiungere, alla fine arriva la delusione di vedere che la realtà non è né un film né una pubblicità, ma qualcosa di molto più serio.

Non so se a qualcuno interesserà conoscere le mie difficoltà, le paure, gli errori del mio mondo adolescenziale, ma se mai qualcuno si riconoscerà in qualcosa della mia esperienza, io posso solo dire che non ho ricette da consigliare, però credo che sia utile guardarsi attorno e cercare di immergersi anche nelle esperienze negative degli altri, perché pure io ho sempre pensato che a me non poteva succedere quello che poi mi è fatalmente successo.

 

 

Quando tornare nel proprio Paese significa solo sentirsi nuovamente stranieri

Sognavo di trascorrere una vita da calciatore ricco

Dal sogno di successo al carcere con il pesante rimorso di aver ucciso una persona. E oggi, dopo undici anni in Italia, ho imparato a ragionare e discutere senza usare la violenza. E proprio ora dovrei tornarmene al mio Paese, dove non ho nessun contatto, nessun amico, nessuna speranza?

 

di Salem Rachid

 

Fino all’età di diciotto anni andavo a scuola e giocavo a calcio come portiere nella squadra della mia città. Ero anche un bravo portiere. La mia vita era quasi perfetta, avevo un bel rapporto con i miei genitori, mio padre si occupava di me più che dei miei fratelli perché, oltre ad essere il più piccolo dei figli, ero anche un alunno bravo e tranquillo; l’unica cosa che mi turbava era il sacrificio che lui faceva per pagarmi il corso di calcio che costava troppo. Allora decisi di interrompere la scuola per dedicare tutto il mio tempo al calcio e per fare qualche lavoretto che mi permettesse di mantenermi. Mio padre all’inizio non era d’accordo, ma poi riuscii a convincerlo raccontandogli del mio sogno di voler diventare un portiere famoso: sognavo di trascorrere una vita da calciatore ricco, desiderato dalle modelle e circondato dai giornalisti.

Nel mio Paese è difficile diventare qualcuno se non hai conoscenze, perché hanno sempre la precedenza i figli di papà, e purtroppo invece la mia famiglia non è tanto ricca. Alla fine sono diventato pessimista anch’io, perché ho capito che i miei sogni difficilmente si sarebbero realizzati. Così nella mia testa è entrata l’Italia. Chiesi allora un aiuto economico alla mia famiglia e, come al solito, si trattava di convincere mio padre, ma ci riuscii subito visto che ero sempre il suo figlio preferito. Ci vollero tre mesi per racimolare il denaro e a Capodanno del 2000 sono arrivato in Italia clandestinamente. Prima sono andato a Bologna da alcuni miei amici d’infanzia, che mi hanno accolto senza problemi aiutandomi economicamente: lì sono rimasto un mese senza fare niente, e questo mi pesava molto. Loro mi mettevano sempre soldi in tasca da spendere, ma io ero venuto in Italia per trovare un lavoro, per costruirmi un futuro e farmi una famiglia come il resto delle persone e non per ricevere una paghetta dai miei amici e oziare. Però trovare un lavoro non era così facile come avevo immaginato e, nonostante i miei buoni propositi, alla fine quando i miei amici mi fecero capire che se volevo potevo mettermi a spacciare droga con loro, accettai la loro proposta. Sapevo di avere scelto la strada sbagliata, ma in quel momento volevo soltanto fare soldi in fretta per non deludere mio padre che aveva sacrificato tutto per me.

Iniziai a “lavorare” con loro e per quattro mesi è andato tutto bene, ma poi mi hanno arrestato con la droga e condannato a due anni di reclusione. Li ho scontati in un carcere circondariale, in mezzo a molte altre persone condannate per spaccio. Dal carcere sono uscito con maggiori “conoscenze” nel campo dell’illegalità e sono subito tornato a fare la stessa vita di prima. Credevo di aver imparato tutto, ma invece non avevo capito che spacciare non significa solo rischiare il carcere, ma vivere anche con il costante pericolo di essere coinvolto in risse dove si rischia di uccidere o di venire ucciso. Infatti l’ho imparato dopo, quando era ormai troppo tardi: mi sono trovato infatti coinvolto in una rissa nella quale ho ucciso una persona. Ho saputo che quella persona era morta solo tre giorni dopo. Allora ho cominciato a nascondermi viaggiando da una città all’altra, sono andato a Parigi da un altro amico d’infanzia, che mi ha ospitato. Non capivo ancora bene la gravità di quello che avevo fatto, ma soprattutto non sapevo che cosa dovevo fare. Rimasi chiuso a casa di questo amico per un mese, ma dovevo trovare una soluzione e, dopo aver riflettuto a lungo, ho chiamato un avvocato di Bologna dicendogli che volevo tornare in Italia per costituirmi alla polizia. Anche lui era della stessa idea, però mi ha consigliato di rimanere ancora nascosto per il tempo che gli serviva per studiare il caso. Eravamo rimasti d’accordo che mi avrebbe detto lui quando era il momento di costituirmi, e questo mi fece sentire più tranquillo. Così cominciai a contattare i miei amici a Bologna per avvisarli delle mie intenzioni, ma i loro telefoni erano sotto controllo e i carabinieri mi avevano intercettato, localizzando la mia posizione. Immagino che non sia stato difficile per loro contattare la polizia parigina per farmi arrestare subito.

 

Gli immigrati dovrebbero liberare le celle e far posto alla delinquenza locale?

 

Mi hanno portato in carcere, dove ho aspettato otto mesi per essere tradotto in Italia e affrontare il processo. Da quel momento sono detenuto, e invece di diventare ricco e famoso come sognavo, vivo con il pesante rimorso di aver ucciso una persona e con il dolore di aver rovinato due famiglie, quella della vittima e la mia. Al processo mi sono assunto le mie responsabilità, accettando la condanna in silenzio. Così è iniziata la detenzione, con trasferimenti in varie carceri italiane, fino ad arrivare al penale di Padova dove sono tuttora.

Oggi le carceri italiane hanno toccato il record di sovraffollamento e, stando a sentire i giornali e qualche opinione autorevole, sembrerebbe che la colpa ricada in gran parte sulla presenza degli stranieri, da qui nasce l’idea di buona parte dell’opinione pubblica, concorde nel ritenere che gli stranieri debbano scontare la condanna nel proprio Paese d’origine, in modo da liberare le celle e far posto alla delinquenza locale.

Credo che ci potrebbero essere parecchie soluzioni alternative per porre rimedio a questo stato di cose, ma di certo sbarazzarsi in questo modo degli stranieri sembra molto facile, anche se non credo che sia umanamente giusto e neppure tanto praticabile nella realtà. Per esempio ci sono molte persone che hanno la famiglia in Italia, altre che sono scappate dal loro Paese a seguito di guerre civili, che sono sfuggite alla fame e alla miseria per cercare una vita dignitosa, è davvero umanamente accettabile rimpatriare un padre di famiglia quando moglie e bambini restano sul territorio italiano? Per non parlare poi delle condizioni disumane che si vivono nelle carceri dei Paesi poveri da cui si scappa. Se mi spedissero nelle carceri tunisine ritroverei una ospitalità poco rassicurante: le celle non esistono, ci sono strutture con cameroni che possono accogliere fino a 100 persone, la sanità è un elemento secondario, serie attività di recupero non esistono, i colloqui si svolgono in piccoli corridoi dove almeno una trentina di persone urlano per cercare di farsi capire.

Ora qui sono impegnato in una attività che ritengo molto importante, faccio parte della redazione di Ristretti, dove c’è un confronto anche con persone che vengono dall’esterno e che magari i rea­ti li hanno subiti, dove lavoriamo sulla prevenzione, soprattutto rivolta verso i ragazzi più giovani. È quest’ultimo il progetto con le scuole, dove anch’io racconto la mia esperienza negativa sperando che i ragazzi capiscano quanta sofferenza significhi finire in questo modo.

Oggi, dopo undici anni in Italia, ho imparato a ragionare e discutere senza usare la violenza, quella violenza che invece prima utilizzavo spesso per farmi ascoltare. E proprio ora dovrei tornarmene al mio Paese, dove non ho nessun contatto, nessun amico, nessuna speranza?

Qui ho avuto la possibilità di “educarmi”, una speranza di cambiare la mia vita “dal basso verso l’alto”, ho il sogno di farmi una famiglia e costruirmi un futuro onesto, e magari di sentirmi integrato. Se tornassi ora nel mio Paese mi sentirei nuovamente uno straniero.