Sprigionare gli affetti

 

"Semplice trasferimento ministeriale"

 

Ma quel trasferimento per un detenuto può significare ricominciare da capo in quel perfido gioco che è la scalata alla libertà, dove se ti spostano in un altro carcere torni indietro di tante caselle e puoi ritrovarti a non fare nemmeno i colloqui

 

di Ilir Ceka

 

È venerdì mattina e io mi sono svegliato presto, visto che questo giorno deve essere diverso per me. La sera, assieme ai paesani detenuti nello stesso piano, abbiamo festeggiato quel tanto che ti permettono le regole del carcere. La notte ho dormito poco. Tutta la mattina rimango ad aspettare, pieno di ansia, che l’agente mi chiami. L’orologio segna le 11 quando finalmente sento pronunciare il mio nome, seguito da un "preparati per il colloquio".

Sono già pronto, ma mi do un’ultima sistemata ai capelli guardandomi allo specchio, poi prendo la borsa e, facendo le scale di corsa in un batter d’occhio sono giù alla rotonda. Anche lì aspetto quei soliti dieci minuti prima di sentir chiamare di nuovo il mio nome. Poi corro via nella sala d’attesa. Appunto, l’attesa, un’altra lunga, interminabile attesa. Questa volta più di dieci minuti. Fortunatamente è l’ultima fermata. Difficile descrivere l’ansia che ti assale quando aspetti di incontrare le persone più care, quelle che ami e che non puoi vedere, toccare, baciare.

Finalmente urlano il mio nome di nuovo e questa è la volta buona. Passo nel corridoio e mi guidano dentro una sala piccola con una piccola tavola e delle sedie - una delle poche buone cose di San Vittore è quella di essere sensibili quando vedono dei bambini, e infatti ti assegnano una stanza singola per rendere il colloquio meno drammatico. Ringrazio col pensiero e vado a sedermi. Dopo pochi minuti, si apre di nuovo la porta e vedo entrare mia moglie, che tiene per mano una bambina di circa tre anni. È tutta impaurita e non capisce ancora dove si trova e chi è quest’uomo, cioè io, suo padre che non vede da due anni e quindi, praticamente, che non ha mai conosciuto.

 

Cerco di familiarizzare con mia figlia, accompagnato dalla paura che il tempo a disposizione finisca da un momento all’altro

La sua mamma le dice "vai da tuo papà" spingendola. Lei, imbarazzata, si muove lentamente nella mia direzione. La prendo tra le braccia, e si vede che è un amore "a comando". Comunque dopo averla riempita di baci e lacrime mi siedo, senza mollare la mia bambina che rimane seduta su un mio ginocchio. Cerco così di familiarizzare il più possibile con mia figlia, accompagnato dalla paura che il tempo a disposizione finisca da un momento all’altro.

Avevo portato con me dell’aranciata e dei biscotti, tanto per non fare annoiare la piccola, e noto che se li divora. Ne approfitto per parlare con mia moglie, che non vedo da altrettanto tempo. Dopo venti minuti di parole e racconti sento che il braccio destro mi si appesantisce, la bambina si è addormentata.

Poverina. Si è svegliata alle sei di mattina per venire qui e si è fatta due ore di fila per poter entrare in carcere, e una volta arrivata da me non riesce più nemmeno a stare sveglia. Mentre per me è stato il più bel regalo che mi poteva fare. Non ci poteva essere gioia più grande che vedere la mia creatura addormentarsi in braccio a me. Per la prima volta dopo due anni. Sentire il suo respiro regolare scaldarmi la faccia è stata un’esperienza irresistibile. L’avevo lasciata che aveva appena un anno e realizzo soltanto in quel momento che avevo persino dimenticato quanto era bello averla tra le braccia mentre dorme tranquilla e sicura, perché sa che ha suo padre vicino.

Quando ero un uomo libero, mia figlia si addormentava solo se la mettevo stesa sulla mia pancia, mentre in braccio alla mamma iniziava a scalciare. Che belli e tristi questi ricordi! Termina l’ora di colloquio consentita dal regolamento. Prendo la bambina, la sistemo piano tra le braccia di sua madre per non svegliarla. L’agente mi mostra il suo orologio per dirmi di affrettarmi. Bacio per l’ultima volta mia moglie e poi anche la guancia della piccola. Con le lacrime negli occhi prendo la strada della sezione senza neppure sapere quando sarà il prossimo colloquio. Entro in cella e dopo aver raccontato tutto al mio compagno mi siedo sul letto e guardo felice le foto della bambina che ho attaccato sul muro. Dopo un anno e mezzo di buio finalmente sono riuscito a passare una bella giornata dentro a queste maledette mura.

 

Ogni tanto al telefono viene a parlare mia figlia, e mi chiede sempre quando vado a casa

Lunedì mattina, tre giorni dopo, ore sei, sento l’agente che girando la chiave mi chiama per nome e mi dice di preparare i vestiti, che mi trasferiscono. Io, ancora intorpidito, gli chiedo di ripeterlo sperando di aver capito male, ma lui conferma: "Prepara i vestiti perché te ne vai in un altro carcere: semplice trasferimento ministeriale".

Semplice trasferimento ministeriale, si poteva almeno risparmiare il sarcasmo alle sei di mattina. Non stavo più capendo niente, come se mi fosse caduto il cielo sulla testa. Dicono tutti che San Vittore è un carcere da cui bisogna andarsene prima possibile, però io non me ne volevo andare. Il motivo era semplice: perdevo di nuovo mia figlia e chissà quando l’avrei rivista.

Dopo mezz’ora arriva l’agente ad aprirmi la porta, prendo i sacchi con i vestiti e scendo a pian terreno, poi attraverso il tunnel sotterraneo e arrivo nella sala dei partenti. Tante volte sono passato da quel tunnel, ma non so perché questa mattina mi sembra più brutto del solito, il suo colore giallo si è trasformato in qualcosa di sporco, e l’umidità mi fa rabbrividire come se fosse una scossa elettrica.

Adesso sono qui a Padova da 14 mesi. A mia moglie, che si trova in detenzione domiciliare, il giudice non ha più concesso il permesso di venire a colloquio, e sono 14 mesi che non vedo più nemmeno mia figlia. Continuo a non capire perché a San Vittore potevo fare i colloqui e a Padova no. Si predica sempre che le istituzioni devono fare in modo che i detenuti mantengano saldi gli affetti con i famigliari, ma come si fa a conservare questi rapporti quando i famigliari non li possiamo neanche vedere, toccare, baciare?

 

Porti pazienza, mi dicono. Sì, ma si tratta di mia figlia e l’attesa è sempre più insopportabile

Ma fare venire mia moglie e mia figlia qui da Milano non è l’unica soluzione. Potrei chiedere qualche permesso premio. Mi sono comportato bene e quindi potrei andare io stesso a Milano, a casa mia. Secondo la legge sono nei termini per poter chiedere i permessi premio già da 10 mesi, ma qui a Padova manca personale, e il giudice fatica a decidere se gli operatori non comunicano "l’osservazione inframuraria". Così mi tocca aspettare finché gli operatori del carcere, quei pochi che ancora esistono, riescono a reddare e trasmettere la relazione, la sintesi del mio comportamento in carcere. Ho cercato di spiegare a qualcuno la mia necessità di andare un giorno a vedere mia figlia. Mi hanno detto che devo aspettare altri sei mesi. Porti pazienza, mi dicono. Sì, ma si tratta di mia figlia e l’attesa è sempre più insopportabile. Solo io so quanto ho sofferto tre mesi fa, quando l’hanno operata.

Nell’attesa della telefonata di mia moglie per sapere come era andata l’operazione, stavo impazzendo. E io, che non potevo andare a vederla! Grazie al cielo è andato tutto bene, e prego Dio che non succeda più, ma del resto siamo abituati a soffrire in silenzio. Ogni tanto al telefono viene a parlare anche lei, e mi chiede sempre quando vada o casa, e se ci andrò almeno a Natale. Un giorno volevo dirle che non posso andarci perché manca una carta nel mio fascicolo, ma non capirebbe, non capisco io stesso la burocrazia, figuriamoci una bambina. Finisco sempre per rassicurarla che andrò presto, ma fin quando dureranno le mie bugie? Tante domande ho fatto a me stesso in questi anni di prigione, ma questa domanda mi sta più a cuore di tutte, e spero che mi arrivi prima possibile la data della liberazione, perché non voglio perdermi l’ultimo treno che posso prendere per mantenere ancora unita la mia famiglia. Sempre se Dio e gli operatori carcerari saranno comprensivi nei miei confronti, dandomi la possibilità di incontrare di nuovo le due persone più care che ho. Mia moglie e mia figlia.

 

 

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