Dopo la galera

 

Pagine di diario di un tossico “appartenente alla categoria dei folli”

“Che ci faccio qui?”

Un ricovero in ospedale, reparto psichiatria: ma proprio

lo psichiatra mi faceva capire che quello non era un posto per tossici

 

di Stefano Bentivogli

 

Torno a scrivere dopo questo periodo dove ho conosciuto, per scelta stranamente, l’esperienza del ricovero in un reparto di psichiatria. Si è trattato di dodici giorni a diretto contatto con il mio appartenere alla categoria dei folli ed anche di diretto contatto con i casi quali i T.S.O., di cui mi ero interessato ma che in realtà non avevo visto mai così da vicino.

In quel periodo mi sono tornati in mente i racconti di Paolo, quelli legati al suo arresto ed al ricovero in stato di custodia cautelare, ed è stato “piacevole” trovarmi quasi con lui al fianco nell’affrontare questo periodo. Un T.S.O. ce l’avevo proprio in stanza, è arrivato di sera portato dalla polizia e gli infermieri dell’ambulanza, sembrava tranquillo, fino a quando gli hanno offerto la terapia.

Sosteneva che gli infermieri volevano ucciderlo, che gli mettevano la droga dappertutto, anche un tizio, che non ho capito se era un amico od un parente, raccontava che da quando aveva accettato la terapia si era ammalato ed era morto. Improvvisamente sono usciti da una stanza sette infermieri coi guanti di lattice, un fare spedito simile a quello di chi si deve dare coraggio per affrontare senza esitazioni una situazione difficile: gli sono saltati addosso e lo hanno siringato.

Hanno atteso che l’iniezione facesse effetto come nelle mischie del rugby, poi lo hanno trascinato in una stanza liscia, materasso per terra e nient’altro. Ovviamente è stato poi messo in camera con me ed un altro che soffriva di “anssia e angossia”, come diceva lui, tanto che vomitava sempre e piangeva a ripetizione così, senza preavviso, senza motivo apparente.

Checco (mister T.S.O.), era talmente imbottito che quando di notte tentava di alzarsi per andare a pisciare, finito il periodo di isolamento, rimaneva davanti al letto piegato sulle ginocchia, dondolava per alcuni secondi cercando di muovere qualche passo, ed inesorabilmente si pisciava addosso. Finché decisero di abbassargli un po’ il dosaggio di psicofarmaci mettendolo in condizione di sembrare quasi vivente ed, ogni tanto, di interagire coi suoi simili. L’orario della terapia era diventato una scenetta tragicomica: “Checco la prendi la terapia?” “Dai che lo sai come va a finire!” “Dai che sennò ci tocca farti la puntura!”. Le prime volte faceva resistenza, coi giorni che passavano aveva imparato che dopo il rifiuto del bicchiere con le gocce gli conveniva girarsi di culo ed aspettare piagnucolando che lo trafiggessero.

Checco proprio era un caso di trattamento coatto, era gentile ed educato con gli infermieri, ma loro lo volevano uccidere e gli mettevano la droga nella colazione quindi doveva andarsene in qualsiasi modo. Una sera lo vedo trafficare nel nostro armadio comune, durante la notte si alzava continuamente per sistemare i bagagli finché, alle prime luci dell’alba lo vedo partire con due valige, la sua e la mia. Gli vado dietro pretendendo che mi restituisca i miei quattro stracci, gli unici che avevo d’altronde, e lui veramente dispiaciuto si scusava e cercava di capire cosa poteva portarsi dietro e cosa no, fino a scoprire che si era messo la mia camicia ed il mio maglione, che la sorella gli aveva portato via tutti i vestiti tranne il pigiama e che con quello uscire era proprio un gran casino… senza contare che gli infermieri lo attendevano prima della porta blindata.

La sera dopo aveva organizzato meglio la fuga, aveva rimediato i vestiti elemosinando tra noi matti, io gli avevo regalato anche il mio berretto di lana, alle tre di notte si alza vestito di tutto punto, valigetta piena di niente o quasi, berretto in testa e ciabatte ai piedi: “Scusate per il disturbo fioi, mi no ghe a fasso più, vago casa prima che i me copa, grassie de tuto e dea compagnia, vago prima che s’incorse che no’ghe so pi”. È arrivato alla porta blindata, gli infermieri dormivano come al solito, tanto che è rimasto lì fino al mattino, berretto, ciabatte e valigetta, sperando che qualcuno aprisse la porta e lui, senza essere notato, potesse tornarsene a casa.

Insomma ho conosciuto un sacco di gente interessante ed il più antipatico era sicuramente lo psichiatra che mi seguiva. Mi faceva continuamente capire che quello non era un posto per tossici, per me i reparti erano altri, anche se per la depressione stavo letteralmente andando in malora. Ora sto meglio, mangio e dormo quasi con regolarità, sto sperimentando nuovi farmaci e chissà di non aver fatto qualche passo in avanti.

Salvare anche chi non ce la fa a smettere

Comprendere l’incomprensibile

Questa è la vera contraddizione degli operatori sociali, perché

“vedere un altro star male ti fa star male, ma non ti fa capire il suo dolore”

 

di Cecco Bellosi

coordinatore delle comunità Il Gabbiano onlus

 

Dice Jean-Claude Izzo in Chourmo: “…Sbagliavo, a voler troppo temporeggiare, mediare. A voler comprendere troppo l’incomprensibile. La miseria e la disperazione”. Al solito, lo scrittore dice meglio in una frase delle analisi e delle diagnosi di tecnici ed esperti. La disperazione non si può comprendere, ma non si riesce nemmeno a descrivere.

È troppo lontana e coinvolgente. Vedere un altro star male ti fa star male, ma non ti fa capire il suo dolore. Come narra Fabrizio De André: “Il dolore degli altri è un dolore a metà”.

Questa è la vera contraddizione degli operatori sociali: comprendere l’incomprensibile.

Stefano era arrivato da noi un anno fa, con convinzione. Ma anche in una misura restrittiva, gli arresti domiciliari.

Nonostante questa carenza di spazio, ha affrontato la nuova realtà con impegno e determinazione. Senza rinunciare alla sua capacità critica. Riconoscendo di essere arrivato in una comunità diversa, sapeva però cogliere le residue tracce da istituzione totale che attraversano anche un’esperienza che si vuole aperta e rispettosa dei diritti delle persone.

Per noi, per me, Stefano è stato prezioso, non solo sul piano della relazione, ma anche per la competenza che sapeva mettere in campo. Ci rimproverava di non avere sempre la necessaria determinazione nella difesa degli ultimi. E aveva ragione.

Poi lo hanno arrestato per una delle tante assurdità presenti nella fiorente legislazione sulla sicurezza degli ultimi anni: la contraddizione tra la legge Cirielli e la Fini-Giovanardi sulla recidiva. Il legame con lui era ormai consolidato, per cui abbiamo continuato a vederci anche in carcere, fino a quando, all’inizio dell’estate, è uscito in affidamento.

Con qualche spazio in più rispetto a prima.

E con molte idee nella testa, tra cui quella di cominciare a portare un contributo più strutturato alla nostra attività. In altri termini, a lavorare con noi.

Ricordo come una delle cose più belle la sua partecipazione al dibattito sull’ergastolo e sulla necessità civile di abolirlo, in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Annino Mele. Diceva con un sorriso convinto che queste erano le cose che bisognava fare.

L’ultimo sorriso che ho visto sul suo volto.

A ottobre ha infatti cominciato a cadere in uno stato di depressione. Una depressione cupa e disperata, che non riusciva a trovare sollievo nella possibilità di fare delle cose in cui credeva. Una disperazione che ti faceva disperare.

Voleva andarsene, senza meta, con quel fardello addosso: per due volte l’ho convinto a rimanere. E, dopo, non so se sia stata la cosa giusta. Anche se, in questi casi, nessuno sa veramente se esiste la cosa giusta.

Se ne è andato quella sera di fine ottobre, dopo aver lasciato il gruppo. E se ne è andato per sempre. Lasciandoci attoniti. Con un dolore diffuso, per lui, per la sua famiglia, per noi. Che, più provati, abbiamo dovuto riprendere la fatica della quotidianità.

Nei giorni scorsi, un ospite della nostra comunità è stato scarcerato da una Camera di consiglio segnata da un sussulto di coscienza civile. Quell’uomo era stato arrestato perché, di fronte a uno sfratto esecutivo nei confronti della sua famiglia, si era arrampicato su una gru a oltre cinquanta metri di altezza, fino all’ottenimento di una abitazione.

La Camera di consiglio lo ha liberato riconoscendo che ha agito in uno stato di necessità e che la comunità ha fatto bene a sostenerlo e ad accompagnarlo in questa iniziativa, a evitare conseguenze drammatiche. Ecco, credo che questa cosa sarebbe piaciuta a Stefano. E che gli avrebbe strappato, di nuovo, un sorriso.

Mi manchi tanto caro amico te ne sei andato e non c’è stato nemmeno il tempo di salutarci.

Tu Stefano che hai sempre avuto un occhio attento per tutti noi, e forse un po’ meno per te stesso, la tua presenza ha accompagnato questo nostro cammino alla ricerca di un obbiettivo comune di una vita libera, ora la tua libertà, seppur tragica l’hai raggiunta; ma nelle nostre menti e nei nostri cuori tu sei e sarai sempre presente, accompagnaci ancora Stefano un abbraccio…

 

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