La mia troppa sicurezza di fronte alla droga

era paragonabile alla sua tanta paura

Quella sua fottuta paura della droga

Se Stefano avesse trovato delle persone in grado di capire e “curare” quel suo male

di vivere partendo dall’inizio, cioè dalla causa, dalla depressione che scatenava quel

suo tormentato vivere giorno dopo giorno, forse non sarebbe andata così, forse…

 

“Forse è morto Stefano!”.

“Come? …cosa stai dicendo?”.

“Sembra sia stato trovato morto…”.

“Ma che c. stai dicendo? Chi te l’ha detto?”.

“Ho appena viso Marino e mi ha detto che Elton gli ha riferito di aver ricevuto un messaggio da Ornella…”.

“E cosa c’era scritto su ‘sto cacchio di messaggio?”.

“E che ne so io… Marino mi ha detto solo…”.

Esiste un solo Stefano, conoscente comune tra me, Ernesto, Elton, Marino e Ornella, e se quel messaggio riportava della morte di Stefano, non può essere altro che Lui. Quello Stefano con il quale ho condiviso un sacco di momenti belli e meno belli; lo stesso con il quale ho avuto a volte anche discussioni accese.

Stefano, quello che ha provato una cifra di volte ad insegnarmi come si usa una telecamera, o come si dovrebbe fare un’intervista fatta come si deve, mentre io me ne stavo zitto guardandolo con sguardo interrogativo, e quando lui si rendeva conto che non avevo capito niente s’incazzava di brutto, perché diceva che non me ne importava niente di quello che s’affannava a spiegarmi, che tanto con me era solo tempo perso. In realtà non è che non me ne importasse niente, pensavo solo che visto che c’era già lui di bravo e capace, perché avrei dovuto perdere tempo anch’io per imparare qualcosa che lui già sapeva fare benissimo?! In fin dei conti mi sembrava che i compiti fossero ben spartiti: lui faceva le interviste e registrava, mentre io mi guardavo attorno alla riscoperta del mondo, puntando gli occhi su qualsiasi cosa si muovesse, incuriosito da tutto… Sì, perché anche se ci siamo conosciuti dentro, quando succedevano queste discussioni eravamo fuori dal carcere; fuori in permesso premio, ed erano le prime volte che rivedevo il mondo dal vivo dopo anni e anni di galera.

Facevamo parte tutti e due della redazione di Ristretti Orizzonti, e con la scusa di partecipare a convegni, incontri e manifestazioni, uscivamo spesso assieme dal carcere.

La prima volta che sono uscito per assistere ad un convegno, per esempio, c’era anche lui. Io ero un po’ agitato, non molto, ma quel tanto che bastava per impedirmi di capire cosa stesse realmente succedendo. Dopo otto anni e nove mesi ininterrotti di carcere, non era certo “naturale” ritrovarsi a camminare per la strada, tra macchine e pedoni, in mezzo a tutti quei rumori e quegli odori che ormai non ricordavo più.

Eravamo accompagnati da una volontaria e quando ci siamo fermati a prendere un caffè in un bar del centro, ricordo che io riuscivo a mala pena a tenere in mano la tazzina. Le mani tremavano nervosamente, dall’emozione forse, boh, non lo so… Fatto sta che non mi riusciva di tenerla ferma, quella cavolo di mano, e mancava poco che mi rovesciassi addosso il caffè. Ero in imbarazzo e mi faceva strano quel tremolio ingestibile. Così, vergognandomi un po’ di farmi vedere in quello stato dalla volontaria, chiamai Stefano e gli mostrai quello che mi stava succedendo: il piattino con la tazzina tenuto stretto nella mano e il cucchiaino che sbatteva provocando il naturale e tipico e fastidioso rumore. Lui mi guardò e dopo aver fatto un sorriso di comprensione, disse: “Che ne dici, ne prendiamo un altro?”.

Dopo quel permesso di poche ore ce ne furono molti altri: tre giorni a Belluno, altri tre a Camposampiero, altri tre in fiera per Civitas, altri due per Expo scuola, altri sei a Venezia per la Mostra del Cinema… Venezia, uno dei più bei permessi premio che io abbia mai fatto. La prima volta dopo nove anni di galera che mi sono sentito veramente libero. Libero in tutti i sensi, anche se ovviamente avevamo delle restrizioni, tipo non poter uscire dal luogo dove dormivamo dalle 23.30 alle 7.30 del mattino, non potevamo uscire dal comune di Venezia, nel viaggio sia d’andata che di ritorno non potevamo fermarci per nessun motivo, ma a noi non pesavano quei divieti e siamo riusciti a vivere quella settimana come meglio non avremmo potuto fare. Dimenticavo: abbiamo anche lavorato molto, perché in fin dei conti eravamo là per realizzare dei servizi e degli articoli per il TG2 Palazzi e per Ristretti Orizzonti.

C’erano molte cose che accomunavano me e Stefano e credo fosse anche per questo che ci trovavamo bene insieme. Avevamo fatto entrambi parecchi anni di galera, per esempio, all’interno del carcere facevamo più o meno le stesse attività, frequentavamo le stesse persone, ci piaceva più o meno la stessa musica (lui sapeva anche suonare la chitarra, mentre io non sapevo nemmeno la differenza tra chitarra e basso) ed entrambi avevamo avuto a che fare con la droga. Cioè: entrambi conoscevamo bene che cos’era l’eroina, la cocaina, il fumo e gli acidi degli anni novanta. E poi in quel periodo per me Stefano era un po’ come punto di riferimento, mi rivolgevo spesso a lui quando avevo bisogno di un consiglio, di parlare con qualcuno. E poi una cosa che piaceva tanto di lui era quel suo saper tenere una conversazione su qualsiasi argomento. Aveva un enorme bagaglio culturale, e, anche se a volte non condividevo il suo pensiero, ho sempre pensato fosse una di quelle persone che vale la pena conoscere e frequentare, semplicemente per quello che sapeva darmi.

L’unica cosa che per molto tempo non sono riuscito a capire di Stefano, però, era quella sua fottuta paura della droga. E non riuscivo a spiegarmi come mai ne avesse così tanta paura; in fin dei conti la conosceva, sapeva se e come tenerla alla larga, sapeva le conseguenze, insomma, sapeva tutto quello che c’era da sapere sull’argomento droga. Eppure avevo l’impressione che provasse per la droga, per l’eroina in particolare, la stessa paura che si può avere di fronte ad una imprevedibile catastrofe naturale.

Con il tempo, poi, mi sono reso conto che ne aveva così tanta paura proprio perché la conosceva bene. Sapeva che cos’era lui di fronte alla droga, e credo che si sentisse semplicemente e terribilmente inerme, proprio come si può sentire una persona che cade da un aeroplano senza paracadute.

Questo suo atteggiamento è stato per molto tempo motivo di discussione tra me e lui e, devo dire la verità, per me ha anche pesato molto sulla valutazione globale della sua persona. Sì, perché se da una parte lo vedevo come un punto di riferimento, dall’altra, questo suo lato debole, ai miei occhi gli faceva perdere punti e non riuscivo a sopportare quell’atteggiamento di uno che getta le armi davanti al nemico. Cavolo, la conoscevo anch’io la droga, anch’io ne ho fatto uso per un po’ di tempo, e anch’io ero arrivato a toccare il fondo a causa dell’eroina e della cocaina. Sapevo che per il mio bene era meglio tenerle alla larga, ma non ne avevo paura, non mi sentivo indifeso di fronte alla polverina; anzi, al contrario, mi sentivo forte e capace di allontanarla senza problemi. Pensavo che la sua fosse solo debolezza, e io, almeno in questo, mi sono sempre sentito più avanti rispetto a lui.

In realtà, però, poi il tempo mi ha dato torto e ho capito che non ero assolutamente più forte, e che la mia troppa sicurezza era paragonabile alla sua tanta paura. Erano solo due diversi modi di difendersi da ciò che si conosce.

 

Quell’apatia, quel senso di inadeguatezza, quell’infelicità che gli stavano addosso

 

Qualche giorno dopo la scomparsa di Stefano, qualcuno mi ha chiesto:”Ma tu che lo conoscevi bene, hai un’idea di cosa potrebbe essere successo veramente in quel bagno di quella stazione?”.

Porcamiseria, Stefano non lo vedo da più di un anno, le uniche notizie che avevo mi arrivavano tramite qualche sua lettera, o da amici comuni, come posso sapere… Ad ogni modo non ho osato rispondere, non mi sembrava il caso. È vero però che ho pensato anche ad un gesto consapevole da parte sua, perché conoscendolo mi sono reso conto che era una persona intelligentissima e colta, e ancora giovane, ma aveva paura di vivere, di sognare.

Oltre alle discussioni sulla droga, e sul fatto che non m’interessasse imparare a realizzare una buona intervista, abbiamo infatti avuto scambi di idee anche sull’argomento “sogni”.

Una sera, per esempio, mentre stavamo facendo un giro a piedi per Venezia, non so come, finimmo a parlare di desideri, di sogni, per l’appunto, e di tutto quello che avremmo voluto, ma non avevamo mai potuto fare. Parlammo e parlammo, raccontandoci del nostro passato e scambiandoci impressioni sul futuro. Dei due, quello che si lasciava più andare ero io, perché mi permettevo di sognare alla grande: “Vorrei una casa, vorrei una macchina, vorrei un lavoro tranquillo, vorrei attorno a me solo belle persone, vorrei, vorrei e vorrei…”.

Ad un certo punto, mentre io viaggiavo di sogno in sogno, immaginando di poter fare della mia vita futura un po’ quello che volevo, lui mi interruppe un po’ stizzito: “Ma come cazzo fai ad essere ancora capace di sognare…”.

“Porca miseria, Stefano, ho trent’anni, credo e spero di potermelo permettere ancora…”. Non mi diede nemmeno il tempo di finire: “Beato te. Pensa che io da tempo ormai sogno di riuscire a sognare ancora. Ma purtroppo la vita mi ha insegnato a non illudermi, a non farmi miraggi, a stare con i piedi per terra e a non guardare troppo in alto…”.

Ormai era tardi, eravamo già pronti per andare a letto e pensando che si fosse fatto prendere dalla stanchezza giornaliera, lo mandai a quel paese e mi girai dall’altra parte rimanendo in silenzio nell’attesa di addormentarmi, proiettandomi già al giorno dopo, tra cinema, giornalisti e VIP.

Fu solo qualche mese più tardi, quando io lavoravo all’esterno e rientravo in carcere la sera, e lui era fuori in affidamento ai servizi sociali, che capii, e mi resi conto che quella frase non era affatto stata buttata là a causa della stanchezza.

Mi resi conto che Stefano, quando lo assaliva la depressione, si lasciava sopraffare da quel male di vivere, da quell’apatia, da quel senso di inadeguatezza, da quell’infelicità.

 

È la testa, quella che fa più paura, la dipendenza psicologica

 

Non so in quale momento preciso ricominciò a bucarsi, e a questo punto poco importa saperlo, so solo che Stefano è stato vittima non solo della droga, e della depressione, ma anche, e forse soprattutto, di un perbenismo di una società che pensa di risolvere il problema della tossicodipendenza somministrando metadone o rinchiudendo i tossici nelle comunità, o lasciandoli marcire negli angoli nascosti delle città, o peggio ancora in galera.

Sono profondamente convinto che se Stefano avesse trovato delle persone in grado di capire e “curare” quel suo male di vivere, non partendo dalla fine, cioè non preoccupandosi prima di tutto della tossicodipendenza, ma partendo dall’inizio, dalla causa, dalla depressione che scatenava quell’inadeguatezza, quel suo tormentato vivere giorno dopo giorno… forse, e a questo punto devo sottolineare la parola forse, Stefano non sarebbe morto in quel bagno di quella stazione.

Essendo stato toccato dalla tossicodipendenza, e facendo parte di una redazione che ha affrontato spesso il problema della dipendenza, mi è successo tante volte di scontrarmi e discutere con persone convinte che drogarsi sia solo una scelta consapevole, e se uno non smette è solamente perché non vuole realmente farlo.

Penso che la maggior parte delle persone la prima volta usi la sostanza più che altro per curiosità, per fare qualcosa di diverso, per ravvivare una serata; perché in qualche modo si è predisposti, condizionati dagli ambienti, dalle persone e a volte, credo, anche dai miti della televisione.

Ma poi, se piace, se la si “capisce”, e si arriva a pensare di poterla gestire, allora si è fregati e diventa, oserei dire quasi automaticamente, una dipendenza, una malattia, fino ad arrivare al punto che non c’entra più solo lo sballo, e la roba riesce a riempire dei vuoti, a sostituire a volte addirittura persone, ad affrontare un malessere esistenziale, quello che spesso si trasforma addirittura in odio verso la vita, in depressione.

Ne ho conosciuta molta di gente che sostiene di far uso di eroina semplicemente perché gli piace, perché vuole farlo, e vorrebbero far credere agli altri che la loro sia una scelta consapevole. Ma se con ognuno ci fosse modo di approfondire, se si riuscisse ad andare oltre ad una conversazione superficiale, se se fosse in grado di non farli sentire “diversi” solo perché si fanno, allora si riuscirebbe anche a capire che tutti, anche gli irriducibili, in realtà vorrebbero uscirne, vorrebbero non esserne dipendenti.

Alla maggior parte dei tossici non è solo l’astinenza fisica a far paura, perché chi c’è passato sa che quella si potrebbe anche sopportare, è la testa quella che fa più paura… 

Tossicodipendenti e immigrati accomunati dal sentirsi rifiutati

Quella lettera ricevuta da Stefano

Una lettera forte e chiara, indirizzata a noi stranieri in gabbia:

“La galera è difficile e ti assorbe nei suoi meccanismi oziosi,

quindi non perdetevi con altre cose ma concentratevi a produrre idee

su come far ragionare la gente fuori, e coinvolgerla sulla questione stranieri”

 

di Elton Kalica

 

Dopo aver passato tutta la sera a cercare inutilmente una lettera di Stefano, alla fine scriverò questo articolo facendo riferimento solo alla mia memoria, che forse è meno disordinata della mia vita, e anche della mia cella, dove, come nelle baracche zigane, sono accampati libri, giornali, quaderni e cartoni di lettere.

In quella lettera che ho ricevuto più di un anno fa, Stefano mi diceva di essere sinceramente mortificato per la decisione presa dal Magistrato di Sorveglianza di non riconoscermi il diritto ai benefici di legge, e la cosa mi aveva fatto piacere. Lui aveva finito l’affidamento ed era fuori, libero, ma aveva seguito da vicino la mia battaglia, incrociando le dita in favore di un esito positivo, sperando anche lui di vedere aprirsi per me la possibilità di iniziare un percorso più umano di inserimento nel mondo libero. Ma purtroppo il Magistrato aveva un parere diverso sul percorso che la mia rieducazione doveva seguire, e la decisione negativa che ne seguì, mi portò a sprofondare nell’angoscia, sfiduciato e arrabbiato.

In quel periodo ricevetti parecchie lettere d’incoraggiamento, rasserenanti, però ricordo che la lettera di Stefano mi aveva colpito particolarmente. Non tanto per il dispiacere per la mia sorte che mi comunicava (tutti mi dicevano di non lasciarmi andare alla delusione, di tener duro e di sperare… in qualcosa) quanto per tutto il resto, e cioè per quello che seguiva e che non c’entrava niente con la mia sfortunata carcerazione.

Da quando Stefano è entrato a fare parte della nostra redazione avevo visto in lui una persona molto competente, sia capace di svolgere compiti tecnici nella preparazione del nostro telegiornale, sia dotata di una pregevole intelligenza, frutto della quale erano spesso gli articoli che scriveva per il giornale. Ecco, ricordo di averlo sempre guardato con gratitudine per il contributo che dava alle attività del nostro giornale e ho visto che tutte le persone che amano Ristretti Orizzonti e che vivono con passione le cose che facciamo, avevano lo stesso sentimento di riconoscenza nei suoi confronti.

Quando Stefano poi uscì dal carcere, senza dubbio eravamo felici per averlo visto riacquistare la libertà, però ricordo che in una riunione di redazione abbiamo per la prima volta costatato con dispiacere che comunque la sua uscita era una grande perdita per la redazione, e che si sarebbe sentita molto l’assenza del suo contributo. Anch’io vedevo in modo chiaro il vuoto che si era creato nelle nostre riunioni, finché con particolare piacere ho saputo che lui stava continuando a scrivere per noi, e presto mi sono ritrovato a impaginare ancora i suoi articoli. E poi ho anche ricevuto la sua lettera: “… devi sapere che fuori tira una brutta aria nei confronti di voi stranieri. La gente sta cadendo vittima dell’odio e dell’intolleranza. Devi cercare di coinvolgere tutti gli stranieri e farli lavorare su questo fronte. La galera è difficile e ti assorbe nei suoi meccanismi oziosi, quindi non perdetevi con altre cose ma concentratevi a produrre idee su come far ragionare la gente fuori, e coinvolgerla sulla questione stranieri”. Anche se è passato tanto tempo, il fotogramma di quello che Stefano mi ha scritto è rimasto stampato nella mia mente perché esprime non solo l’urgenza di fare qualcosa per cambiare la poco ospitale condizione che si sta creando intorno agli stranieri, ma è anche una dimostrazione della sua sensibilità verso le sofferenze degli uomini e le ingiustizie che una società sempre più confusa riserva ai più deboli.

 

Stefano era uno di noi, e i suoi articoli li sentivamo un po’ anche nostri

 

Quando si parla di popolazione detenuta, la prima cosa di cui si prende atto è che questa è composta per un terzo da tossicodipendenti e un altro terzo da stranieri, tratteggiando così degli aspetti importanti di quel quadro così complesso che sono le carceri di oggi. Un posto povero e affollato in cui dobbiamo convivere condividendo gli spazi e tutto ciò che abbiamo, ma soprattutto una realtà nella quale una moltitudine di persone, schiacciata spesso da una marea di problemi, condivide il desiderio di sopravvivere al proprio reato e ricostruire una vita nuova, diversa da quella precedente. Noi stranieri poi assomigliamo molto ai tossicodipendenti: in questi anni di carcerazione, vivendo a diretto contatto con persone tossicodipendenti, ho imparato a riconoscermi in loro, mi sento ugualmente rifiutato e mi accorgo quotidianamente di quanto sia difficile per tutti noi il solo vivere.

Gli stranieri sono temuti perché la situazione di clandestinità in cui si ritrovano a vivere li porta a commettere reati, i tossicodipendenti sono temuti perché, siccome la droga costa troppo, vanno a rubare per pagarsela; gli stranieri rischiano la vita nei loro viaggi di fortuna che troppo spesso finiscono in fondo al mare, i tossicodipendenti non sanno mai se la sostanza acquistata da uno sconosciuto nel buio di un parco pubblico gli farà alleviare i dolori della propria vita, o se la vita gliela toglierà; noi stranieri sempre di più siamo predestinati a finire in carcere dove incontriamo gli altri predestinati, i tossicodipendenti appunto, e insieme affrontiamo questa faticosa vita, condividendo le stesse ansie e le stesse paure.

Con il nostro giornale trattiamo spesso questioni che riguardano la tossicodipendenza e l’immigrazione, è importante allora aggiungere la nostra voce a quella degli altri mezzi di informazione, perché siamo stati e continuiamo ad essere i protagonisti di una realtà difficile e complessa, ma che in fin dei conti appartiene a questa società. E il contributo che Stefano ha dato a questo dibattito è sempre stato prezioso, basta pensare all’ultimo convegno all’interno del carcere di Padova dove Luigi Manconi, sottosegretario al Ministero della Giustizia, ha iniziato il suo intervento prendendo spunto da un articolo di Stefano. Un evento questo che ci aveva riempito il cuore di gioia perché Stefano era uno di noi, e i suoi articoli li sentivamo un po’ anche nostri, dato che le idee erano anche un prodotto di lunghe e intense discussioni di redazione: se quel giorno sono stato contento per aver sentito una persona di rilievo come Luigi Manconi citare un nostro compagno, oggi voglio ricordare quell’evento perché è stato la chiara dimostrazione che i tossicodipendenti sono soprattutto persone spesso munite di una grande dose di umanità e sensibilità, forse perché sanno bene cos’è la sofferenza.

Stefano stava male. Una pesante depressione spesso lo costringeva a ripararsi in qualche angolo silenzioso e sottrarsi al suo mondo incasinato che ormai lo vedeva sdoppiarsi tra quella persona intelligente, dall’animo sensibile che emerge dai suoi tanti scritti, e quella persona sofferente che commetteva reati per comprarsi la droga. Stefano stava male. La sua malattia non poteva essere curata in modo convenzionale, ma in Italia cercare riparo nelle sostanze stupefacenti è motivo di esclusione, di segregazione, d’intolleranza. Così Stefano non ha potuto combattere il suo malessere, non ha avuto le forze per uscire dall’autodistruzione, ma ha continuato a sprofondare e a stare sempre peggio, isolandosi da amici, parenti, famigliari. Doveva stare alle regole, ma è forse civile una regola che costringe le persone a vivere nell’illegalità e rimanere a vita schiavo delle galere e delle comunità di recupero? È forse civile una regola che costringe le persone a scappare da quel luogo dove ogni individuo dovrebbe trovare la propria espressione, come la famiglia? Penso alla storia di Stefano e mi domando: fino a quando la gente continuerà a non capire che proibire significa costringere chi sta male a usare violenza sugli altri per pagarsi la sostanza, e poi usare violenza sulla propria vita morendo negli angoli sporchi della stazione?

Non trovo più quella lettera ricevuta da Stefano, e forse non ne ho bisogno per ricordarlo. Mi basta tenere in mente le sue raccomandazioni e continuare a lavorare con l’obiettivo di stimolare nelle persone la riflessione sulla “questione stranieri”, e invitarle a mettere da parte l’odio e l’intolleranza. Inoltre lui mi farà sempre da stimolo per sostenere in redazione ogni iniziativa in materia di tossicodipendenza, poiché credo che la legalizzazione degli stupefacenti sia un grande passo di civiltà, che si deve fare in modo urgente, affinché le persone che soffrono, le persone che vivono male, non debbano più né rubare né nascondersi per farsi, ma soprattutto non debbano più condurre esistenze travagliate e morire agli angoli delle strade.

Il senso di impotenza quando se ne vanno persone come Stefano

Stefano che non ha mai nascosto la sua paura di non farcela

Ripensando a Stefano, e a quando mi parlava degli “anni di terapia

dove hanno tentato di perquisirmi cervello, cuore ed anima”

 

di Marino Occhipinti

 

“Appena esco dal carcere? Vado qualche mese in comunità, così risolvo i miei problemi con l’eroina…”. Mi ha suscitato tenerezza ascoltare con quanta spontaneità un adolescente, detenuto nel carcere per i minorenni di Treviso, ha recentemente risposto alla giornalista in un video sulla devianza giovanile girato in quella struttura.

Naturalmente spero che i buoni propositi di quel ragazzino con due peli di barba sul viso e i capelli ingellati si avverino, ma dalla droga è tutt’altro che facile liberarsi. Quando sostenevo questa tesi in redazione, Stefano mi “accusava” di avere una visione troppo “antica” sugli stupefacenti, perché “il mondo della droga è cambiato, non è più quello di 10-15 anni fa, oramai l’eroina è stata soppiantata dalla cocaina e da altre sostanze più moderne”. Ma anche ora, se penso alla droga in astratto, “vedo” l’immagine comune alla maggior parte delle persone: il tossico “da strada” che si alza la mattina con l’unico intento di procurarsi la dose (o le dosi quotidiane) per non star male. Il tossico barcollante che disturba, che chiede qualche moneta per il panino, o peggio ancora con la siringa piantata nel braccio, tutte immagini che “infastidiscono” e abbruttiscono le strade e i giardini delle nostre città. Coi tossici da eroina – lasciamo perdere i consumatori di cocaina da salotto, quelli sono altra roba, Kate Moss, Lapo Elkan e Paolo Calissano insegnano – non ci vorrebbe avere a che fare nessuno. Gli unici, o quasi, ad interessarsene, restano i loro familiari e gli “addetti ai lavori”, comprese le centinaia di comunità che spesso promettono guarigioni miracolose.

Con Osvaldo, un affermato odontotecnico di una quarantina d’anni che abitava nel mio paese, ci giocavo a calcetto. Ogni tanto ci incontravamo anche al bar, poi cominciò a saltare le partite e nel giro di qualche mese sparì. Alcuni amici comuni parlarono di un lavoro all’estero, poi lo incontrai quasi un anno dopo nello stesso bar, una settimana prima che morisse; se non mi avesse chiamato lui non l’avrei nemmeno riconosciuto. Era ormai ammalato terminale di Aids, infettato da una delle tante siringhe con le quali aveva iniziato a iniettarsi l’eroina, mi disse con un filo di voce. Sono passati quasi vent’anni e il suo corpo, gracile e debole, e soprattutto il suo viso, scarno e sofferente, di quegli ultimi giorni, sono ancora nitidi nella mia testa.

Silvia, bionda e bellissima, sempre elegante e in perfetto ordine, aveva ventidue anni. La conobbi mentre sceglievo una rivista all’edicola, in zona universitaria. Lei abitava in un quartiere periferico, ma cominciai a incontrarla nello stesso posto, senza alcun appuntamento, almeno un paio di volte a settimana. Rimasi molto colpito dalla sua sensibilità e dalla sua dolcezza, e in breve tempo diventò sempre più piacevole parlare con lei. Quando le chiesi cosa ci facesse così spesso in quella stradina così insignificante i battiti del mio cuore aumentarono, ma la risposta deluse le mie aspettative. “Marino, io mi faccio, e in questa strada vengo a comprarmi la roba…”.

Continuammo a vederci, a parlare a lungo ancora per una decina di giorni, e poi anche lei sparì. Alcuni mesi più tardi, mentre mi trovavo al lavoro, fui informato che qualcuno mi stava aspettando all’ingresso dell’ufficio. Silvia mi abbracciò: “So che ne sarai felice, e allora sono venuta per dirti che ho smesso, non mi faccio più. Vero mamma?”. Conclusi quella gelida giornata in pizzeria, sommerso dall’orgoglioso entusiasmo di Silvia e di sua madre. Quando le riaccompagnai a casa, promisi loro che ci saremmo rivisti presto.

Una domenica mattina di pochi giorni dopo ricevetti una telefonata. Era la mamma di Silvia, che disperata e piangente mi chiese di correre sulla rampa del supermercato dove era stata trovata sua figlia. Sembrava dormisse. Aveva trascorso tutta la notte al freddo, con la siringa ancora infilata nel braccio e il trucco che, oramai sciolto dalla pioggia, le colava lungo il viso…

Infine Stefano, che in redazione cercavo ogni volta che mi serviva un consiglio, o anche soltanto per sfogarmi con una persona che, oramai lo sapevo, mi avrebbe capito meglio di chiunque altro. Stefano che però mi faceva incazzare quando, forse per esorcizzare la sua debolezza, sosteneva che “l’eroina è la droga più buona del mondo”. Stefano che non ha mai nascosto la sua paura di non farcela. Stefano che però non ha mai promesso niente a nessuno. Stefano che mi faceva rabbia pensando che fuori difficilmente avrebbe resistito. Stefano che mi ha fatto star male quando sul giornale ho letto che era stato nuovamente arrestato. Stefano che mi ha fatto soffrire quando l’ho rivisto al convegno con venti chili in meno e il viso di chi la droga non l’ha dimenticata. Stefano che anche nei momenti peggiori mi ha sempre mandato un saluto. Stefano che ovunque si trovasse ha sempre continuato a scrivermi: dalla libertà, dal carcere, dalla comunità, e ogni lettera ha rappresentato un grande regalo. Stefano, che dopo essere entrato in comunità, mi ha scritto:

“Ciao Marino, i tuoi pezzi sono sempre quelli che vado a cercare tra il materiale di cui dispongo, è come un modo di mantenere un legame senza vedersi o scriversi, credo di sentire bene quando qualcosa è scritto a fior di pelle, come quando uno parla facendo intravedere almeno parte di quello che c’è dietro alla maschera che tutti un po’ portiamo.

Io sto tirando avanti come meglio posso, ho eliminato a tempo di record il metadone, sto eliminando velocemente le benzodiazepine che uso a dosaggi da neonato. Quindi sono nella classica situazione da astinenza, che conosco bene, che fisicamente sopporto meglio di tanti. Sul lato psicologico sono molto fragile, o almeno mi sento tale, tutte le sensazioni mi creano insicurezza ed imbarazzo, ma lo nascondo bene. Si dice che il porto lo fanno i marinai, e tutti questi anni di proibizionismo hanno ridotto le comunità alla stregua di succursali di galere, a livello relazionale intendo, così cerco di tirare avanti come mi viene meglio.

(…) In anni di terapia dove hanno tentato di perquisirmi cervello, cuore ed anima, so che è ingiusto, che è una violenza inaudita, l’unica cosa che mi resta è far percepire tutto il peso del mio essere ancora vivo, parlare e scrivere cercando di farlo a fior di pelle, non è poco e tu lo sai fare benissimo. (…) Anche gli aiuti, come certi farmaci, sono amari, ma dovrà arrivare il giorno giusto, quello nel quale dovremo essere noi a non tirarci indietro (io l’ho fatto varie volte per i miei casini ma riesco a tornare indietro in modo eclatante). Ieri sono venuti a trovarmi F. e P. ed ero veramente contento, anche se sono tre giorni che ho la febbre, l’astinenza e sono un po’ fuoriluogo sia quando parlo sia quando mi muovo in questo luogo di catatonici. (…) Chiudo qui che devo andare a lavorare, si fa per dire… Salutami tutti i compagni e a te un abbraccio forte”. Stefano

 

Proprio pochi giorni dopo la “scomparsa” di Stefano, ho letto che una psicologa e psicoterapeuta junghiana per 3 anni ha curato i tossicodipendenti detenuti nel carcere di Torino: li ha aiutati a uscire dalla droga con le fiabe dei fratelli Grimm. Hänsel e Gretel, Le tre piume, L’oca d’oro, Gian Porcospino e Pelle d’orso sono diventati “fiaboterapia”, ossia le chiavi per liberare sul piano psichico energie dirompenti capaci di condurre alla guarigione e alla salvezza. Non voglio ironizzare sul lavoro altrui, ma sostenere che grazie alle fiabe i tossicodipendenti dimenticano l’eroina mi pare quantomeno “fuori luogo” nei confronti di persone che, come Stefano, a causa della droga si sono fatte anni di tribolazioni, anni di galera e poi sono morte. Mi sembra fuori luogo anche nei confronti di chi la schiavitù della droga l’ha provata sulla propria pelle quotidianamente, con l’emarginazione di ogni momento e con le crisi d’astinenza, vomitando agli angoli delle strade.

A dispetto dell’incisivo slogan antidroga del dj Robbie Aniceto (“Abbasso la droga! Viva la vita! La vita è stupefacente!”), continuano a crescere i consumatori di droga. Sarebbe davvero il caso di riflettere sui metodi preventivi, educativi e sociali da adottare per non piangere, impotenti, ogni volta che se ne vanno persone come Osvaldo, Silvia, Stefano…

Stefano è stato sepolto a 250 chilometri da Padova, sulle colline romagnole. In quel paesino di 4.000 anime, chissà per quale strano segno del destino, vivono i miei genitori. “Sono stata a trovare Stefano, gli ho portato i fiori freschi da parte tua”, mi dice ogni tanto mia mamma…

 

Vite a rischio

Ho trascorso 16 anni dietro le sbarre per reati connessi alla droga

E ho visto persone forti, temerarie e coraggiose diventare

delle vere larve umane, totalmente schiave delle sostanze

 

di Dario

 

Ho conosciuto la tossicodipendenza dall’età di 15 anni, ora ne ho quarantadue. Ho trascorso sedici anni della mia esistenza dietro le sbarre per reati connessi all’uso e allo spaccio di sostanze stupefacenti e se tutto va bene devo scontarne altri quattro. Per problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti ho perso l’unico fratello che avevo, molti amici e conoscenti, e ora iniziano a morire i figli dei miei amici e coetanei. Non vorrei però che questo discorso fosse preso come un pianto, non è giusto piangere sulle proprie scelte sbagliate, chi sbaglia paga, questa è la dura ma inesorabile legge della vita, cambia solo il prezzo, in base alla fortuna soprattutto, ma anche alle disponibilità economiche, alla famiglia che uno ha o non ha alle spalle e tante altre variabili, ma il conto te lo presenta sempre la vita.

Oggi parliamo dell’ennesima vita andata irrimediabilmente perduta, oltretutto l’ennesima vita valente, ricca di talento. A Venezia quando si va a comprare l’eroina non si chiede se ti vendono qualcosa, si dice: mi salvi? E chi te la vende è messo come te!

La tossicodipendenza costituisce una delle disgrazie più feroci di questa epoca, per noi stessi, per le nostre famiglie e per tutte le persone che ci hanno incontrato nella fase acuta di questa patologia.

Fino ai trent’anni, quindi per più di dieci anni di uso di sostanze di tutti i generi, riuscivo, seppur con fatica, a smettere e a stare un periodo senza farne uso, oppure riuscivo abbastanza facilmente a prenderne una, due dosi e poi, nonostante avessi la sostanza a portata di mano, non continuare a usarla. Questo lo riscontravo anche in molti dei miei amici che ora non sono più di questo mondo. Quando si doveva smettere ci si chiudeva una settimana a casa o si andava in qualche località isolata e si tornava piano piano alla vita, e uso questo termine perché in realtà ogni volta che ci si disintossicava era veramente come rinascere. Con l’avanzare degli anni però il fisico e la psiche si indeboliscono. Ho visto persone forti, temerarie e coraggiose diventare delle vere larve umane, chiedere l’elemosina per racimolare i soldi per sopravvivere, piangere come bambini.

Ricordo l’ultima volta che ho assunto sostanze stupefacenti. Avevo smesso da poco più di un mese perché ogni tanto il fisico mi mostrava chiaramente che andare oltre significava morire. Poi una persona con la quale avevo discusso durante questo periodo di astinenza pseudo-volontaria, mi aveva fatto notare che ormai non dipendeva più dalla mia volontà e che avevo qualcosa dentro che comandava in vece mia. Io ho litigato con questo mio amico, ero ancora convinto che avrei potuto dire basta, inseguendo sempre la chimera della mia gioventù, quando con la sostanza a disposizione riuscivo a stare un certo tempo senza farne uso. Così a casa mi misi sul tavolo della cucina con a disposizione cocaina ed eroina, volevo provare e vedere, ero lucido e disintossicato, dovevo dimostrare a me stesso che potevo usarne una dose e fermarmi, così avrei potuto continuare ad autogiustificarmi. Purtroppo non appena la sostanza entrò in circolo ho sentito la delusione invadermi: tutte le mie barriere crollavano miseramente. Capii immediatamente che non avrei smesso fino alla fine della scorta che avevo, ma che era l’ultima volta.

Non ho maturato una soluzione, non ho la pretesa di indicare la strada a nessuno, perché ho visto troppe circostanze e persone così diverse tra loro, con altrettante soluzioni. Credo però di aver capito perché tanta gente ci ricasca nonostante i mille buoni propositi, sinceri, anche se poi ineluttabilmente disattesi. Nel mio caso, e credo sia lo stesso per molti, ormai non ho scelta, mi basta una sola dose e posso dire addio a tutto. Quanto invece alle ragioni che mi spingevano a far uso di sostanze, non riesco neppure a capire cosa si cela dietro questa sfida che ho rincorso con me stesso. So solo che era un continuo mettermi alla prova fino al limite ultimo, alzando sempre la posta in gioco, e voler rischiare ad ogni costo e sempre di più quello che di più caro ho, ma che mi sembra non mi appartenga, la mia vita. Senza rendermi conto che nell’inesorabile avvicinarmi al baratro portavo con me anche i miei cari e le persone amate.

A favore della legalizzazione

La verità è che amavo la droga

Ora che sono in carcere è facile dire che era tutto sbagliato,

che ero troppo innamorato della droga, che non ne valeva la pena

 

di Franco Garaffoni

 

Cosa spinge una persona a fare uso di stupefacenti, a legare la propria esistenza a doppio filo con la droga? Quali sono le motivazioni, e perché pur capendo che in funzione di una scelta, che sappiamo sbagliata e durissima, sopportiamo dei costi fisici e psicologici devastanti, non troviamo dentro noi stessi la capacità per dire: Io non sono tutto qui, deve esserci altro in me? Quante volte mi sono posto queste domande, da solo, in compagnia, davanti ad uno specchio, fissando il soffitto, e mentre pensavo avevo la cocaina che mi guardava dal tavolo di casa, dal cruscotto della mia auto, dalla tasca del mio abito. La verità è che amavo la droga, era la fidanzata che mai tradiva, l’amica fedele a cui rivolgersi nei momenti del bisogno, la porta sempre aperta per entrare nel mondo dei balocchi, della felicità, dell’onnipotenza.

Ora che sono in carcere è facile dire che era tutto sbagliato, che ero troppo innamorato della droga, che non ne valeva la pena, che la libertà è un valore assoluto, che la famiglia e i figli vengono prima di ogni cosa nella vita di un uomo, ora sono convinto di quello che dico, ma sono sicuro che sia veramente quello che penso?

Vi dico la verità, in carcere è facile fare previsioni positive, pensare di essere cambiato, di avere capito gli errori, ma rimane sempre una paura, la più dura da combattere, la paura della libertà. Una volta libero la mia vecchia fidanzata, la cocaina, sarà li ad aspettarmi, si insinuerà di nuovo nella mia testa?

Il mio punto di vista allora è uno solo: legalizziamola. Perché questo comporterebbe una assunzione di responsabilità da parte di chi la consuma, che saprebbe di avere un problema, e di poterlo affrontare a viso aperto. Del resto alcol e sigarette creano danni e dipendenza pari, se non superiori alla droga, e però si acquistano liberamente. Per una persona che fa uso di sostanze stupefacenti entrare in una farmacia per acquistare un qualsiasi tipo di droga credo che comporterebbe il rilascio delle generalità, e questo secondo me eviterebbe la possibilità di false giustificazioni con se stessi.

Eviterebbe allo stesso tempo la ricerca disperata di uno spacciatore. Ed è proprio il rapporto sistematico con lo spacciatore che inevitabilmente, col tempo, porta il consumatore a prendere in considerazione la possibilità di procurarsi la droga in modo diverso, cioè spacciandola. Così ci si abitua a una consuetudine all’illegalità in funzione di una necessità, e ci si giustifica pensando: che male faccio se non a me stesso? Dimenticando che spacciare crea vittime, crea dipendenza e prepara il terreno ad un prossimo spacciatore.

Io sono convinto che si deve legalizzarla, avendo cosi la possibilità di essere a conoscenza del problema dei cittadini che usano droghe in modo preciso, indirizzando risorse e idee su situazioni accertate. Oggi sono i media, tv e giornali che, a seconda del momento, accendono o spengono i riflettori su questa emergenza, ma nel frattempo la droga circola dappertutto, anche nelle scuole, e sono sempre più giovani i consumatori, ai quali, non riuscendo a intervenire con coraggio, stiamo preparando un futuro da tossicodipendenti e di conseguenza da criminali.

Legalizzare la droga vuol dire controllo sanitario, vuol dire assunzione di responsabilità, vuol dire evitare reati ai più deboli, vuol dire meno decessi dovuti alla cattiva qualità, vuol dire impedire a un minorenne di procurarsela facilmente, vuol dire evitare l’arricchimento di organizzazioni criminali sempre più spregiudicate e presenti sul territorio, vuol dire contare su uno Stato che si assume la responsabilità di un rapporto chiaro con i cittadini e garantisce loro sicurezza sui loro problemi.

Ricordiamoci che prevenire, con intelligenza e senza rigidità, resta pur sempre meglio che curare.

Una vita breve e sofferta, ma vissuta con intelligenza sempre vigile

La capacità di entusiasmarsi sinceramente

ma anche di sinceramente indignarsi

Uno così – capace di aiutare gli altri a trovare un senso

per la propria vita – io non l’avrei mai dato per “perso”

 

di Paolo Moresco

 

Scrivere di Stefano mi mette a disagio. Perché mi costringe a fissare – e quindi fatalmente a semplificare – pensieri e sentimenti che si agitano dentro di me in modo ancora confuso. Faccio infatti fatica a mettere insieme, e a conciliare, l’affettuoso e limpido “compagno di viaggio” che con la sua vicinanza sempre discreta, intelligente, sensibile ha arricchito e ingentilito quasi due anni della mia galera, con il naufrago di se stesso che ho ritrovato poi fuori, quando la campana della libertà era risuonata in modo troppo diverso per noi due. Io banalmente rientrato nella normalità, sia pure appesantito dagli inevitabili strascichi di una storia dura, che ti segna nel rapporto con te stesso non meno che con gli altri; lui risucchiato invece nel gorgo di una alterità sofferta e insieme ostinata, vissuta con dolorosa lucidità ma nutrita di un orgoglio che la rendeva ancor più lontana, inafferrabile.

Quand’eravamo tutti e due ospiti del “Due Palazzi” (per quasi due anni abbiamo mangiato almeno una volta al giorno insieme, o nella mia cella o nella sua) non c’è mai stato fra noi un solo momento di imbarazzato silenzio. Avevamo tante di quelle cose da dirci che, al momento di separarci, lasciavamo sempre almeno tre discorsi a metà. Quando invece dopo più di un anno me lo sono ritrovato davanti fuor di galera – libero, ma tornato schiavo dei suoi fantasmi – ho avuto la penosa sensazione che le parole mi si seccassero in gola prima ancora di dirle. Ricordo un lungo abbraccio muto, e il senso di inadeguatezza, e di vuoto, nel cercare invano in me stesso qualcosa da dire che potesse avere un senso e un peso. Per Stefano, ma anche per me.

Sapevo da un pezzo che, con la libertà, aveva ritrovato anche la tossicodipendenza. Ma ritrovarmelo lì, di fronte a me, bianco come un cencio e smagrito da far paura, con il suo sorriso – che ricordavo limpido e generoso - piegato in una smorfia amara e spaurita, mi aveva provocato una sensazione di vertigine interiore: come se, per quanto già lo sapessi, solo allora mi rendessi davvero conto che Stefano si era di nuovo perduto.

In due anni di amicizia schietta non mi aveva nascosto nulla del suo passato di “tossico”, come diceva lui con spietata franchezza. E neppure mi aveva nascosto la sua paura di cadere ancora fra le grinfie della dipendenza quando le porte della galera si sarebbero riaperte, per lui, e si sarebbe ritrovato a fare i conti con la vita. Ma io non ci avevo mai voluto credere, che Stefano fosse ancora “a rischio”. Nessuno aveva – merce rarissima ovunque, ma soprattutto in galera – la sua capacità di entusiasmarsi sinceramente ma anche di sinceramente indignarsi. E poco importa se per cose grandi o piccole, perché era vivissima in lui una vena di intransigenza morale che lo spingeva a immolarsi anche contro i mulini a vento, pur rendendosi conto perfettamente che erano solo mulini a vento.

Uno così – capace di aiutare gli altri a trovare un senso per la propria vita – io non l’avrei mai dato per “perso”. Per questo ho vissuto con sgomento, più che con delusione, la sua ultima, fatale “ricaduta”. E quello che mi rode di più, ripensando a Stefano oggi, è di non avere mai trovato il modo di dirgli che nel mio mutato atteggiamento verso di lui (l’ho rivisto diverse volte, ma senza riuscire più a trovare la spontaneità e l’intensità di un tempo) la delusione non c’entrava proprio per niente. C’entrava, semmai, il senso di inadeguatezza, di frustrante impotenza, che provavo di fronte a una tragedia che sentivo in tutta la sua gravità ma di fronte alla quale mi trovavo completamente spiazzato.

Stefano mi voleva bene, e – confidando nella sua sensibilità e intelligenza - mi consola pensare che abbia interpretato il mio disagio per quello che in effetti era: un sofferto corto circuito comunicativo, tanto più accentuato dal fatto che io avevo disperatamente bisogno di risalire, di riaggrapparmi alla vita e di sentirla ancora mia. E lui in questo, purtroppo, non poteva certo darmi una mano. Ora che non c’è più, però, vorrei poter dire a lui, e a tutte le persone che gli hanno voluto bene, che la sua vita – breve e sofferta, ma vissuta a cuore aperto e con intelligenza sempre vigile – non è trascorsa invano. Stefano ha lasciato dietro di sé una scia di grazia e di pulizia morale che mi accompagnerà per sempre; e che, oltre a me, accompagnerà tutti coloro che hanno ricevuto il dono della sua amicizia e del suo affetto.

Non siamo più capaci di pensare alla morte,

non sappiamo come “maneggiarla”

Dalla tossicodipendenza non si scappa

Possiamo solo stare accanto a chi, attraverso vari segnali,

ci comunica il suo “male di vivere”, accettando anche la nostra

incapacità di trovare soluzioni alla sofferenza

 

di Paola M.

 

Riuscire ad essere obiettivi nello scrivere qualcosa riguardo la tossicodipendenza quando ci sei passato molto vicino e hai visto troppa gente, anzi troppi compagni di percorso, prima rovinarsi e poi morire di droga, non è mai facile. Mi è stato detto che sono cinica, cattiva: io penso, ma forse sbaglio, di essere solo realista. E questo perché penso che dalla tossicodipendenza non si scappa.

Una mia amica, ora trentaseienne, tossicodipendente da “pere” a tredici anni, che ha smesso di farsi a quindici, sostiene che se sei stata tossica, anche dopo anni ogni mattina quando ti alzi dal letto devi dirti “oggi non mi faccio”. E non è assolutamente facile!

Questo vale per tante dipendenze. Ma quali possono essere considerate dipendenze? Nei paesi anglosassoni hanno coniato un termine “workalholic” per descrivere lo stakanovista. Quello che è “malato” di lavoro. Ed il lavoro non è necessariamente una cosa piacevole.

Come non lo è qualsiasi dipendenza, di qualsiasi tipo, per una persona “libera”.

Il problema quindi si sposta, secondo me, sulla capacità degli esseri umani di sentirsi liberi. Di avere il CORAGGIO di essere liberi. Perché la libertà è un “lavoro”. Bisogna continuare a faticare per mantenerla. Qualsiasi dipendenza è una forma di schiavitù, e noi viviamo in una società che ha la tendenza a rendere schiavi (e ora la schiavitù più “in voga” è il consumismo), e la capacità di annientarti, un annientamento di tipo “legale”, ma estremamente più subdolo. Quello che osservo è che anche le cose che si decide facciano bene o male, siano lecite oppure no, dipendono spesso dal periodo storico in cui si vive, dipendono dalle mode, dalla morale comune.

Stefano è morto. Io non conoscevo Stefano se non attraverso i suoi articoli. Lucidi, intelligenti, senza pietà. Stefano era una persona che voleva essere libera, e non ci riusciva. E da persona lucida e intelligente qual era se ne rendeva conto. Perché io sono convinta che dalle dipendenze non si esca a meno che una persona non abbia degli strumenti “enormi”, una gran forza personale e soprattutto una concomitanza di eventi fortunati, che vanno tutti ad incastrarsi, che entrano in gioco in quell’esatto momento, per cui ci si libera dalla schiavitù che si vive in quel preciso istante, ma senza andare a cercarsene un’altra (ce ne sono tante di “sostitutive”, dall’alcol, dagli psicofarmaci, da altro ancora). Se però da parte della persona non c’è quella spinta alla LIBERTÀ, quel voler essere assolutamente liberi, che fa in modo che non si cada preda di nuove schiavitù, di altre dipendenze, dalla droga non si uscirà mai.

Alla fine la scelta più facile sembra quella di rinunciare a pezzi di libertà in cambio dello “star bene” che ti danno le sostanze, in realtà è una scelta che a lungo andare si rivela la più difficile, ma vai a saperlo prima! Vai a sapere che poi la fatica di vivere diviene immane.

Qualcuno può osservare che non tutti diventano tossicodipendenti, pur non essendo delle persone “libere”. Vero. Forse hanno scelto un’altra schiavitù, che non fa necessariamente vivere meglio. Anzi, forse l’eroina, e voglio sottolineare che non l’ho mai provata, fa stare bene nel momento in cui uno se l’inietta, è dopo che riprende, si accentua, non ha più limiti la sofferenza.

Quando qualcuno muore, vorremmo essere razionali per non soffrire troppo. Ma è uno sforzo vano, di fronte alla morte non c’è pensiero razionale che tenga, c’è la sofferenza prima di tutto. Ma noi uomini “moderni” non siamo più capaci di pensare alla morte, e appena ci sfiora ne rimaniamo sorpresi e attoniti. Non sappiamo come “maneggiarla”.

Quando ho trovato mio marito, il padre di mia figlia, l’uomo che ho amato più di me stessa, morto, sul pavimento impersonale di una cucina di un appartamento impersonale in un condominio impersonale dove era andato a vivere dopo che ero fuggita perché non riuscivo più a reggere il suo “male di vivere”, le viscere mi si sono strappate. Un dolore lancinante, senza possibilità di scampo, senza la capacità da parte mia di accettarlo, per molti anni.

Perché di fronte alla morte siamo impotenti, davanti al male di vivere siamo impotenti, davanti alla sofferenza siamo impotenti. Vorremmo poter controllare tutto ma non ne siamo in grado, vorremmo anche “aiutare” gli altri che soffrono e che noi amiamo ad uscire dalla sofferenza. Beh, accettiamo che a volte questa impresa è impossibile. Solo accettandolo saremo in grado di stare vicini e sostenere chi, attraverso vari segnali e mezzi, ci comunica il suo “male di vivere”, senza caricarci di sensi di colpa per la nostra incapacità di “risolvere”, di trovare soluzioni alla sofferenza.

So di non essere giunta a nessuna conclusione, di non aver dato nessuna “ricetta”, ma sono queste le sole riflessioni che so fare davanti ad una persona giovane che ci ha lasciato per sempre.