Parliamone

 

Il nostro manifesto a favore della legalizzazione

La sofferenza spalmata sulla tastiera

Il dolore di una vita consumata dalla tossicodipendenza messo a disposizione

di tutti, attraverso la scrittura, per aiutare a capire senza giudicare

 

Quando avevo ricevuto da Stefano le pagine che seguono, mi aveva colpito l’immagine della sofferenza “spalmata” sulla tastiera del computer. In realtà, quando stava bene e quando stava da cani, una cosa Stefano non la perdeva mai: la passione per la scrittura, e la capacità di mettere, attraverso la scrittura, la sua sofferenza a disposizione degli altri, per aiutarli a liberarsi dai pregiudizi e a capire di più della tossicodipendenza. Io spero che il suo testo, “Per pietà, legalizzatela” diventi davvero una specie di manifesto a favore di quella legalizzazione, che forse avrebbe permesso a Stefano di continuare a vivere.

Ornella Favero

 

Ciao Ornella,

ho provato a scrivere qualcosa che non fosse un articolo, anzi ho scritto per il bisogno di provare a farlo. Vorrei tu lo trattassi male nel valutarlo, perché ho sempre l’impressione che si diventa facilmente lagnosi, forse lo siamo anche se non vogliamo. Non sapendo dove mettere la sofferenza l’ho spalmata sulla tastiera, poi ho pensato di inviartelo in segno di affetto, e con affetto ti saluto, Stefano

Per pietà, legalizzatela

Dopo più di vent’anni di tossicodipendenza come fenomeno sociale, e mentre

si consuma una strage idiota, siamo ancora lì a discutere di permissivismo

o meno, per ribadire una morale fatta di divieti e punizioni

 

di Stefano Bentivogli

 

Dietro le fessure degli scuri in legno chiusi, l’arrivo della luce del giorno si fa vedere solo quando il sole è ormai uscito allo scoperto, ha scavalcato l’orizzonte. Ma è la stessa cosa, una notte passata sveglio, come tante ultimamente, ha l’effetto di annullare il passaggio da un giorno all’altro. Sì e no percepisco il cambio di settimana marcato dalla consegna del metadone, quel sacchetto di bottigliette che ultimamente si è fatto più gonfio, più pesante, c’è bisogno di più pozione antidolore, ma non è una questione di dolore e basta.

Lo sciroppo, il meta, il ciuccio, il metano, comunque lo si chiami è anche e soprattutto il passaporto, il permesso di soggiorno, la mediazione che consente di essere, rimanere, qualcosa, quasi qualcuno, e non sparire in un ecosistema che non ti prevede, almeno ufficialmente, perché poi senza di te e dei tuoi simili in realtà crolla un’economia, un intero apparato su cui sopravvivono in molti ed altri, ma meno, si arricchiscono in modo spropositato.

Lo sciroppo è ormai quel filo sottile che ti lascia un minimo di identità sociale, ad esso sono collegati degli altri umani la cui missione è quella di aiutarti e curarti. Per il resto sei fuori, sei una mosca fastidiosa per la Polizia, un virus per la gente “normale” che ti percepisce tra la paura e lo schifo, la delusione rabbiosa per chi ti conosce, dolore per chi ti ama. E il tempo passa, arrivato oltre i quaranta anni i giorni svaniscono, diventano inconsistenti come la tua vita, eppure faccio un sacco di cose, non importa se raccontabili o meno, ne faccio tantissime senza che queste però marchino il tempo. Lui passa tra un sacchetto di bottiglie di sciroppo e l’altro. In mezzo c’è il nulla del mio esistere che ha perso anche il coraggio di finirla con questa vita, con la vita. Il mio corpo si è trasformato, sta liofilizzandosi, la pelle sta attaccandosi alle ossa… non mi sento bene… ma cosa hai, dove ti fa male?… non ho un nome per la mia malattia… non ho un nome per le mie sensazioni… non sento dolore… sento che sto morendo.

Bel piagnisteo del borghesuccio che ha il mal di vivere, faccio pena, pena mista a fastidio, fastidio misto a rabbia. Riuscirei ad argomentarmi con chiunque, tranne con me stesso, lì argomenti non ne ho, sono incapace di reggere il confronto con la mia demenza edonistica. Diventa normale, accettabile l’infezione, la flebite, il sudore puzzolente, la febbre… va bene, epatite e tutto quanto magari ancora non conosciamo neanche scientificamente può andare. L’importante è mantenersi direzionati saldamente ai sentieri di morte… morte, da vivo non andrebbe neanche pronunciata la parola tanto è assurda. Invece vivo col bisogno di sentirla lì, ad un passo da me, ma non la prendo, finirebbe il martirio, l’unico significato chiaro in questo caos di piaceri e dolori lancinanti che è la vita.

 

Ho concretizzato in polverine dalle quali dipendere tutta la mia incapacità di godere con un po’ di equilibrio

 

Quanta povertà sento per riuscire a scrivere righe del genere, sì povertà, pochezza interiore, certo che anche il torbido ha il suo fascino, ma prelude al nero, al buio, al niente. Ho bisogno di più luce perché il lumino che alla fine proteggo dallo spegnersi non ce la fa più, neanche chi mi sta vicino ce la fa più, li ho prosciugati al limite dell’umano, e non gli lascio nulla, un bel niente condito di dolori e rimorsi. A volte sento che l’hanno capito, ormai non riescono più a starmi vicino neanche fisicamente, ma non mollano lo stesso… che gran cosa la pietà umana, è un genere di amore gigante, un sentimento solo delle persone forti. Invece alla pietà si è dato un significato negativo: che mondo stupido abbiamo costruito. Io sono una persona debole, ho concretizzato in polverine dalle quali dipendere tutta la mia incapacità di godere con un po’ di equilibrio.

Però perché, per pietà, non mi si lascia vivere, rispettando le libertà degli altri, concedendomi un percorso legale, umano, senza vivere tutti i giorni la necessità di disprezzarmi per quello che devo fare, per le persone con cui devo avere a che fare, con la droga illegale? Per pietà, perché? Io posso comunque dare il mio contributo di cittadino dello Stato, stare al rispetto delle altre regole, perché allora? Stupida lex, sed lex, ma qui non si tratta mica di rinunciare a fumare sugli autobus, si tratta della mia vita: forse, visto che tanto la rispetto così poco io, è lecito, diventa legge massacrarmi così?

Io non so se è una malattia, anche se ormai si usa dire “va’ a curarti”, so con certezza che non esistono terapie perché, effetti collaterali a parte (ma quante terapie vengono assunte normalmente “effetti collaterali a parte”!), le polverine nel mio caso sono delle terapie che, come tante altre, non guariscono, leniscono, curano, poi per altre strade si cerca la guarigione. Nel frattempo per “curarmi” ho fatto a pezzi diecimila altre regole, ho distrutto la mia salute non per le polverine, ma per la vita ed i costumi che l’illegalità impone. E poi l’amor proprio, primo farmaco da somministrare, diventa difficile quando attorno a te cresce il disprezzo, l’odio, la paura e ancora una volta non per le polverine in sé, ma per l’illegalità e l’immaginario che queste costruiscono.

Potrei andare avanti per pagine, potrei raccontare gli episodi di un amore per la vita e per le persone massacrato, non da una debolezza che non lede la libertà di nessuno, ma per il rifiuto, ancora dominante nella società, di accettarla come questione personale e non sottoponibile alla morale comune o della maggioranza. La dipendenza da droghe può diminuire, o finire, quando si lasciano le persone crescere, e nessun carcere può essere ideato per questo scopo.

Ma è troppo “immorale” una società che permette la vendita della polverina sotto controllo medico e a prezzo di mercato (legale). Dopo più di venti anni di tossicodipendenza come fenomeno sociale siamo ancora lì a discutere di permissivismo o meno, mentre si consuma una strage idiota, per ribadire una morale fatta di presunte verità e divieti e punizioni: la prima vittima è l’umanità, uccisa per distrazione generale che ormai è cecità. Per pietà, legalizzatela.

Ascoltando Stefano

Anche gli errori fanno parte della propria identità

 

Per presentare Stefano a chi non l’ha conosciuto abbiamo scelto di far parlare non gli amici, ma gli studenti di una classe, alla quale Stefano ha raccontato, con la sincerità che lo contraddistingueva, la sua dura esperienza, perché potesse essere utile a qualcuno. E i ragazzi hanno capito l’importanza di quella fatica di narrare la propria storia personale e di farlo proprio per loro, e ne hanno colto il messaggio più importante: che “anche gli errori fanno parte della propria identità”.

 

Raccolta di citazioni curata da Martina Zuccato

per la 4a A dell’ITAS Pietro Scalcerle

 

Dalle migliori premesse… conseguenze inattese

 

È ancora giovane Stefano, ha una faccia simpatica, anche se malinconica, ispira fiducia, sì, eppure proprio lui ne ha passate tante. Tutto era iniziato bene, frequentava il liceo classico, 54 alla maturità, poi Scienze Politiche all’Università, l’obiezione di coscienza quando non era ancora una scelta molto diffusa, il lavoro in Africa nella cooperazione internazionale, un ottimo stipendio, una vita sociale soddisfacente, il matrimonio… Allora che cosa non è andato? Il soggiorno in Africa, ecco cosa non è andato, lì Stefano ha fatto molte esperienze, forse qualcuna di troppo e, tornato in Italia, si è trovato ad essere tossicodipendente. Finiti i risparmi, iniziano i furti d’auto e di moto per poter pagare quella dannata sostanza, l’eroina. Procurava auto su commissione, la merce rubata poteva essere venduta all’estero, oppure essere usata per rapine, oppure da essa potevano essere estratti pezzi di ricambio commerciabili. Lui non sapeva altro, sapeva solo che aveva bisogno di compiere quegli atti illegali per necessità psicofisiche legate alla tossicodipendenza. Si è limitato ai furti perché sentiva che c’era un limite oltre il quale non voleva andare, non voleva toccare la vita della gente. “Non avrei mai avuto il coraggio di entrare, ad esempio, in una banca e puntare la pistola… non sono quel genere di persona”. (Sara, Maria Sole, Cristina e Giulia)

 

Le due velocità della giustizia

 

Viene arrestato e nel giro di un anno e mezzo subisce tre gradi di processo, “una botta e via”, come dice lui, cioè sentenze prese molto velocemente, nessun rischio di prescrizione per i reati come i suoi. Poteva andargli anche peggio, lo riconosce, perché chi usava quelle auto per scopo di rapina, se fermato, poteva metterlo in mezzo, chiamarlo complice, invece non è mai accaduto. Ci ha colpito il fatto che ogni volta si è dichiarato colpevole per ottenere il minimo della pena, è curioso che di alcuni suoi reati si sia dimenticato e faccia fatica a distinguere quelli veramente compiuti e quelli mai compiuti, ma addebitatigli dalla Giustizia. (Lisa, Davide)

 

Tossicodipendenza e carcere non vanno bene a braccetto

 

Stefano entra ed esce da 7 comunità terapeutiche diverse, senza riuscire a portare a termine i programmi di disintossicazione, pertanto non gli rimane che il carcere: possibile che nessuna di queste comunità riuscisse ad aiutarlo a risolvere il suo problema? Siamo sicuri che siano le sbarre la soluzione? Tossicodipendenza e carcere non vanno bene a braccetto, meglio le comunità, ma quelle vere, dove il paziente ottiene risultati, riacquista fiducia in se stesso, accorgendosi che la droga non gli dà quella felicità che cerca. (Sara)

 

Una libertà in sospeso

 

La storia di Stefano la intitolerei “Una libertà in sospeso” per due motivi: primo per la droga che gli ha fatto perdere il controllo della sua vita (“mi sentivo impotente nei confronti di me stesso”), secondo perché, ora che ha finito di scontare la pena per i reati più recenti, non sa né quando né se verrà chiamato a scontarne un’altra per quelli più vecchi, risalenti a dieci anni fa, a causa della lentezza burocratica e dell’inefficienza della Giustizia. Non lo trovo giusto perché così non gli si dà modo di ricominciare davvero la propria vita. (Maria Sole)

I tossicodipendenti non sono persone libere, vivono come uccelli in una gabbia da cui non possono uscire, non possono essere felici perché nessuno vuole avere un amico, un figlio, un marito tossicodipendente. (Diana)

Le parole che mi hanno colpito di più sono “Potrei avere una casa, una famiglia, invece sono qui senza niente per non esser riuscito a smettere prima”. Ho avuto la prova che neanche chi vuole smettere a volte ce la fa, eppure la droga è qualcosa che abbiamo inventato noi, che siamo coscienti di prendere, perché decidiamo noi se assumerla o no. (Alice)

 

Anche gli errori fanno parte della propria identità

 

Interessante testimonianza fatta di memorie e considerazioni, quella di Stefano, caratterizzata da una chiarezza e semplicità rare, oltre che franchezza. (Davide)

Ho trovato molto bello che una persona ammetta di avere sbagliato e ribadisca che la colpa sia stata solo sua. (Giorgia)

A noi ragazzi servono i fatti, serve sentire le parole di chi ha vissuto sulla propria pelle determinate esperienze. (Lisa)

Ha soddisfatto al meglio le nostre richieste e gliene siamo grati, essendo consapevoli di quale sforzo stava facendo in quel momento: chi non vorrebbe cancellare dalla propria mente i brutti ricordi senza che qualcuno riapra le ferite? Gli abbiamo chiesto se si è pentito di ciò che ha fatto; ha risposto che non è mai stato contento di ciò che faceva, si sentiva costretto a farlo dalla dipendenza. Più che pentimento prova rabbia, rabbia per esser caduto nella trappola della droga, per non aver vissuto a pieno la vita, rabbia anche per questioni di giustizia: lui ha scontato molti anni di reclusione per i reati commessi e gente come Calissano o Elkann gode di enormi privilegi! (Valentina)

Quando Stefano da bambino pensava alla sua vita futura non l’avrebbe mai vista così, ma ora cerca in ogni modo di andare avanti, consapevole di ciò che ha perso, di ciò che non ha costruito, percependo un gran senso di rabbia quando pensa alla prima volta che ha detto sì alla droga. (Anna)

 

Una realtà più vicina a noi di quanto pensiamo

 

Non dobbiamo guardare il carcere e le persone lì ospitate come fosse una situazione fuori dal normale, che non ci riguarda, perché ci è più vicina di quanto pensiamo. Chi non ha mai sentito di persone conosciute, vicine di casa, che si drogano e commettono furti? (Lisa)

 

Eppure, chi vuole ce la può fare

 

Ammiriamo Stefano per la sua buona volontà, per la sua voglia di lottare, di riprendersi in mano la propria vita, per il forte desiderio di riacciuffare la libertà. (Valentina)

Ora tenta di ricominciare una vita normale, però, dopo molti anni di reclusione, l’impatto con l’esterno diventa inevitabilmente difficile, come se avesse perso una parte di vita e di mondo. Deve riabituarsi ai ritmi di quella che, al di là delle sbarre, sembrava la fine di ogni preoccupazione, ma che invece si presenta come una sfida continua. (Greta)

Con stupore ho sentito che è difficile per un ex detenuto perfino riadattare la vista agli spazi esterni perché l’occhio ha perso la capacità di misurare le distanze. (Giorgia)

Con l’impegno nella redazione di “Ristretti Orizzonti” Stefano ci ha dato l’esempio di chi sta cercando di vincere la sfida con se stesso, a prova del fatto che chi vuole ce la può fare. (Davide)

A proposito dell’attualità dello stato di tossicodipendenza

Vite di tossicodipendenti, vite da non buttare

Ma soprattutto, vite che vengono “congelate” dal carcere, nell’illusione

che anni di galera facciano dimenticare le sostanze, e poi,

quando la carcerazione finisce, si ritrovano in stato di abbandono

 

Il modo migliore per ricordare Stefano, che abbiamo pensato in redazione, è stato di aprire una discussione sui temi che gli erano cari, quelli su cui lui ci guidava sempre per mano a capire di più della tossicodipendenza. E così, abbiamo parlato di legalizzazione delle sostanze, di certificazione dell’attualità dello stato di tossicodipendenza, e di come spesso le persone che hanno avuto problemi con le sostanze escano dal carcere e si ritrovino da sole, con gli stessi problemi di quando sono entrate, anzi forse di più.

 

Ornella Favero: Vorrei parlare di quanto è successo a Stefano, tenendo anche conto di tutte le battaglie che abbiamo fatto sul problema della tossicodipendenza, perché credo sia importante riprendere un concetto che mi sta molto a cuore: quando succede una cosa del genere, una vita che si spegne per la droga – o quando uno rientra in carcere perché non ce l’ha fatta a ricostruirsi una vita decente fuori – c’è questa idea ricorrente che sia stato fatto tutto per niente e che sia solo un fallimento.

Questa stessa logica, per cui la persona si misura in base ai risultati concreti che ha raggiunto, in fondo si vede pure qui dentro: se uno è in carcere e non ha niente è come se avesse buttato la propria vita, mentre se ha fatto i soldi gode di maggiore considerazione. Anche in carcere il tossicodipendente viene visto come lo “sfigato” che ha rubato per comprarsi la droga e quindi non ha nemmeno i “risultati” che in certi ambienti contano, che sostanzialmente sono i soldi. Questo vale ancora di più fuori: se uno magari è stato in carcere ed esce e si ritrova a quarant’anni senza una casa, una famiglia e un lavoro decente è un fallito. Con Stefano avevamo discusso molto di questo, lui mi diceva di essere arrivato a quarantatre anni e di non aver concluso nulla. Io gli rispondevo che per lui quarantatre anni erano tanti perché si dibatteva in questa idea del fallimento, e faceva una graduatoria di valore sulla base del fatto che non aveva quello che le persone della sua età hanno, io invece pensavo che una vita così complessa come la sua, così piena di sofferenza, era una vita importante. Certo non volevo semplificare le cose e fare a finta che lui dovesse compiacersi della sua fatica di vivere, però a me basta pensare a come Stefano si raccontava ai ragazzi nelle scuole, si metteva “a loro disposizione” per aiutarli a capire di più i rischi della droga, per avere chiarissima in testa l’idea di quanto valore avesse un’esperienza come la sua.

Prince Obayangben: In tutti questi anni di carcere ho visto che il problema del recupero e del reinserimento non è solo una questione di leggi, ma soprattutto di chi dovrebbe prendersi cura delle persone tossicodipendenti. In realtà, si ha l’impressione che questo non interessi quasi nessuno: da una parte c’è il tossicodipendente in carcere che spesso è una persona debole, che prende tutto quello che gli danno per compensare la mancanza della droga, pensando molto meno a come fare per uscire da questo problema; dall’altra c’è chi deve curare, ma a volte ha come unico obiettivo quello di riempirlo di psicofarmaci, basta che stia calmo, e lo lascia lì.

Sandro Calderoni: Credo che il senso di fallimento non sia solo da parte del tossicodipendente, perché ognuno di noi che ha fatto un po’ di galera, questo senso di fallimento ce l’ha dentro. Sul discorso specifico della tossicodipendenza penso che le cose si debbano volere, nel senso che è sicuramente difficile uscirne se non si hanno o se non si trovano altri interessi. Stefano, che sicuramente era una persona intelligente, a volte ne parlava come se tutto quello che gli era successo fosse causato da qualcosa di diverso, di non voluto da lui, e per me questo era un modo di scaricare le proprie responsabilità ad altri o ad altro, e gliel’ho detto più di una volta.

Marino Occhipinti: Sandro, di fronte a tutte le altre droghe credo si possa concordare con te, ma di fronte all’eroina è dura, è troppo difficile venirne fuori. Ricordo una persona uscita da San Patrignano dopo sette anni, con tutti gli onori perché in comunità faceva l’operatore, e cioè aiutava gli altri a disintossicarsi, insomma questa persona è uscita il venerdì e il lunedì era in piazza Verdi a Bologna che cercava l’eroina. Chi ha usato l’eroina, anche se riesce a smettere - e Stefano aveva smesso – è tutti i giorni a rischio, credo che sia la droga più terribile che esiste, di fronte alla quale l’intelligenza conta fino ad un certo punto, perché se bastasse l’intelligenza allora Stefano non doveva neanche cominciare, altro che morire.

Sandro Calderoni: Io parto dal fatto che comunque è la volontà che predomina: se io faccio una cosa è perché provo piacere a farla, per cui se io trovo un piacere o un interesse più grande posso anche smettere di drogarmi.

Francesca Rapanà (volontaria): Possiamo andare avanti ore a cercare di capire dove inizia e dove finisce la responsabilità individuale, qual è il margine. Ma che un margine ci sia, non significa che dipenda solo da te riuscire a smettere. A volte abbiamo discusso anche di altri paesi, dove ci sono leggi molto più avanzate che ti consentono di concentrarti su quelli che sono i problemi a cui cerchi di dare una risposta con l’eroina, quei problemi su cui lui invece non è mai riuscito a concentrarsi. Stefano era una persona molto intelligente, è vero, ma aveva un male di vivere così profondo che paralizzava qualsiasi decisione razionale, quindi non credo sia una questione di intelligenza e volontà.

Ornella Favero: Stefano comunque ci ha tante volte ricordato che, di fronte alla tossicodipendenza, non è possibile inventarsi spiegazioni semplificanti o ricette miracolistiche: le comunità salvifiche, gli slogan, “bisogna dire no alla droga” e via dicendo. Non esiste una ricetta, perché non si può appiattire la complessità delle persone, e anche dietro il sentirsi vittima secondo me c’è ci sono a volte ragioni profonde: oggi le vite delle persone che fanno più fatica ad adeguarsi sono considerate vite da buttare, quindi Stefano era anche vittima di questa situazione.

In Stefano ho visto la schiavitù dall’eroina, che per lui non aveva più niente a che fare con il piacere, ma era una medicina per la depressione, per il male di vivere. Per cui non so quanta responsabilità ci sia stata da parte sua, perché quando uno ha dei comportamenti nettamente autodistruttivi, quando lo vedi disperato con se stesso e con gli altri, quando lo vedi piangere dal dolore e capisci che è consapevole che fa qualcosa che lo distruggerà e nonostante tutto la fa lo stesso, comprendi che non può essere completamente responsabile. L’unica certezza che ho è che bisogna avere una considerazione diversa rispetto alla vita delle persone, anche quella delle persone che creano “fastidio sociale”, perché è innegabile che ci sono categorie di persone come i rom e i tossicodipendenti che danno fastidio ovunque, pure in carcere, me lo avete sempre detto anche voi.

Maurizio Bertani: Non è il tossicodipendente in quanto tale a dare fastidio, né in carcere né fuori, sono invece i comportamenti dei tossici che possono “urtare”. Nei rapporti interpersonali il tossicodipendente è portato a mentire su tutto pur di raggiungere il suo scopo, non tiene in considerazione nulla di ciò che può essere importante in un rapporto fra persone, è questo a infastidire.

Ornella Favero: Ma voi non immaginate neanche cosa c’è fuori contro i tossicodipendenti! Qui non si sta parlando di Lapo Elkann o di chi usa la cocaina e di certi tipi di droga che in certi ambienti sono accettati come normalità, qui stiamo parlando di eroina che, come sostanza, è quella che porta a considerare queste vite delle vite inutili. Il discorso che faceva sempre Stefano è proprio questo: viviamo in una società in cui da una parte si demonizza l’uso di sostanze, si prova fastidio per i tossici che sono “brutti da vedere”, dall’altra c’è la piena accettazione sociale per certe sostanze e certi consumatori, per cui per esempio, a pochi mesi di distanza da un’overdose che lo ha portato quasi a morire, Lapo Elkann è tornato a essere un simbolo di eleganza e successo.

Elton Kalica: Io credo che questo fatto così terribile, la morte di Stefano, debba farci riflettere, spingerci a fare delle proposte chiare. Un caso come il suo ti dà l’esempio che se ci fosse stata la possibilità di un uso della droga controllato, legalizzato, “pulito”, non sarebbe mai successo. Io non condivido le tesi che chi si droga può uscire e entrare da questo problema come e quando vuole, perché non è così. In questi anni di carcere ho visto un sacco di persone, anche di 30-40 anni, che non aspettano altro che uscire per tornare a farsi. Magari smettono in carcere perché diventa complicato trovare la roba, però sono sempre lì con la testa e appena escono ricominciano, per cui la volontà c’entra molto poco, da sola è insufficiente a far smettere. Allora è disumano che chi fa uso di droghe e non è ricco sia costretto ad andare a “farsi” in posti degradati e pericolosi.

Francesca Rapanà: A proposito delle “stanze del consumo”, si discuteva proprio con Stefano se questa possibilità poteva significare allo stesso tempo una resa, un segno di rinuncia. Ma lui sosteneva che non è così, perché una situazione protetta e controllata toglierebbe tutta l’ansia che assale il tossico quando deve andare a cercare la roba, a procurarsi i soldi per comprarla, e si riduce a comportarsi in un modo che lui stesso ritiene inaccettabile. Senza queste ansie ci sarebbe la possibilità di lavorare veramente su quello che spinge a usare sostanze, sulla depressione, sulla cura.

Elton Kalica: Un altro problema è la disattenzione del legislatore verso alcune richieste secondo me legittime. Il parlamento si dimostra molto comprensivo quando l’opinione pubblica “chiede” che il tossicodipendente vada in comunità di recupero, e allora si fanno le leggi che prevedono la comunità sotto i sei anni di condanna, forse perché ci sono dei grossi interessi economici dietro. Quando invece si chiede un posto dove chi proprio non ne può fare a meno vada a “farsi” in tranquillità, allora la risposta è negativa, anzi si scandalizzano, e alcuni cominciano a gridare che drogarsi non è un diritto, ma poi nessuno si indigna quando qualcuno muore in un bagno della stazione.

Ornella Favero: C’è poi un’altra, enorme questione, di cui vorrei parlare: la certificazione della “attualità” dello stato di tossicodipendenza per chi sta in carcere. Spesso non si concede una misura alternativa perché manca questa certificazione. Quando invece le persone cominciano a uscire, in permesso, con il lavoro all’esterno, in semilibertà, siccome sono state anni in carcere si ritiene che, se anche quando sono entrate avevano problemi con la droga, ora sono “pulite” e quindi non gli serve più nessun aiuto. Questo secondo me è doppiamente assurdo: perché c’è l’ipocrisia di voler credere che la droga in carcere non circoli per niente, e perché si sottovaluta del tutto il problema psicologico, il fatto che uno tossicodipendente mi pare che lo sia prima di tutto nella testa, e magari nel ricordo, che si registra dentro il cervello, del piacere e del sollievo che dava la sostanza.

Maurizio Bertani: In carcere nessun Ser.T. mi ha mai voluto prendere in “carico”, nonostante ci siano già nelle mie vicende passate due riscontri di positività alla cocaina. Una responsabile del Ser.T. mi ha detto che per avere un riconoscimento – o meglio perché il Tribunale di Sorveglianza e gli stessi giudici di sorveglianza ritengano un riconoscimento valido a livello terapeutico, e comunque di presa in carico da parte del Ser.T. – deve esserci uno stato di comprovata tossicodipendenza retroattiva fino ad un massimo di tre anni. Ma allora cosa vuol dire, che dopo tre anni di carcere, in cui si presume che un tossico non abbia più fatto uso di sostanze stupefacenti, lo stesso sia di fatto “guarito”? A mio avviso si tratta di una questione incomprensibile, visto che lo stesso Ser.T. afferma che chiunque abbia fatto uso di sostanze stupefacenti è – e rimane – un soggetto a rischio per sempre, allora mi pare che il limite di tre anni dall’ultima positività sia una valutazione della Magistratura di Sorveglianza per non concedere eventuali affidamenti al Ser.T.

Franco Garaffoni: Secondo me c’è un errore di base sulla tossicodipendenza in carcere. Si fa sempre l’abbinamento secondo il quale la tossicodipendenza o l’alcoldipendenza equivalgono a chissà quali facilitazioni nell’ottenimento dei benefici, e questo discorso l’abbiamo affrontato anche al Ser.T., che io frequento.

Quando c’è stata la festa di laurea di Elton sapete cosa ho fatto? Ho inconsciamente accarezzato la bottiglia di spumante. A dire il vero non me ne sono nemmeno accorto, infatti me l’ha detto l’operatrice con la quale faccio terapia di gruppo, tanto che all’inizio ho faticato a crederle, sono rimasto sorpreso, ma poi ho visto una fotografia che conferma le sue parole. Probabilmente accarezzare la bottiglia è stato un po’ come accarezzare la vecchia fidanzata che non ti tradisce mai, psicologicamente può essere veramente così, nel senso che in effetti si tratta di un vecchio amore che non mi ha mai tradito (quindi mi sento ancora attratto dalla droga e dall’alcol, perché “pippare” e bere è un piacere e indubbiamente mi piace anche adesso). Quando feci il primo colloquio con lo psicologo e mi disse che probabilmente il carcere mi aveva salvato la vita, in considerazione del fatto che avevo anche la cirrosi epatica, lì per lì pensai che era un pirla, invece adesso riconosco che è vero. È una “malattia”, la tossicodipendenza, molto difficile da eliminare, soprattutto fuori, in libertà, mentre fare il tossicodipendente in carcere è facile, così come è facile fare l’alcolista. È la cosa più semplice del mondo, ma il problema è fuori.

Quando scendo il giovedì mattina e vado all’incontro, la mia partecipazione al gruppo è soprattutto una “certificazione” a me stesso, che mi dovrò poi portare fuori. Credo che dovrò essere seguito dal Ser.T. anche in futuro, quando sarò fuori, tanto che l’ho proprio chiesto, ma è determinante che mi sia finalmente convinto di avere un problema. Infatti prima non mi ero mai sentito un malato, o un tossico o un alcolista, perché facevo la bella vita e ritenevo che fosse tutto legato a quella condizione. Guadagnavo, mi divertivo, e perché mai dovevo sentirmi un “malato”? Quando si è convinti che la droga e l’alcol sono “un piacere”, poi non è per niente facile rendersi conto che invece possono essere una malattia, anche se adesso ci scherzo sopra dicendovi che prima di andare agli incontri sono ammalato, e che al ritorno sono guarito. Vi assicuro che ritrovarmi ad accarezzare la bottiglia mi fa capire quanto io sia ancora debole, vulnerabile, e le cose si capiscono specialmente analizzando i gesti istintivi.

Daniele Barosco: Ci sono carceri nelle quali i tossici non esistono, a meno che non siano già seguiti dai servizi fuori. Poi capita, come è successo quando ero a Treviso, che ragazzi usciti da pochi giorni dal carcere e non riconosciuti come tossici muoiano per overdose. Il ragionamento è sempre lo stesso: “Voi vi dichiarate tossici quando entrate in galera solo per ottenere i benefici, e allora niente, visto che non eravate seguiti dal Ser.T.”. Dichiararsi tossicodipendenti è ritenuta solo una questione strumentale, ma io non credo che ci sia una ricetta medica che possa dire chi è ancora tossico e chi invece è definitivamente fuori dai problemi di droga.

Elton Kalica: Sicuramente esistono anche casi di strumentalizzazione, ma ritengo che la stragrande maggioranza siano realmente persone che hanno fatto uso di sostanze stupefacenti. Magari alcune non hanno una lunga storia di tossicodipendenza, ma si tratta sempre di persone che ne hanno fatto uso, per cui sono da considerare soggetti a rischio.

Il Ser.T., o gli altri servizi o le altre strutture che si occupano di tossicodipendenza, dovrebbero trovare nuove strategie, visto che da parte delle forze politiche ci sono solo proposte repressive. E dovrebbero superare questo grosso problema del sospetto verso chi chiede aiuto, la convinzione che lo si faccia esclusivamente per uscire di galera. Prendiamo il caso di Maurizio: io non lo so quanto lui sia dipendente dagli stupefacenti, però sono cinque anni che dice di avere un problema di questo tipo, e che vuole essere preso in carico dal Ser.T. perché è sempre stato un consumatore di cocaina. Una situazione simile l’ho vista anche col mio compagno di cella, un tossicodipendente “storico” di quarant’anni che ha cominciato a farsi quando ne aveva quindici; siccome ha passato un periodo lontano dai Ser.T., e adesso voleva tentare nuovamente la via della comunità, ha avuto difficoltà a farsi certificare l’attualità della tossicodipendenza, nonostante lui sostenesse chiaramente che se fosse uscito, molto probabilmente non avrebbe resistito a tornare a usare le sostanze. Nonostante questo gli rispondono che lo dice solo per avere i benefici, magari esce e muore di overdose, allora questo è un problema di chi dovrebbe studiare altre strategie, perché così la cosa non funziona.

Elvis Prifti: Da quella che può essere la mia esperienza, vedo che quando i tossicodipendenti sono in carcere vengono riempiti di farmaci, terapie e metadone, poi quando escono non interessano più a nessuno, almeno nella maggioranza dei casi. Non basta essere seguiti con il metadone, servono invece altri supporti psicologici, che sono ancora troppo rari. Di fatto tanti tossici sono abbandonati a loro stessi, basta andare qui a Padova e ne vedi un sacco per strada. Si “fanno”, per farsi spacciano, e finiscono con l’alimentare un circolo vizioso dal quale non escono più.

Giuseppe Ientile: Io che nella droga ci sono dentro, perché il primo buco me lo sono fatto nel 1976 in galera, so quanto sia grosso il problema. Non lo dico come un vanto, anzi me ne vergogno e non la prendo affatto alla leggera, ma dopo trent’anni ci sono ancora dentro, nel senso che ne ho ancora il desiderio. Anche se adesso qui non mi faccio, non so cosa succederà fuori, visto che quello che mi danno è solo il metadone. Non è facile, non è per niente facile uscirne.

Walter Sponga: Vorrei tornare un attimo sul discorso iniziale. Non so come funziona in Italia, ma sono stato molti anni in carcere in Francia, e lì quando una persona viene arrestata e si dichiara tossicodipendente viene sottoposta a una serie di esami per accertare se veramente ha fatto uso di droghe oppure no. Mi sembra troppo facile che chi entra in carcere e dichiara di essere tossicodipendente venga preso in carico dal Ser.T. e fruisca di benefici, penso che anche qui in Italia vengano fatte delle analisi che verifichino lo stato di tossicodipendenza.

Ornella Favero: Quello legato alla simulazione è un punto importante: in carcere, come succede anche per la salute, è naturale che riguardo alla tossicodipendenza ci siano un certo numero di persone che ci “giocano” per uscire prima, lo sappiamo, ma è meglio essere “fregati” da un simulatore piuttosto che avere sulla coscienza una persona che ha dei problemi di salute davvero e non è stata creduta.

Certo, ci sono le analisi perché non si può pretendere che il Ser.T. faccia i suoi passi senza una certificazione, ma a me interessa di più la situazione di una persona che aveva fatto uso di sostanze, e che dopo aver passato molto tempo in carcere viene messa in misura alternativa. Con troppa facilità si ritiene che quella persona non sia più tossicodipendente, cioè si crede che la tossicodipendenza sia solo legata all’uso della sostanza e che non rappresenti anche un problema psicologico. Invece, come diceva Giuseppe prima, si rimane tossicodipendenti in testa, perciò è semplicistico parlare di vizio per la droga: se una persona facesse male solo a se stessa potrebbe avere i vizi che vuole, gli si potrebbero dare le informazioni necessarie a capire che si fa del male e poi lasciarla libera di decidere quel che gli pare, ma le persone tossicodipendenti spesso travolgono coi loro problemi famiglie, amici, le vittime dei loro piccoli reati, perciò il primo principio che dobbiamo sostenere è quello che diceva Stefano, e cioè la legalizzazione: almeno si darebbe una mano ai tossicodipendenti a non commettere reati per procurarsi la droga.

Ultima questione sulla quale possiamo dire la nostra è che comunque queste persone si ritrovano a uscire, e quindi bisogna pensare a un sostegno. L’aiuto fuori non vuol dire andare al Ser.T. a fare le analisi delle urine, ma è necessario che una persona sia seguita, e che durante la carcerazione sia portata alla consapevolezza che da sola non può uscirne. Io, senza sostegno, non ho visto nessuno smettere con la droga.

Francesca Rapanà: Se io fossi un operatore, preferirei prendere in carico una persona in più, piuttosto che rischiare di non aiutare chi tossicodipendente lo è per davvero. E poi è determinante estendere il problema al dopo carcere, perché anche se una persona non si fa per dieci anni, l’unica cosa a cui il carcere potrebbe servire è quella di intercettare chi ha individuato e riconosciuto il problema, e aiutarlo. Non so bene come, perché è comprensibile che se una persona non usa droga da tanti anni non ha nessuna voglia di tornare al Ser.T., a incontrare le facce che vedeva dieci anni prima, comunque dovrebbe almeno essere seguita da uno psicologo. Una sorta di camera di decompressione, per le persone che gradualmente cominciano a uscire dal carcere, sarebbe importante.

Giuseppe, tu raccontavi che hai cominciato a farti in carcere nel 1976, e a cinquant’anni dici che non sai cosa può succederti quando sarai fuori. Questo significa proprio che anche chi è in carcere da un lungo periodo continua ad avere il problema, la dimostrazione che la droga può essere molto più forte delle nostre volontà.

Ornella Favero: La consapevolezza di Giuseppe che, nonostante sia in carcere da più di quindici anni di seguito, non si sente fuori dal problema droga, mi sembra uno degli aspetti più importanti. Infatti molti sostengono che non serve assistere una persona che si trova detenuta da molti anni, presumono che il problema delle sostanze non ce l’abbia più, e raccontare la tua esperienza sarebbe interessante proprio sotto questo punto di vista.

Giuseppe Ientile: Ci sono ragazzi che veramente stanno male, e non parlo di male fisico, ai quali viene dato il metadone in modo che stiano tranquilli, e per il resto si fa poco. Non è solo un problema di droga, secondo me alla base ci sono proprio problemi personali che andrebbero cercati e che avrebbero bisogno di ben altre cure, non certamente di terapie che finiscono solamente con l’aggravarli.

Andrea Andriotto: Fino a un anno fa, quando sono stato chiuso dai benefici perché ho fatto uso di stupefacenti, anche per i magistrati ero tossicodipendente, mentre adesso che avevo chiesto l’affidamento in comunità, improvvisamente non lo sono più. Eppure, oltre ad avermi trovato positivo alla cannabis nel 2000, proprio mentre ero in carcere, mi hanno trovato positivo anche nel 2006, ma per i magistrati sono soltanto episodi isolati che non comprovano il mio stato di tossicodipendenza. Eppure c’era la relazione del Ser.T., nella quale è dichiarato che mi conoscono fin dal 1995, ma prevale sempre l’idea che dopo anni di carcere non si può sostenere di essere ancora tossicodipendenti.

Ornella Favero: La circostanza che tu sia stato “chiuso” dopo un periodo di lavoro all’esterno dimostra – e ci torno nuovamente sopra – che una persona può stare anche dieci anni in carcere ma il problema non è risolto. Io penso che operatori e magistrati che da anni vedono queste storie, vedono le ricadute e vedono i rientri in carcere per le ricadute - debbano prendere atto che in carcere la droga a volte circola, e che comunque chi ne ha fatto uso è sempre a rischio, non solo dentro ma anche fuori e dopo anni di libertà. L’attualità della tossicodipendenza è dentro la testa delle persone, purtroppo.

 

 

Precedente Home Su Successiva