Le sue battaglie

 

Emanciparsi dall’illegalità

La legalizzazione, un salto culturale che va necessariamente fatto

Un tossicodipendente oggi vede passare per le sue mani una quantità di soldi notevole,

tutti i giorni, ma ogni sera ha le tasche vuote, ha fame e magari dorme per strada

 

di Stefano Bentivogli

 

Senza essere dei grandi esperti in materia e dando per scontato che un Paese con meno prigionieri possibile è sicuramente più civile di un altro che affronta i problemi recintandoli dietro sbarre e filo spinato, è evidente che le due questioni sulle quali occorre definire nuovi sensi di marcia restano la tossicodipendenza e l’immigrazione clandestina. Non si può continuare a considerare la Iervolino – Vassalli e successive modifiche del governo Berlusconi e la Turco – Napolitano e la riforma Bossi – Fini, dei testi dalle cui linee ispiratrici (non molto dissimili tra loro) non si possa uscire.

È vero che non è semplice stravolgere delle leggi, che sia la destra che la sinistra non hanno avuto il coraggio di eliminare, per tentare strade nuove. Però si arriva ad un punto nel quale veramente si dovrebbero tracciare dei bilanci (non sullo stile di quelli per l’indulto), accettare con un po’ d’onestà i fallimenti e trovare strade nuove che veramente abbiano dei riferimenti con i valori presenti nella Costituzione e più in generale con la Carta dei Diritti dell’Uomo.

Si continua invece a non volere andare oltre a leggi che, trasformando in fatti penali questioni quali l’uso degli stupefacenti ed i flussi migratori, hanno lasciato in mano alle grandi organizzazioni criminali migliaia e migliaia di vite umane e capitali immensi. Tutto ciò per non avere il coraggio di regolamentare fenomeni che riguardano la sfera personale, e mi riferisco in particolare all’uso ed abuso delle droghe. Sotto sotto si cerca ancora di farne una questione morale, che invece è moralista e basata sulla logica della pedagogia dei divieti, che arriva fino a ridurre uso ed abuso di stupefacenti ad una questione quasi esclusivamente penale.

Facciamo un bilancio di questa paralisi del fare politica dell’Italia e di tutti i paesi dove non si tenta nulla di nuovo sul mercato degli stupefacenti in mano alle narcomafie, che hanno accumulato ricchezze stratosferiche, sulle migliaia di giovani morti di proibizionismo, su quelli che attraversano la loro giovinezza nelle galere formando la loro personalità in luoghi dove la regola non esiste o, se esiste, è l’illegalità, sulle vittime della microcriminalità che ogni giorno subiscono violenze e, dopo i tossicodipendenti, rappresentano la parte più debole e penalizzata di un circuito assurdo, che tiene in piedi un traffico enorme di denaro che finisce nelle tasche dei criminali, quelli che lo sono sul serio.

Sui consumatori di stupefacenti, pesano più di venti anni di leggi che hanno coltivato la loro clandestinità con costi sociali terribili. Criminalità, malattie, morte, emarginazione, carcere a tutto spiano e soprattutto la perdita di tantissimo tempo che poteva consentire di sperimentare strade nuove per contrastare i casi di abuso e problematici ed i loro “effetti collaterali”.

Ad oggi, se non si interviene con scelte coraggiose, siamo destinati ad avere una forbice che si allarga sempre di più, tra chi riesce a vivere sperando nel miglioramento della sua condizione di vita e chi invece questo miglioramento lo sta cancellando dai suoi pensieri, progetti e speranze. È la vittoria di quei politici, e di quella parte della popolazione che si immagina più sicura e felice pensando a tante carceri dove chiudere tante persone, dimenticandosi che i problemi resteranno sempre fuori dalle prigioni.

Occorre tornare veramente ad ipotizzare la reclusione delle persone come ultima ratio, l’alternativa è rinunciare ad affrontare i problemi, pensare solo alla repressione, costruire sempre più inutili galere destinate a molti di noi o vicino a noi, come se ci si illudesse che i problemi del vivere riguardino sempre gli altri, lontano da noi.

A questo l’unica risposta possibile è un’azione di legalizzazione che, si badi bene, non è l’assenza di regolamentazione e controllo ma il contrario, una gestione legale, pubblica, la più ampia possibile.

 

Oggi si continua ad espellere tutte le diversità e le persone che ne sono portatrici

 

La questione droghe contiene tutta un’altra serie di problemi correlati che troverebbero spazi di gestione e soluzione ben diversi se affrontati come fenomeni normalizzabili, nel senso che crollata l’illusione demagogica di soluzione repressive, lo Stato deve cominciare a pensare a “normare”, ad essere di supporto a tutte quelle persone in difficoltà offrendo loro la possibilità di emanciparsi inizialmente dall’illegalità e di riottenere il massimo di dignità lontano dall’emarginazione e dalla segregazione.

Si avrebbe innanzitutto la possibilità di conoscerle veramente a fondo queste persone, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni, e per molte di queste persone, non dimentichiamoci mai che sono tali, sarebbe sicuramente possibile migliorare la qualità della vita spesso oggi ridotta a livelli disumani. Su questo poi si dovrebbero costruire dei percorsi che non siano sempre improntati sulla logica dei campi di rieducazione dell’Indocina, mi riferisco alle comunità terapeutiche dove l’utente perde qualsiasi tutela ed è obbligato a patti terapeutici dove su uno dei piatti della bilancia c’è il carcere. Bisognerebbe trovare il modo di mantenere le persone all’interno dei loro ambienti di vita normali, perché è lì che dovranno maturare la gestione dei propri problemi in maniera diversa e per loro scelta.

Oggi invece si continua ad espellere tutte le diversità e le persone che ne sono portatrici, e la legalizzazione è un salto culturale che va necessariamente fatto, a meno che non ci si illuda veramente dell’utilità dell’omologazione come strada – che si regge principalmente sulla repressione – credibile per lo sviluppo e la crescita sociale e personale. Le persone, per fortuna, sono diverse e spesso migliorano proprio per questo. È assurdo prevedere sempre più carcere per qualsiasi situazione di diversità, anche quando questa non arreca alcun danno agli altri, dovremmo invece proprio rivalutare il valore della diversità, unica forma di rispetto della persona umana.

Chi oggi si trova vicino o dentro questi problemi ne conosce bene l’urgenza e la necessità di accelerare i tempi del cambiamento. L’unica strada resta quella di un lavoro di informazione corretta, leale e non propagandistica e mirata solo a dire “chi si droga fa male”, anche perché così non si è credibili di fronte all’enorme popolazione che consuma senza averne problemi gravissimi. Forse è meglio spiegare, raccontare veramente come una situazione di dipendenza, se la si continua a lasciare in mano alla criminalità, semina drammi, morte, e problemi anche per chi dalla tossicodipendenza è fuori.

Occorre rifare le leggi, chiudere una fase proibizionista ed aprirne una nuova, attraverso la legalizzazione, che è la gestione diretta dello Stato che prima strappa dalla schiavitù dell’illegalità le persone che hanno problemi e poi le accompagna, senza emarginarle o segregarle, ma consentendo loro di vivere in modo dignitoso, verso scelte di cambiamento delle quali finalmente assaggiano la convenienza.

Chi conosce direttamente il problema ha un senso di schifo nel dover affrontare, davanti a tante vite distrutte o finite, la questione dei costi per lo Stato.

Ma Ser.T. e comunità terapeutiche già esistono e sono un costo, spesso la loro efficacia è ridotta proprio per il rappresentare, inutilmente, un’alternativa all’illecito, perché la tossicodipendenza resta tale e il riempirsi delle carceri ne è la prova. Forse provare una loro riconversione in strutture, che attraverso la legalizzazione e la somministrazione controllata, offrano anche l’assistenza sanitaria alle patologie correlate, comprese quelle inerenti la salute mentale, non dovrebbe spostare di un euro il fabbisogno finanziario di gestione. E forse il vero obiettivo sarà quello di potenziare la professionalità degli operatori, finalmente più impegnati nel lavoro sul territorio che in quello, spesso inutile e ormai burocratico, dedicato agli utenti in carcere.

Non c’è molto tempo da perdere, e non solo per la preoccupazione di rivedere le carceri nelle condizioni nelle quali erano prima dell’indulto: preoccupa soprattutto continuare a sentire solo bilanci e contabilità da bar invece che proposte nuove, coraggiose, partecipate, ossia quelle dove ci si sporcano le mani camminando al fianco anche e soprattutto di coloro che degli stupefacenti abusano, di quelli ai quali bisogna offrire un aiuto d’emergenza che gli consenta di non dover rubare ogni giorno, più volte al giorno, anche se questo potrà significare fornirgli in un primo momento gli stupefacenti dai quali dipendono (non parlo del metadone). Molti di loro potranno svolgere inizialmente piccoli lavori, avere rapporti anche con persone che i loro problemi li superano senza bisogno di iniettarsi qualcosa, dedicare parte dei loro pensieri ad idee, progetti che non siano quelli di recuperare tutti i giorni soldi per finanziare qualche criminale miliardario. Un tossicodipendente vede passare per le sue mani una quantità di soldi notevole, tutti i giorni, ma ogni sera ha le tasche vuote, ha fame e magari dorme per strada. E quante vittime fa ogni giorno per procurarsi i soldi per la droga! non pensa certo a sottrarre ricchezze per accumularle, per arricchirsi, ma impoverisce, commettendo furti, tantissima gente.

Il fenomeno poi sta assumendo dimensioni immense, non date retta alle statistiche basate sui sequestri di stupefacenti o sui questionari o sugli utenti dei servizi pubblici, chiedete a chi vive per strada quanta gente si droga tutti i giorni e che età hanno e poi chiedetevi: ha veramente senso, stante che drogarsi di per sé fa male solo a se stessi, in nome di una morale che dice che la droga è male (anche se ad usarla è un altro e non noi), pagare un prezzo così alto? Oppure provare alternative con serietà, senza andare allo sbaraglio, resta l’unica risposta al dubbio che ormai droga e criminalità abbiano vinto e che per noi, tossicodipendenti e vittime dei loro reati, schiavi della mafia e del dio denaro, non ci sia proprio niente da fare?

Salvare anche chi non ce la fa a smettere

Non basta vietare o forzare alla cura per mettersi l’animo in pace

Parlare di “stanze del consumo” significa dare un luogo al consumo dei più poveri

quelli che vivono in strada, oppure a quelli che hanno una casa in cui

non possono usare, perché sono clandestini ai loro propri affetti

 

I consumatori esistono, rischiano, hanno una dignità e meritano rispetto

 

di Susanna Ronconi

 

Avrei dovuto raccontare a Stefano l’ennesima sconfitta, e non mi avrebbe fatto piacere. Dirgli che anche questa volta non ce l’avevamo fatta, a portare un po’ di buon senso dentro le politiche sulle droghe. Qualche volta “vincere” sarebbe anche bello… È ben vero che il merito sta nel provarci e non nel riuscirci, perché riuscirci non dipende mai solo da noi e provarci invece sì, e qui sta la responsabilità di ognuno, ma è anche vero che “portare a casa” significa, nel nostro campo, spesso meno sofferenza, meno stigma, meno rischio.

Cosa c’era, in ballo, questa volta? Le stanze del consumo, drug consumption rooms, safer injecting rooms, narco-sale… insomma, dare un luogo al consumo dei più poveri, quelli che vivono in strada, oppure a quelli che hanno una casa in cui non possono usare, perché sono clandestini ai loro propri affetti. Soprattutto quelli che usano in vena, a cui non basta una sigaretta o una tirata veloce in un bagno qualsiasi. Dare un luogo: semplice ma minaccioso, pare. Almeno per quelli che temono la realtà, che è fatta di persone che consumano e che per un certo periodo della loro vita non hanno intenzione di smettere. Dare loro un luogo mette tutti di fronte al dato di realtà, e a questo si può rispondere, al solito, in due modi: negandola o mettendoci mano. I più, ancora, negano, e dicono “dobbiamo salvarli”, salvo poi lasciarne molti su argini schifosi, strade deserte, androni e fabbriche abbandonate, a morire, ammalarsi, disperarsi. È l’ipocrisia di sempre, di quelli che pensano che basti vietare o forzare alla cura per mettersi l’animo in pace. Oppure ci si mette mano, e si dice: i consumatori esistono, rischiano, hanno una dignità e meritano rispetto e risposte. In tanti anni di lavoro e attivismo, in cui ho imparato (ma chi l’avrebbe detto?…) a mediare e ascoltare, tra queste due alternative, invece, non ho mai trovato un ponte, un collegamento. Quelli che negano e vanno di retorica salvifica continuano a sembrarmi di un cinismo che non riesco ad accettare. Con il paradosso di sentirmi dare, da loro, della cinica.

Stesso repertorio a Torino, negli ultimi mesi. Ma questa volta, speravamo di aver lasciato almeno un segno, nella politica locale, perché abbiamo messo in campo tutto ciò che potevamo: scienza, esperienza, informazione e dialogo, attivismo e militanza, petizione popolare e media… Niente da fare.

La prima volta che abbiamo chiesto alla città – eravamo operatori della riduzione del danno, pubblici e privati, consumatori, associazioni, medici - di sperimentare una stanza del consumo era il 2002, l’estate precedente avevamo contato 11 morti per overdose nel giro di poche settimane, perfino qualche politico di destra si era chiesto: ma non possiamo fare nulla? E noi, come coordinamento operatori delle basse soglie, avevamo suggerito di alzare lo sguardo, guardare in Europa dove già molte città, dando un luogo al consumo, avevano drasticamente ridotto il numero della morti droga correlate. Già allora avevamo fornito ai politici tutta la documentazione internazionale a disposizione, perché non dicessero “non se ne sa abbastanza”, avevamo messo un gazebo in piazza con una mostra fotografica in cui si mettevano a confronto i nostri luoghi naturali (discariche, lungofiumi e pantegane, case abbandonate, strade e giardinetti) con le stanze del consumo olandesi e tedesche (drop in accoglienti, riservati e decorosi), affinché non si dicesse “i cittadini non capiscono”, avevamo fatto una ricerca autoprodotta (opinioni di operatori, amministratori, medici e farmacisti e consumatori), affinché non si dicesse “nessuno le vuole”. Il sindaco, allora, insediò una commissione tecnica (ma c’era di tutto, col manuale Cencelli del pubblico e del privato sociale, incluso chi non ne sapeva nulla e nulla ne voleva sapere, e chissà quale contributo poteva mai dare…) che alla fine in modo pilatesco concluse che non se ne sapeva abbastanza. Non era vero, a livello europeo, e poi se si deve sperimentare vuol dire che non se ne sa ancora… ma da noi, è dura, ragionare così. Inoltre, tutta la retorica del “collusivo” e di “un mondo senza droghe” lasciò, allora, i consumatori di sempre sui lungofiumi di sempre, in compagnia delle pantegane di sempre.

Intanto noi continuiamo il nostro lavoro e ciclicamente ci diciamo: ma c…, accogliamo, parliamo, diamo siringhe e buoni consigli, poi – nel momento dell’assunzione, il momento clou del rischio – dobbiamo dire “prego, scusa, accomodati fuori perché qui non si può…”. Non abbiamo mai chiuso la partita, per noi restava una questione aperta, si trattava, senza se e senza ma, di completare il nostro sistema di aiuto. Né più né meno. Ma anche una questione ridiventata invisibile, per certi versi: dove la porti, dove c’è un luogo (ancora un “luogo”…) che possa ospitare l’innovazione, la domanda di cambiamento, il progresso degli interventi?

 

“Tossic park”: conflitto, spaccio, consumo e abitanti

 

Intanto, alcune condizioni maturavano. Noi, innanzitutto: più studi (la letteratura scientifica internazionale si espandeva, lo stesso EMCDDA, l’organismo della UE su droghe e dipendenze, pubblicava un bel rapporto di valutazione sulle stanze, concludendo “funzionano”), più viaggi e conoscenza, più esperienza sul campo (anche una co-gestione spuria operatori-consumatori di una stanza naturale, nell’hinterland torinese, poi chiusa dai carabinieri ma non prima di darci buoni risultati). Poi il quadro politico: centrosinistra nazionale che promette meno repressione, abrogazione della legge Fini-Giovanardi, un ministro che appoggia pubblicamente le stanze.

E a livello locale centrosinistra anche in regione, un assessorato alla sanità che promuove e insedia un Tavolo regionale sulla riduzione del danno, a cui molti di noi siedono e che può proporre e orientare le politiche. E poi, lui, “Tossic park”, il cui vero nome non mediatico è Parco Stura. Conflitto spaccio, consumo e abitanti. Una vera e propria “scena aperta della droga”: vendita, consumo visibile, senza dimora accampati, operazioni di polizia, violenza da ogni parte, due giovani africani morti nel fiume, fuggendo, consumatori pestati a bastonate da alcuni abitanti, comitati e petizioni.

“Dare un luogo”: se ne fosse fatto qualcosa cinque anni prima….. Ci diciamo: se non ora quando? Intanto, arriva l’imprevisto. Alessandro, un amico a lungo attivo con noi e nel coordinamento consumatori “In prima persona”, aveva lavorato zitto zitto con pochi amici e prodotto un video, “Le stanze dei figli”, in cui si dice cos’è una stanza, a cosa serve, perché funziona. E si documenta la condizione di consumo a Torino. Un pugno alla stomaco e una spiegazione chiara, pacata e razionale. Il video viene presentato in un teatro cittadino, sala stracolma, dibattito intenso. È un segnale: è tempo. Si crea un gruppo di associazioni (Forum Droghe, Associazione Radicale Adelaide Aglietta e Malega9, la produzione del video) che promuovono una petizione popolare: servirà ad avere diritto di tribuna in Comune, che vuol dire uno spazio in Consiglio e una conferenza stampa. Serve anche, tramite i tavoli organizzati in strada, a parlare con “la gente”: e a scoprire che molti, se ben informati, capiscono e non dissentono. Come parte la petizione, la politica si sveglia e un gruppo di consiglieri di maggioranza presenta una mozione sulle droghe che include la sperimentazione di una stanza: sulla carta, i numeri ci sono.

Se non ora quando, ci diciamo, e scattano molte iniziative: come operatori giriamo le circoscrizioni per informare e discutere, organizziamo un incontro con operatori di stanze del consumo di Barcellona e Francoforte, per informare e dare dati e evidenze; andiamo ad audizioni con i consiglieri e scriviamo, informiamo, comunichiamo. Abbiamo dalla nostra anche alcuni abitanti incazzati, che forse cominciano a capire che più che di carabinieri e polizia c’è bisogno di mediazione sociale e servizi giusti. In fondo, le stanze hanno due utenti, il consumatore che non rischia la vita e l’abitante che mitiga l’impatto con il consumo a scena aperta. La destra strepita, “scelte di morte”, con la consueta ipocrisia strillata di chi non ha argomenti razionali.

Ma non facciamo i conti con tre osti: il Partito Democratico, l’onorevole ministra Turco e il signor Costa, dell’ONU. Nel breve giro di qualche discussione in Consiglio si capisce che la mozione non ha più i numeri, la Margherita si defila. Segue una infinita serie di Consigli in cui la politica si fa indecorosa: non si vota la mozione perché, ripetutamente, alcuni fanno mancare il numero legale. Poi la ministra interviene dicendo “non si può”, con la vigente legge, ma non è vero, è una questione di interpretazione della norma, come ci dice anche un giurista non di primo pelo come Francesco Maisto, e i giochi sono più che aperti. Ma questo niet dal centro fa defilare anche il sindaco, che si ritrae. Infine – pensa te quanta paura fa una città che si rende automa! – arriva anche Antonio Costa che dirige l’agenzia ONU su droghe e narcotraffico, che scrive al sindaco una lettera aperta dicendo “non fatele”. Così anche la retorica proibizionista dell’ONU approda in città. Scriviamo al sindaco: “L’Osservatorio europeo, per altro, nel 2004 ha pubblicato un accurato studio sulle 72 stanze attive nella UE, concludendo con l’evidenza scientificamente fondata della loro utilità, sia per quanto attiene la riduzione delle overdose infauste, che per quanto riguarda il contenimento del consumo “a scena aperta”.

Di contro, Costa e le agenzie ONU non hanno mai prodotto una riga che evidenziasse, all’opposto, il loro fallimento, limitandosi ad asserzioni del tutto generiche e non verificabili. Siamo pertanto di fronte a un dilemma: credere alle decine di studi di valutazione effettuati in tutto il mondo e validati anche dall’Osservatorio europeo (cui, sia detto per inciso, tutti gli stati membri UE si riferiscono e rispondono) o fidarci delle affermazioni di Costa? La risposta dovrebbe essere semplice. Qualcuno si chiederà: ma come, non dobbiamo credere alla autorevolezza dell’ONU? Forse non tutti sanno che esistono da decenni infiniti contenziosi scientifici contro l’ONU, a livello mondiale, accusata da molti stati e da molte comunità scientifiche di essere attaccata contro ogni evidenza alla propria scelta politica di “guerra alla droga”, e ideologicamente in opposizione a ogni apertura verso politiche di riduzione del danno. La stessa Unione europea, sebbene tra molti balletti diplomatici, e nel rispetto formale delle Convenzioni internazionali, in realtà da anni sta prendendo le distanze e trovando una sua strada: tanto che, se l’ONU basa la sua politica globale su due pilastri, riduzione della domanda e riduzione dell’offerta per un “mondo senza droghe” (sic!), la UE di pilastri ne ha ufficialmente uno in più, la riduzione del danno, appunto. Anche sulle stanze del consumo, è storica la battaglia dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) contro Olanda, Germania, Svizzera, ma anche Australia, Canada e, più di recente, Brasile e Spagna: non passa anno che questi paesi non vengano censurati nei documenti ONU e non passa anno che questi paesi non riaffermino con determinazione e sulla base di evidenze le loro scelte per la salute dei propri cittadini”. Parole al vento. Tutto si blocca, gli ultimi consiglieri cominciano a cedere, mentre scrivo si profila la sparizione delle stanze dalla mozione.

Noi, abbiamo a giorni il nostro diritto di tribuna in Comune: ma cosa può valere il flebile strumento di una debole democrazia partecipativa di fronte alla potenza di un nascente PD? Qualche carta, ancora, ce l’abbiamo: la Regione, forse, l’adesione di nuovi gruppi di cittadini e associazioni. Vedremo, la morale del “provarci” resta, la dura lezione del riuscirci o no, anche. Naturalmente, ci riproviamo.

 

 

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