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"Un ragazzino, avrà avuto 14 anni, ci ha chiesto dei libri di favole"

 

I ragazzi che qualche volta non conoscono le favole sono quelli del minorile di Casal del Marmo: qualcuno un’infanzia non l’ha mai avuta, qualcuno il carcere lo conosce così bene che non ne ha neppure più paura

 

"Una stupenda donna con i capelli da bambola che si chiama Freda", così i ragazzi dell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo parlano di lei, la mitica Freda, che dal lontano 1957 si occupa di loro, prima come giudice dei minori, poi come volontaria che ha inventato il giornale Garçon. E siccome Garçon è un giornale straordinario per freschezza, vivacità e capacità di farci capire il mondo degli adolescenti e i loro disagi, abbiamo deciso di incontrare a Roma e  intervistare Freda e la sua squadra di giovani volontarie: Isabella e Sara laureate in giurisprudenza, Giuliana assistente sociale, Marta educatrice, Francesca artista, Enza e Maria Domenica aspiranti giornaliste, amiche sincere ed affiatate, tutte accomunate dall’entusiasmo per questa esperienza.

 

Noi lasciamo libero sfogo ai sentimenti

 

Ci raccontate come è nato Garçon e come si lavora in redazione?

Freda: Garçon è nato tanti anni fa semplicemente perché ci siamo accorti che i ragazzi avevano bisogno di parlare. Loro parlavano con me in quanto giudice del tribunale dei minori, parlavano con altri che collaboravano con me, però noi abbiamo detto che questa voce doveva andare fuori.

Isabella: Quanto al lavoro in redazione, noi ci ritroviamo ogni sabato mattina con loro, e sono mattinate interrotte spesso e volentieri da colloqui, da visite mediche, da pause "forzate", perché nel momento in cui sono un po’ tutti concentrati uno urla "pausa!" ed è finita, quindi sono giornate un po’ "frastagliate" e questo pesa sulla concentrazione, è molto faticoso, ci vuole tempo per carburare un po’. Poi nel momento in cui uno riesce a prenderci la mano viene distratto da qualcosa. Il nostro compito, il nostro desiderio è quello di stimolare un po’ nelle loro menti delle idee. Creare un momento tutto loro dove pensare. Pensare ai temi che di solito è la Freda a proporci, quindi ogni ragazzo ha un quadernone e ogni sabato sviluppa un argomento, e a volte lo fanno rispondendo a delle domande, a volte preferiscono scrivere in maniera sciolta senza una scaletta. Succede anche che proprio non gli piace il tema, quindi ci dicono chiaramente che preferiscono sceglierne un altro.

Sara: La scrittura su questi quadernoni avviene così: ci sono tre tavoli, uno dove ci sta Freda che di solito prende i ragazzi che hanno più difficoltà. Ad esempio l’anno scorso ha fatto un lavoro enorme con  due ragazzi cinesi, e alla fine è riuscita a far scrivere loro degli articoli. Noi ci sediamo negli altri due tavoli in mezzo a due ragazzi, e li aiutiamo a sviluppare l’argomento scelto. Le idee sono dei ragazzi e noi diamo una mano solo ad arricchirle e a scrivere correttamente. Ci sono quelli che hanno bisogno anche di un aiuto sulla grammatica, sulla forma. Sono pochi i ragazzi che sono autonomi sotto questo punto di vista…

Freda: Poi non tutti e non sempre se la sentono di fare questo lavoro in redazione, e allora se lo portano in cella e lo riportano la volta successiva. A volte mi dicono "A Freda, oggi non me va proprio de scrive’. Tu ci schiavizzi con ‘sto scrivete, scrivete, scrivete", oppure "Adesso mi fumo una sigaretta così mi viene l’idea".

Enza: C’è un clima molto bello, anche se uno è nuovo si inserisce facilmente, gli altri ragazzi lo chiamano e gli dicono "Va’ dalla Freda, perché là si sta bene".

Freda: Quando si tratta poi di pubblicare sui giornali le loro testimonianze, i ragazzi non fanno problemi, non hanno paura, anzi vogliono proprio pubblicarli. Qualcosa tagliamo noi, ma io molte espressioni le lascio, perché fanno parte della loro spontaneità… Noi lasciamo dare libero sfogo ai sentimenti, qualche volta non tagliamo neppure qualche parolaccia.

Giuliana: Ecco, finora però abbiamo parlato solo del sabato mattina, che è il giorno della sezione maschile, ma il mercoledì pomeriggio ci sono le ragazze, che sono molte meno come numero. La nostra attività è separata, con dei malumori anche, perché altre attività sono invece in comune.

 

È molto bello stare con i ragazzi, ti ripaga degli sforzi

 

Come mai maschi e femmine in redazione sono separati?

Freda: In realtà non abbiamo ancora capito il vero motivo, dal momento che in alcune attività la presenza è mista. Prima avevo la possibilità di avere un gruppo misto, perché mi interessa molto che lo stesso argomento venga affrontato dalle donne e dai maschi, visto che non era più possibile ho creato il famoso "salotto del mercoledì", frequentato solo da elementi femminili in cui si discuteva su un argomento di attualità. Ciascuna ragazza esprimeva la sua opinione in proposito e poi si passava alla scrittura delle varie opinioni espresse. Venendo a mancare l’elemento femminile un po’ più acculturato, con la sola presenza delle nomadi alternanti sono stata costretta a chiudere il salotto. Al sabato mattina ho aperto una specie di bar: Ritrovamoce o Bar dello Sport. C’è appunto scritto su Garçon "si è aperto questo bar in cui ci sono tutti omini intelligenti e seri", perché purtroppo non è possibile avere personale femminile. In questo bar si servono solo certe cose, quelle previste dal nuovo regolamento interno alla struttura, per non incorrere in sanzioni.

Sara: Quando il clima in redazione è difficile, ognuno di noi ha dei momenti di crisi, ma poi in realtà ci facciamo forza a vicenda e continuiamo, perché comunque è molto bello stare con i ragazzi, ti ripaga degli sforzi; spesso quando usciamo ci sentiamo stanche, con la testa strapiena di pensieri, ma allo stesso tempo arricchite e sempre più consapevoli. E poi è così bello quando esce un numero nuovo di Garçon vederli cercare i propri  articoli curiosi di vedere l’effetto che fa leggere il proprio nome e il proprio scritto su un giornale, e confrontarsi ironicamente tra loro.

Freda:  I ragazzi dicono che venendo in redazione stanno "fuori dal carcere". È un momento in cui, prima di tutto, hanno libertà di espressione. Infatti, se arriva qualche agente e sbircia sul quaderno, il ragazzo lo chiude, assolutamente non lo vuole far vedere, perché con quello che ha scritto, vuole significare anche l’insofferenza al sistema che, tuttavia, non può essere messo in discussione.

 

La comunità paradossalmente ai loro occhi è diventata più severa del carcere

Dai dati che conosciamo noi, nei minorili stanno rimanendo solo gli stranieri, o quanto meno quelli che non riescono ad avere le misure alternative…

 

Freda: Da noi però ultimamente sono quasi tutti italiani, abbiamo un ritorno di italiani, che scontano condanne vecchie… E c’è da dire anche che i Tribunali sono diventati molto più severi. Poi parecchi ragazzi ritornano… Quello che stiamo osservando proprio in quest’ultimo periodo è che si tende a mandare il ragazzo nelle comunità, e per il ragazzo la comunità è sinonimo di libertà, quindi lui accetta subito perché si tratta di uscire dal carcere. Dopo pochi giorni, però, te lo ritrovi in carcere, perché la comunità paradossalmente ai loro occhi è diventata più severa del carcere.

Isabella: Di fondamentale importanza per noi (ma è l’opinione di semplice volontarie!!) è la consapevolezza dei ragazzi nel momento in cui danno il proprio consenso per andare in comunità, perché questo significa non solo uscire dal carcere, ma prendersi un impegno ben preciso, significa fare un fondamentale passo in avanti nella loro evoluzione, nel miglioramento della loro personalità. Di fatto talvolta si trovano a seguire un programma ai loro occhi piuttosto rigido: sveglia presto la mattina, fare le pulizie, avere solo dieci sigarette al giorno… cioè, avere regole a cui non sono per niente abituati, ed è veramente importante che ci si abituino, perché crediamo che imparare a rispettare delle regole giuste sia il primo passo per acquisire un corretto comportamento civile. Conta molto, però, che siano loro a scegliere dopo aver capito.

 

La comunità è un passo importantissimo, ma deve essere fatto al momento giusto

 

Ma non c’è anche un problema di rigidità delle comunità?

Freda: In effetti in carcere sei contenuto, perché ci sono delle mura, delle sbarre che ti contengono. Nella comunità invece ci sono più che altro delle regole precise, allora il ragazzo in carcere fa bene o male, ma comunque fa a modo suo, mentre lì no. Lì per un periodo di tempo devi stare sotto controllo continuo, non puoi avere contatti con l’esterno, e poi c’è il fatto allettante della porta che puoi aprire e andartene via…

Giuliana: La comunità è un passo che secondo noi è importantissimo, ma deve essere fatto al momento giusto, e invece qualche volta i ragazzi lo fanno in modo prematuro… bisogna insegnare loro la gestione del tempo, là tutto è molto scandito, e a questo i ragazzi non sono preparati. Forse manca una fase intermedia, di preparazione alla comunità.

Isabella: Proprio oggi è tornato in redazione un ragazzo nord-africano che è scappato dalla comunità ed è rientrato in carcere, e c’ha detto "La comunità è per chi ha già deciso di cambiare vita", l’ha detto lui stesso, poiché se uno non fa questa scelta non c’è comunità che tenga. Per fortuna molti ragazzi la scelta di cambiare vita la fanno e la portano a termine. Noi frequentiamo la comunità di Padre Gaetano, il cappellano di Casal del Marmo. Presso di lui vivono ragazzi sottoposti a misure alternative o comunque soggetti a misure penali: alcuni di loro sono lì da due- tre anni, oggi lavorano, studiano, stanno seguendo un percorso che li sta portando piano piano verso la piena autonomia.

 

Noi facciamo scuola, ma loro non se ne accorgono

 

Voi avete un’idea di come hanno vissuto la loro esperienza scolastica questi ragazzi, e se la scuola ha capito qualcosa del disagio che forse vivevano, o se invece li ha messi da parte perché erano un peso?

Giuliana: I ragazzi con la scuola hanno avuto una carriera "abbandonica", cioè quasi tutti hanno abbandonato gli studi molto presto, però oltre alla scuola c’è anche la famiglia, nel senso che molti dei genitori di questi ragazzi non gli hanno mai trasmesso l’importanza della scuola. C’è un ragazzo, per esempio, che ha abbandonato la scuola molto piccolo: oltre al fatto che la scuola non l’ha mai più riacciuffato, la famiglia non gli ha neppure mai detto "Guarda che devi andare a scuola". Molto spesso c’è l’incontro di questi due fattori, la famiglia che non ti spinge e la scuola che non ti chiama.

Freda: Poi c’è anche un altro fattore che secondo me è basilare: i nostri ragazzi, che provengono da tutte queste situazioni difficili, che non è solamente la famiglia, ma anche l’ambiente rionale e tutto il resto, non vogliono la scuola cattedratica, la scuola deve essere qualcosa di più occasionale, e allora così è più facile che rispondano positivamente. Ma se tu ti metti lì e dici "Adesso facciamo il dettatino", questi ti dicono assolutamente di no.

Francesca: Noi in un certo senso facciamo scuola, ma loro non se ne accorgono neppure. I ragazzi stranieri, per esempio, prima scrivono qualcosa nella loro lingua, poi assieme a noi lo traducono, con i vocabolari, cercando di capire quello che volevano dire, dopo di che si pubblicano nel giornalino le due versioni, e intanto il ragazzo impara.

 

Riuscite a coinvolgere anche i ragazzi Rom, o avete qualche difficoltà con loro?

Enza: Al femminile sono quasi tutte rom, per cui dire femminile equivale quasi a dire rom. A volte sono proprio loro a contestare nei loro scritti le leggi tradizionali, e quando stanno in carcere si vestono, si truccano, vanno cercando di imitare le "gagé". Loro la volontà ce l’hanno, ovvio che abbiamo delle difficoltà perché sono straniere, talvolta analfabete.

Freda: Certo che non possiamo metterle davanti ad un articolo, ma io parto sempre col chiedere di raccontarsi, allora una inizia a dire la sua storia e magari scrive "Io ho 89" per dire che è nata nel 1989, allora si corregge la frase e le si insegna come va scritto. Non c’è riluttanza, c’è desiderio di imparare, anzi, quando c’erano anche le italiane, loro cercavano di mettersi a livello loro, anche se gradualmente…

 

Voi avete contatti con le famiglie dei ragazzi? Siete al corrente del rapporto tra loro e le famiglie?

Giuliana: Vi racconto di un caso in particolare per farvi capire quanto sia da noi cercato e voluto il rapporto con le famiglie, che a volte si verifica, per caso, mai come prassi. Un ragazzo una volta uscito aveva fatto un incidente, nel corso di un’ennesima rapina, come ormai era sua norma di vita. Andandolo a trovare in ospedale ci è capitato di incontrare il mondo che gli gira attorno, in particolare la madre, e là abbiamo capito di lui tante cose. Noi certo ci auguriamo che ci sia data la possibilità almeno di conoscere il previssuto di ogni ragazzo che ci viene affidato.

Marta: C’è un altro episodio che vorrei aggiungere, per spiegare che spesso questi ragazzi non hanno avuto un’infanzia vera. Una volta c’era un ragazzino, che avrà avuto 14 anni, era a messa seduto vicino a me e io gli ho domandato se aveva bisogno di qualcosa, e lui mi ha chiesto dei libri di favole. Questo episodio mi è rimasto impresso! Allora glieli abbiamo presi, e prima di portarglieli glieli abbiamo ricoperti, per evitare che lo prendessero in giro, perché lui ha chiesto proprio Cenerentola e la Sirenetta.

Freda: Però noi non sappiamo come l’istituzione prenda questa conoscenza diretta da parte nostra dei genitori, e della storia di ciascun ospite. Il nostro augurio è che in futuro possa aumentare la collaborazione di tutte le figure professionali che lavorano in questo istituto, agenti, educatori e volontari. In fondo operiamo tutti per lo stesso obiettivo e una maggiore collaborazione e comprensione tra tutti noi porterebbe un beneficio generale, ma comunque stiamo sulla strada buona...

 

Cosa succede negli IPM dal punto di vista della salute? E l’uso degli psicofarmaci è massiccio come nelle carceri per adulti?

Isabella: Psicofarmaci proprio non sappiamo davvero, certo è che la terapia è una costante, la senti nominare sempre. C’è anche chi un giorno non va a giocare a pallone perché dice di avere il "riposo terapeutico". Ci fai caso perché la parola riposo terapeutico stona un po’ se a dirla è un ragazzo di 18 anni, solitamente vivace, iperattivo, simpatico, con la battuta sempre pronta!!

 

E l’assistenza sanitaria com’è?

Marta: Per quel che vediamo noi buona. C’è un medico dell’istituto, il dentista, sì… l’assistenza sanitaria funziona abbastanza. E a proposito del dentista, vi racconto la scena di uno che una volta è stato chiamato per fare la pulizia dei denti e ha rifiutato perché ha detto che fuori c’è il padre della sua ragazza che lavora presso un dentista, e che una volta uscito gliel’avrebbe fatta gratis. A volte l’idea è che tanto per esercitare un diritto l’unica cosa che possono fare è rifiutare qualcosa, giusto per dire "Ho deciso io cosa fare".

Francesca: Come la domenica, quando noi andiamo là di mattina. In quel caso l’alternativa per loro è quella di venire a chiacchierare con noi oppure rimanere chiusi in cella, e ce ne sono alcuni che non scendono. Secondo noi non lo fanno perché non ne hanno voglia, ma perché potendo scegliere di non scendere dicono "No, io resto in cella". Perché vogliono far vedere che decidono qualcosa.

Sara: A volte gli chiediamo "Scendi domani mattina?" e qualcuno risponde "Ah, non lo so, forse mi sento male domani".

 

E con il problema della droga?

Freda: Sappiamo chi è tossicodipendente, però non è un problema che emerge a livello di istituto. Ci sono  stati dei periodi tragici, quando entravano quelli che prendevano gli allucinogeni, quelli che sniffavano, ora il termine "tossico" non compare se non nei loro scritti.

Isabella: In carcere naturalmente non la usano (ci mancherebbe!), però il loro pensiero va spesso lì. Perché alla classica domanda "Cosa farai quando esci?" talvolta invece di dirti che so: "Prima cosa vado a farmi una bella passeggiata sulla spiaggia con la mia fidanzata!" ti rispondono: "Prima di tutto vado a drogarmi un pochetto…".  Tant’è che poi dentro ci dicono: "Mi raccomando, fuori venite a trovarci", e una volta ci siamo andate, ma fuori sono altre persone.

Giuliana: Per esempio, un ragazzo che ci aveva pregato di andarlo a trovare, non dico che non ci ha riconosciuto, ma quasi. Ci ha detto di aspettarlo lì un attimo che sarebbe tornato subito, ma non si è più fatto vedere. Adesso è rientrato in carcere ed ha ricominciato a dire di incontrarci quando sarà fuori, noi gli abbiamo ricordato di quel giorno, e lui ha risposto che quel giorno era tutto "intripato". Quindi il loro pensiero fisso è quello.

 

Prima avete detto che restate in contatto con quei ragazzi che passano al carcere per adulti. Sono tanti i ragazzi che tornano a commettere reati?

Freda: Certo, proprio stamattina è tornato in redazione un ragazzo, che purtroppo dice che ormai la sua casa è il carcere. Esce, trova l’amico che gli fa spacciare la droga, si diverte e quando lo acchiappano torna in carcere. Ci sono poi ragazzi sui quali è intervenuta la giustizia molto in ritardo. Hanno avuto un cumulo di pene, anche perché loro poi sono disattenti e quando arrivano le citazioni, se non hanno un avvocato che li segue, non ci fanno caso, così si ritrovano a dover scontare una pena, magari quando stavano seguendo un percorso, stavano facendo dei progetti per il futuro… Ce n’è uno, ormai adulto, è un ragazzo intelligente, della zona di Roma malavitosa, sin da ragazzetto lui faceva le rapine alle banche ed era aggregato a gruppi malavitosi. Gli si sono accumulate tutte queste pene, per cui deve scontare 23 anni di carcere, ne ha fatti sei e gliene rimangono 17…  Adesso lo sostengo io, mi scrive tre lettere a settimana e mercoledì devo andare a fargli colloquio, anche perché lui dice che l’unico suo sostegno sono io. Mi chiede anche consiglio su come si deve comportare, ha paura dello scontro con gli altri.

Francesca: Alcuni di loro, soprattutto quelli che hanno iniziato a venire in carcere a 14 anni, non hanno paura del carcere. Ormai è un ambiente che conoscono benissimo, hanno preso le misure di quella realtà, sanno fino a dove possono spingersi e non lo temono.

Giuliana: C’è da dire che molti di loro non hanno contesti e ambienti favorevoli… L’altro giorno ad un ragazzo ho detto "Esci lunedì? E dove vai a dormire?", e lui prontamente ha risposto "A casa tua!".

 

Ci raccontate qualcosa della vostra nuova sede esterna?

Freda: Devo dire che ho salito e sceso mille scale, e tante volte dicevo che desideravo che i ragazzi arrivassero attraverso il giornalino ad imparare un mestiere, e per fare questo mi serviva una sede, mi sono sentita dare della sognatrice e ho avuto il coraggio di rispondere: "Ma sapete quanti anni ho passato con i ragazzi? È dal 1957, per cui questi non sono sogni… sono desideri che io ho letto però negli occhi e nelle espressioni di tanti tanti ragazzi". Alla fine sono arrivata, sempre con la mia carta di credito che è il giornalino, dal Vice capo di Gabinetto del Sindaco, gli ho raccontato un po’ la mia storia ed è stato veramente un galantuomo. Due giorni dopo mi ha telefonato e mi ha detto che aveva trovato una sede nel diciassettesimo municipio, un salone accanto alla Presidenza del Municipio 17.

Maria Domenica: La redazione funziona al martedì e giovedì pomeriggio. Abbiamo aperto il 24 maggio, inizialmente con quattro ragazzetti che frequentavano la parrocchia del quartiere ed entro un mese è stato fatto il primo giornalino, Garçon con le ali.

Freda: Dopo sono andata a parlare con i servizi sociali circoscrizionali, con il servizio sociale penale, con la dirigente del distretto di Roma, chiedendo che qualche ragazzo sottoposto a misure alternative potesse continuare l’attività intrapresa all’interno, o quantomeno venissero quelli con la messa alla prova. Infatti abbiamo iniziato da settembre con Carlo, un ragazzo con la misura della messa alla prova: al mattino va a fare grafica pubblicitaria al Don Orione e di pomeriggio viene da noi. Pensiamo che da gennaio riusciremo ad avere una buona redazione, con un programma completamente diverso da quello della redazione interna, usufruendo di un quid importante: "la Libertà".

Freda, Sara, Giuliana, Isabella, Francesca, Marta, Enza e Maria Domenica

Redazione Garçon il Salvagente, I.P.M. Casal del Marmo, Roma

 

 

Elvis e il suo viaggio da Durazzo alle carceri minorili italiane

"Volevo venire in Italia soprattutto per cercarmi un lavoro, perché per guadagnare quello che qui guadagna in un mese un operaio semplice in fabbrica, in Albania dovresti lavorare sette mesi"

La testimonianza di Elvis è stata raccolta da Nicola Sansonna

Sono albanese, la mia famiglia è composta dai miei genitori e due fratelli più grandi di me. Sono cresciuto a Durazzo, una grossa città che si trova a quaranta chilometri dalla capitale, esattamente di fronte a Bari, dalla quale è separata da 120 km di mare. Sono partito dall’Albania nel 2000. Avevo 15 anni, frequentavo il primo anno delle scuole superiori. Avevo un gruppo di amici che uno alla volta mi stavano lasciando solo. Partivano per l’Italia, partivano per una vita migliore,  per cercare un po’ di fortuna.

Sapevo che se fossi arrivato in Italia da minorenne avrei potuto ottenere con più facilità il permesso di soggiorno. In Italia c’erano già i miei fratelli, molti dei miei amici, io volevo venire soprattutto per cercarmi un lavoro, perché per guadagnare quello che qui in un mese si guadagna lavorando anche solo da operaio semplice in fabbrica, in Albania dovresti lavorare minimo sette mesi.

 

Partendo dall’Albania pensavo di trovare in Italia un po’ di fortuna

Mi imbarcai nella primavera del 2000 su una nave commerciale, destinazione Barletta; per il passaggio dovetti pagare due milioni e 300mila Lek, l’equivalente di circa 4 milioni e 500mila delle vecchie lire. Sulla nave, un vecchio mercantile, eravamo in una quarantina, tutti uomini di tutte le età. Prima di arrivare nel porto di Barletta si affiancarono due gommoni, noi salimmo sopra e ci dirigemmo in città verso un vecchio porticciolo molto vicino al centro. Da lì arrivammo alla stazione, quindi ognuno proseguì per la sua destinazione. Partendo dall’Albania pensavo di trovare in Italia un po’ di fortuna, ed invece dopo due anni fui coinvolto in una rissa, e morì un uomo. Avevo 17 anni. La mia esperienza da uomo libero in Italia si è fermata il 2 dicembre 2002.

Mi arrestarono a Bari, e mi portarono all’I.P.M. "Fornelli", l’istituto minorile della città. Sapevo che avevo sbagliato: in quell’attimo di rabbia avevo tolto la vita a un uomo di 36 anni, ora dovevo pagare. Appena entrato in carcere, la sensazione di angoscia per essere chiuso tra le sbarre fu forte. Mi misero in isolamento per motivi di giustizia, dopo tre giorni il magistrato mi interrogò, ma mi lasciò altri 12 giorni in una cella con solo un tavolino, uno sgabello e un materasso. In quelle due settimane, devo dire che ogni giorno mi chiamavano nei loro uffici per colloqui l’educatrice e la psicologa, e questo mi aiutò a superare il trauma dell’ingresso in carcere. 

Un pomeriggio finalmente mi fecero salire in sezione con gli altri ragazzi. Dopo cinque mesi fui trasferito per "avvicinamento colloquio" a Torino al "Ferrante Aporti", istituto che tra noi era rinomato, perché dicevano tutti che si stava bene. A Bari stavo male perché non potevo fare colloqui e poi era tutto molto regolato, tipo militare: ogni ora della giornata avevi una precisa cosa da fare e dovevi fare quella. A Torino si era più liberi di gestirsi la propria giornata. Non c’erano troppi obblighi, e quello che facevi lo facevi volentieri perché eri stato tu a sceglierlo. Anche i rapporti tra noi e gli agenti, che al minorile lavorano in abiti civili, erano piuttosto amichevoli, privi di conflittualità.

Tra le attività che si potevano svolgere c’erano la scuola, il corso di pizzeria, di meccanica, di giardinaggio, l’addestramento di cani. Il mio programma era questo: tre giorni della settimana frequentavo il corso pizzaioli, gli altri tre addestramento cani. Una volta alla settimana si faceva musica e teatro, seguiti da insegnanti esterni. Mi piacevano molto i cani, è una delle attività che svolgevo più volentieri, ma quando faceva freddo la pizzeria era molto meglio. Tra le persone alle quali penso con più affetto lì a Torino c’è un’educatrice molto giovane con la quale ho instaurato un rapporto di amicizia. Quando avevo bisogno era sempre presente, conservo di lei un bellissimo ricordo.

Sono rimasto a Torino per 10 mesi, poi mi hanno trasferito all’Istituto minorile di Treviso, perché i miei parenti abitano in Veneto. Ero già stato a Treviso, portato lì per gli interrogatori, mentre il processo per l’omicidio l’avevo fatto a Venezia, dove mi avevano condannato in primo grado a 12 anni, ma in appello poi la pena era stata ridotta a 9 anni e 4 mesi. Conoscevo quindi già tutti gli operatori. I detenuti invece cambiano in continuazione, eravamo in pochi ad avere reati gravi e quindi molti anni da fare. Gli altri nel giro massimo di sei mesi erano tutti fuori. Treviso era simile a Torino. Ti lasciavano più libero rispetto a Bari, che nel confronto sembrava un carcere militarizzato.

 

Tutte le occasioni erano buone per incontrare le ragazze della sezione femminile

 

Nelle carceri minorili nascono amicizie molto forti, ad esempio con Denis, mio connazionale, e Christian, italiano, eravamo inseparabili. Abbiamo condiviso la stessa cella per tutto il periodo trascorso a Torino. Anche loro purtroppo avevano la mia stessa condanna. Sono amici che terrò sempre nel mio cuore. Le nostre partite a pallone sono rimaste memorabili, giocavamo contro squadre esterne, eravamo iscritti ad un campionato provinciale di calcetto, ma le nostre partite le giocavamo purtroppo tutte in casa… ogni domenica pomeriggio. Non è che non ci facessero uscire per la paura che mettessimo in pratica il bellissimo film Fuga per la vittoria, il motivo, così ci dicevano, era perché non eravamo tutti definitivi. Chi era definitivo usciva anche più volte alla settimana in permesso premio. Uscivano con educatori, con persone del volontariato, psicologi, perfino con quelli del WWF della protezione animali in via d’estinzione… su questo scherzavamo sempre.

All’interno del Ferrante Aporti c’è anche la sezione femminile. Il che è tutto un programma. Nel senso che tutte le occasioni erano buone per vederci, sentirci, e magari soltanto poter sfiorare la guancia o tenere la mano ad una ragazza particolare che mi piaceva. Ad esempio a Natale dalle due del pomeriggio alle dieci di sera si mangiava insieme, si ballava, c’era anche tanta gente da fuori, la palestra si trasformava in una grande mensa, ed il teatro in una sala da ballo. Le attività erano finanziate dal Comune di Torino, e sia assessori, ma a volte anche il sindaco in persona, venivano a vedere, a controllare, a chiederci come stavamo.

Nascevano amori prima e durante le feste, finita la festa finiva anche l’amore. Amori della durata di sette ore, tanto durava la festa. In pratica non erano veri amori ma una sorta di competizione tra di noi, e vinceva chi riusciva a dare un bacio alla più carina. Anche per le ragazze era lo stesso. C’era la sorveglianza, ma eravamo così tanti che qualche bacio ci poteva scappare. E poi non stavamo facendo niente di male. Qualcuna di queste storie è andata avanti. Una volta oltre le sbarre si sono frequentati, fidanzati, ed addirittura mi hanno scritto degli amici che una coppia si è sposata.

A giugno del 2004 sono passato nel carcere per adulti, e mi trovo qui a Padova. La differenza maggiore che ho visto tra le due realtà è che il minorile in qualche modo mi aveva preparato ad affrontare la vita nel carcere adulto, perché è carcere anche lì, però al minorile il contatto con gli educatori e gli psicologi era costante, più diretto, lì ci si conosce veramente dal punto di vista umano, mentre qui a Padova, carcere per maggiorenni, ho fatto solo quello che viene chiamato "colloquio d’ingresso", con una educatrice che mi ha detto subito che non sarei stato seguito da lei. Capisco che qui siamo in tanti, e il personale è pochissimo, ma sento la mancanza di questi contatti.

Anche da un punto di vista sanitario la differenza è abissale. In tutti i minorili in cui sono stato l’assistenza era immediata, seria ed efficace. Qui spesso le visite sono "a distanza" e si concludono con la pastiglietta di turno. Il dentista poi veniva una volta al mese, e venivamo chiamati tutti per un controllo. Da quando sono qui ho perso una capsula, non riesco ad incontrare un dentista e la cosa è molto frustrante, oltre che dolorosa.

La differenza che ho riscontrato nelle relazioni umane, tra i ragazzi del minorile e qui nella Casa di reclusione, è che qui forse c’è maggior tranquillità e senso di responsabilità, almeno in chi ha pene lunghe. Ma girala come vuoi, le sbarre c’erano al minorile e continuano ad esserci qui. Sotto quel punto di vista sono due realtà troppo simili.

 

 

I ragazzini stranieri arrivano ed hanno bisogni immediati

A volte invece ci sono ragazzi inviati per la prostituzione, per lo spaccio di droga e per mandarli a rubare

 

di Stefano Bentivogli

Tina Ciccarelli è una delle fondatrici dell’associazione Famiglie padovane contro l’emarginazione, che da qualche anno si occupa anche dell’accoglienza dei minori non accompagnati, che vengono seguiti sotto tutti gli aspetti e spesso per periodi superiori a quelli coperti finanziariamente dalle rette degli enti pubblici. La presenza e la conoscenza del territorio ne hanno fatto un importante referente al quale ricorrere per situazioni che si presentano quasi sempre come emergenze. I servizi sociali e le forze dell’ordine si affidano molto spesso all’associazione che, per la sua flessibilità e dinamicità, riesce a dare risposte dove per lo Stato è praticamente impossibile.

Ci siamo fatti raccontare da Tina la sua esperienza.

 

Qual è l’attività dell’associazione nei confronti dei minori stranieri non accompagnati a Padova?

L’associazione ha cominciato ad occuparsi dei minori stranieri non accompagnati di Padova a partire da una richiesta fatta dagli operatori di strada circa cinque anni fa. Avevano trovato alcuni minori rumeni, in stazione, con forti disagi, vittime di bande organizzate che li mandavano a rubare approfittando della minore età e della non punibilità. Essendo la nostra un’associazione che dà un forte spazio ai bisogni, ci siamo subito organizzati per dare una risposta in questo settore. Avevamo un appartamento, dove viveva già una coppia di stranieri, con dei posti liberi e li abbiamo portati lì. Ci siamo messi in contatto con il Comune ed abbiamo approntato una modalità per gestire queste situazioni. Certamente non eravamo molto preparati all’inizio, però credo che il senso dell’accoglienza aiuti molto l’operatore sprovveduto, così ci siamo in qualche modo istruiti sulle loro situazioni in questi 5 anni, perché lavorare con gli stranieri, soprattutto con i minori, necessita della conoscenza delle modalità e delle regole che ci sono nei loro paesi, soprattutto le regole educative che a volte contrastano con i nostri modelli.

 

Da dove vengono i minori stranieri qui a Padova?

I minori stranieri vengono da tutte le aree del Maghrebi, ma soprattutto dal Marocco, poi anche dal Camerun, dal Senegal e da altri paesi, ma in maniera molto ridotta. Venivano in molti dall’Albania, fino a quando l’Albania non ha deciso di entrare nell’Unione europea ed ha fermato i flussi di immigrati clandestini. Poi vengono dalla Romania e dalla Moldavia, adesso sono cominciati ad arrivare anche gli iraniani, i pakistani, gli iracheni. In questo momento l’etnia dominante è quella moldava, più forte anche dei rumeni perché pure i rumeni, avendo l’aspettativa di entrare nell’Unione europea, hanno ridotto i loro arrivi. Sicuramente tra di loro c’è un passaparola e lo si nota dal fatto che c’è il periodo che arrivano tutti da Bacau, un altro che arrivano tutti da Chisinau – Moldavia,  da Casablanca,  da Ben-imlail; arrivano sicuramente in cordata. Io ho la presunzione di dire che qui a Padova si trovano abbastanza   bene, perché noi abbiamo una struttura familiare ed accogliente.

 

È chiaro che se devono rimanere qui devono comunque integrarsi con la nostra realtà

 

Come è organizzata l’accoglienza di questi minori?

L’accoglienza è in ogni caso un momento improvviso, perché quando il minore arriva c’è il bisogno immediato di collocarlo. I ragazzi sono inviati dalla polizia, dai vigili del Comune e soprattutto dai servizi sociali anche di comuni fuori da Padova. Il ragazzino arriva ed ha bisogni immediati, allora c’è la Casa di pronta accoglienza dove in genere si resta per tre/quattro mesi. Questo è il periodo dove si comincia a fare un po’ di scolarizzazione, tutte le visite necessarie per poter vivere in comunità, gli esami per la tubercolosi, le malattie infettive. Comunque i primi passaggi da parte nostra sono insegnargli come viviamo in Italia, sicuramente rispettando la loro identità culturale, ma è chiaro che se devono rimanere qui e fare un programma di lavoro, di vita, di scuola devono comunque integrarsi con la nostra realtà. Questo è il compito primario nei primi tre mesi.

Dopo passano in un’altra struttura, a volte nostra, a volte di altre comunità, e lì si comincia il programma vero e proprio che dipende dall’età che hanno, perché con la legge Bossi-Fini bisognerebbe essere in Italia da un certo numero di anni per poter ottenere il permesso di soggiorno una volta raggiunta la maggiore età. Finché sono minorenni esiste il permesso di soggiorno per minori stranieri non accompagnati, che però non permette loro di andare a lavorare, noi d’altra parte preferiamo fargli fare un percorso di scolarizzazione, di istruzione e di formazione professionale in modo che arrivino al diciottesimo anno di età avendo finito uno stage. Questo gli permette poi di essere inseriti a livello lavorativo dove hanno svolto lo stage, oppure siamo noi a cercare un altro posto di lavoro. Arrivati a 18 anni, per altri tre mesi il comune risponde ancora per loro, e questi tre mesi sono quelli che consentono a noi di poterli mettere in una struttura "altra".

Abbiamo delle persone che affittano stanze, cerchiamo sempre di trovargli situazioni adeguate dove anche loro siano agevolati nel non dover necessariamente deviare. Così cominciano a lavorare e per tre mesi noi continuiamo a mantenerli, ad aiutarli, anche a tenerli in struttura quando ci sia disponibilità di un posto letto. Dopo i tre mesi cominciano ad impegnarsi personalmente per coprire le spese necessarie alla loro vita. Normalmente sono molto giovani, quindi non manca mai da parte nostra una accoglienza forte, per cercare di non farli sentire mai abbandonati. Questo è quanto riguarda i veri minori non accompagnati.

Ci sono poi i minori che arrivano con una famiglia, che è clandestina, irregolare per l’immigrazione. Questi non sono in grado di mantenerli, soprattutto i popoli dell’est sono abbastanza duri e spesso ti trovi con questi ragazzini dei quali, a volte, ipotizzi che dietro possa esserci anche la famiglia. A volte invece arrivano ragazzini inviati, e questa è la parte più grave della storia, per la prostituzione, per lo spaccio di droga, per andare a rubare, cioè ci sono delle bande organizzate che li fanno venire qua in Italia. La Moldavia è addirittura stata denunciata a livello internazionale per traffico di minori per l’espianto di organi e credo che probabilmente, per entrare in Europa, dovrà fare una bella pulizia all’interno ed eliminare questo problema. Un clandestino minorenne, per arrivare in Italia, paga dai 2.500 ai 5.000 euro alle organizzazioni che poi li portano qui, è evidente che quando arriva dovrà rendere molto e molto di più, in qualsiasi modo.

 

Il nostro messaggio è "io ti sto aiutando, non voglio nulla in cambio"

 

Questi ragazzi che bisogni hanno oltre a quelli normali di trovare un lavoro, di avere un’istruzione, e in che modo riuscite ad andargli incontro?

Il primo bisogno per loro è quello di sentirsi veramente accolti senza un modello ricattatorio, la prima cosa da vincere per loro è questa. Il nostro messaggio è "io ti sto aiutando, non voglio nulla in cambio", vogliamo insegnargli che avere un lavoro è un diritto, avere una casa è un diritto, non che debbano pagare una terza persona per ottenere un posto letto o un lavoro. Poi ci sono situazioni di ragazzi che arrivano con genitori separati, con famiglie distrutte, genitori alcolisti, e qui i bisogni diventano forti. Sono i bisogni che hanno anche i nostri stessi ragazzi, solo che avendo alle spalle storie molto più dure, questi sono sì ragazzini, ma sono anche adulti, diventati adulti di corsa e per forza. Tu quindi devi capire come trattare con loro, devi essere rassicurante ed affettivo quando serve, ma soprattutto ricordarti che sono dei piccoli adulti con storie bruttissime.

 

È bello lavorare con questi ragazzi e vederli crescere

 

L’associazione cerca in qualche modo di mettere in contatto i ragazzi con le loro famiglie all’estero?

Immediatamente, perché è una grossa necessità. Ci sono ragazzi che arrivano comunque da posti dove non c’è telefono, non c’è assistenza sociale, e se c’è sono cose che non funzionano come da noi. In linea di massima comunque tendiamo a metterli in contatto con la loro famiglia, e permettiamo ai ragazzi di telefonare a casa, quando c’è il telefono, una volta alla settimana, oppure di mettersi d’accordo con i genitori che, il sabato ad esempio, vanno in un negozio vicino a casa dove c’è il telefono e noi li facciamo raggiungere così.

Mantenere il legame familiare è comunque basilare. Poi hanno bisogno di cure dentistiche, hanno bisogno di un sacco di cose questi ragazzi; molto spesso arrivano qui in situazioni di debilitazione fisica, e dopo un anno lo vedi: sono cresciuti di dieci centimetri, sono ingrassati, stanno bene di colorito, sono vivaci, insomma è bello lavorare con questi ragazzi e vederli crescere.

Soprattutto credo sia doveroso integrarli con i ragazzi italiani, cosa che noi tentiamo di fare sempre. Cerchiamo di facilitarli nel mantenere i contatti con le nuove amicizie che fanno, ed evitiamo che abbiano rapporti con persone solo della loro etnia. Questi ragazzini all’inizio sono spesso un po’ razzisti, tendono a dividersi in gruppi: i marocchini solo tra di loro, i moldavi con i moldavi, i rumeni con i rumeni, noi allora gli appartamenti li facciamo misti, primo perché ciò è importante per imparare la lingua, in secondo luogo perché devono imparare a convivere con tutti gli altri. Dopo dobbiamo aiutarli ad imparare le regole del vivere quotidiano, non solo a livello personale: spegnere sempre la luce, non fare una lavatrice per lavare un solo paio di scarpe. La mediazione delle regole sociali, ecco, questo è molto importante ed è quello che tentiamo di fare.

 

Il permesso di soggiorno, c’è il ragazzino che comunque lo ottiene, ce ne sono altri che non l’avranno mai

 

Tra questi ragazzi c’è qualcuno che invece arriva dagli Istituti di pena minorili? Qual è la differenza tra loro e quelli che, fortunatamente, l’esperienza del carcere non l’hanno fatta?

La maggioranza dei ragazzi non ha fatto l’esperienza del carcere, esistono poi strutture abbastanza specifiche per chi arriva dal carcere; quando queste sono sature, allora fanno il giro delle altre strutture e quindi arrivano anche da noi. Non è facile lavorare con questi ragazzi perché dovresti avere una struttura tutta per minori che arrivano dal carcere, e la cosa non mi piace, perché ripetere il modello carcerario, anche nelle strutture di accoglienza, proprio non va bene. Noi tentiamo di tenerli come tutti gli altri ragazzi, ma è difficile per loro accettare ad esempio la regola degli arresti domiciliari, è quasi impossibile per un ragazzino di 16 anni. Noi tendiamo a farli uscire dal carcere per immetterli nel mondo della scuola o nella fase propedeutica al lavoro, una vita come gli altri insomma.

Alle volte questi ragazzi fanno uso di sostanze stupefacenti ed è difficile perché, in carcere, c’è la vecchia regola che se tu rompi basta darti 50 gocce di tranquillanti in più e stai tranquillo. Proprio in questi giorni è uscito un ragazzo dal carcere, noi lo abbiamo accolto, ma non ci è stata data alcuna indicazione su quali farmaci gli fossero stati prescritti. Ci troviamo a fare delle verifiche con lui che dichiara che dentro prendeva 120 gocce di vari farmaci, col rischio di lasciarlo in crisi di astinenza e di vederlo scappare via. Quindi è molto difficile organizzarsi, anche dal punto di vista sanitario. Poi quelli che escono dal carcere hanno poche aspettative per il rilascio del permesso di soggiorno, anche se la regola oggi non è uguale per tutti, c’è il ragazzino che comunque lo ottiene, ce ne sono altri che non l’avranno mai.

 

A volte i ragazzi sono ricattati, quindi obbediscono alla legge del più forte

 

I minori con cui l’associazione ha a che fare continuano ad avere rapporti con gli stranieri che sono qui a Padova? Tra questi rapporti ci sono mai stati problemi dovuti a collegamenti con persone che non vivono nella legalità?

Sì, anche perché ci sono minori che vengono inviati già dal loro paese, proprio perché minori, solo per delinquere. Siccome non possiamo tenerli prigionieri, perché io, mio figlio di 16 anni, al pomeriggio due ore lo lascio uscire, così possono uscire loro. Per quanto attenti noi siamo ed abbiamo anche una specie di tam-tam che ci riferisce alcune cose, non sempre è semplice avere chiarezza sui loro rapporti. A volte i ragazzi sono ricattati, quindi obbediscono alla legge del più forte comunque: obbediscono allo zio spacciatore, per esempio, verso il quale hanno un debito perché li ha fatti arrivare in Italia, e i soldi vanno restituiti, anche perché poi potrebbe essere penalizzata la sua famiglia.

 

Sono ragazzi che vengono strappati dalla loro cultura, dalla loro famiglia, dalla loro storia 

 

Questo solo tra quelli che sono stati in carcere o è una situazione generale?

No, è un po’ così tra tutti. Poi ci sono anche quelli che sono i classici bravi ragazzi che sono arrivati qui veramente per aiutare una famiglia poverissima. Poverissimi in realtà lo sono tutti, poveri disgraziati lo sono tutti, perché ricattati o meno, sono ragazzi che vengono strappati dalla loro cultura, dalla loro famiglia, dalla loro storia e comunque, in un modo o nell’altro, sono in cerca di fortuna qui. Noi non facciamo differenza se vengono dalla strada o da situazioni particolari; abbiamo ragazzi che hanno fatto qui un ottimo percorso, che veramente venivano dalla strada ed andavano a rubare, erano ricattati e ricattabili. Anche in questi casi ci siamo riusciti, ma costa parecchio impegno.

 

Normalmente cosa si prova a fare per proteggere i ragazzi da situazioni di ricatto esterno, visto che si è scelto di non farli vivere in condizioni simili alla detenzione?

C’è una sola cosa che si deve fare, volergli bene. Questo è un grande deterrente, dopodiché li proteggi, fai in modo che gli operatori escano con loro, al sabato li portiamo in discoteca, come fai a non portarli, ed un operatore va con loro. Cerchiamo di essere presenti in maniera massiccia, ma è una presenza che passa soprattutto per l’affettività. Non puoi non dare un corrispondente affettivo, se vuoi il loro bene, devono entrare in relazione con te, altrimenti possono stare buoni e bravi per avere il permesso di soggiorno e poi, a 18 anni, fuggire e ricominciare.

 

La migrazione dei minori è stato un fenomeno al quale nessuno era preparato

 

Come si è evoluto il fenomeno dei minori non accompagnati a Padova in termini quantitativi?

In quest’ultimo periodo c’è una escalation, stanno arrivando un sacco di ragazzi. Non c’è mai linearità negli arrivi, ma c’è stata una progressiva crescita in questo ultimo semestre, mentre nel semestre precedente c’era stato un momento di stasi in cui sembrava che non arrivassero più ragazzi. Adesso stanno cominciando ad arrivare di nuovo con grande prevalenza delle etnie dell’Europa dell’Est. La migrazione dei minori in questi termini è stato un fenomeno al quale nessuno era preparato, così siamo dovuti crescere tutti, anche a livello istituzionale. C’è stata una buona sinergia, per esempio l’assessorato alle Politiche sociali è molto sensibile alla presenza dei minori non accompagnati, in questo momento la collaborazione sta andando bene, gli assistenti sociali sono attenti ai bisogni dei ragazzi, insieme si elaborano le strategie per ottimizzare i percorsi.

 

In termini di capacità ricettiva delle strutture, come vanno le cose?

La capacità è bassa, a volte si fa fatica a fronteggiare le emergenze. In questo momento da noi abbiamo il "tutto esaurito", altre strutture hanno parecchi ragazzi anche loro e ci sono strutture fuori Padova che vengono coinvolte nell’accoglienza di questi ragazzi, ce n’è a Mestre, a Treviso, per cui se non si riesce ad accogliere a Padova ci si sposta fuori provincia.

 

"Quando avrò il permesso di soggiorno mi troverò una casa lavorando..."

 

Questi ragazzi, una volta arrivati alla maggiore età, quante possibilità hanno di stare lontani da situazioni che li possono portare ad avere problemi con la legge?

Le possibilità ci sono perché durante il periodo che stanno da noi riescono molto spesso, vorrei dire sempre ma non è proprio così, a capire che è più conveniente vivere una vita normale, senza inseguire il sogno di guadagnare come un calciatore, ma di avere la serenità e la tranquillità di vivere tutti i giorni. Spesso dopo la maggiore età recuperano la capacità di portare qui la famiglia, di mettersi a lavorare tutti quanti, e se nel nucleo ci  sono padre, madre e figlio che lavorano, riescono a stare benino, riescono a mandare un po’ di soldi al loro paese. Molto spesso il programma è "quando avrò il permesso di soggiorno mi troverò una casa lavorando e dopo un anno faccio arrivare i miei genitori"

 

Ha senso tutto il lavoro che fate, data l’esistenza di una legge come la Bossi-Fini?

Ha sempre senso lavorare con chi ha questi bisogni, ma sicuramente questa legge ci ha fatto vedere i sorci verdi e dovrebbe essere modificata. In Italia c’è questa modalità per cui si fa una legge e subito si trovano gli inghippi per aggirarla, però questo costa molta fatica, occorre spremersi il cervello, cercare risorse comunque e dovunque. Così, tu che dovresti lavorare soprattutto sull’accoglienza e sulle modalità educative, ti trovi costretto a fare tutta un’altra serie di cose che invece sono finalizzate principalmente all’ottenimento del permesso di soggiorno.

 

Hai una proposta sulla quale vorresti spingere per migliorare la situazione dei minori non accompagnati?

L’immigrazione in Italia è ormai un fenomeno massiccio e non ci sono risorse, è vero che molti di loro poi vanno in altri paesi, ma  comunque per accogliere veramente occorre offrire dignità, cioe la casa, la salute, il lavoro, la possibilità di mandare a casa qualcosa. Questo noi non siamo in grado di garantirlo, ed è meglio che cominciamo a pensare a come sviluppare possibilità di lavoro nei loro paesi perché qui la situazione è a termine, c’è recessione, c’è sempre meno lavoro. Lo straniero favorisce così l’abbassamento dei costi del lavoro, si va a lavorare per 3,50 euro all’ora o anche per meno, la professionalità non viene più tenuta in considerazione.

 

E una cosa che invece si potrebbe fare qui in Italia?

Responsabilizzare ed incentivare i datori di lavoro ad organizzare strutture per alloggiare chi viene in Italia per lavorare, magari trattenendo direttamente i soldi dell’affitto dalla busta paga. Oggi una stanza singola con un solo posto letto costa anche 450 euro al mese. In generale occorre smantellare tutti gli spazi di illegalità collegati alle difficoltà di integrazione degli stranieri, gli affitti in nero, le intermediazioni illegali per trovare un lavoro che spesso è anche quello in nero e quindi illegale.

 

 

Kamel ha sedici anni viene dal Marocco

Tre mesi di Italia "libera"e poi la galera

 

Quando ho spiegato a Tina Ciccarelli che ero alla ricerca di qualche testimonianza sulla situazione dei minori non accompagnati che avevano avuto esperienza di detenzione, mi ha detto che forse aveva la persona giusta. Kamel ha sedici anni ed è arrivato circa dieci mesi fa dal Marocco. Dopo tre mesi è stato portato in carcere dove è rimasto per sei mesi. È stato scarcerato e mollato in mezzo ad una strada dopo essere stato imbottito per tutto il periodo di detenzione di psicofarmaci. Raccolto dalla polizia è stato portato all’associazione tre giorni fa. Non è facile farlo parlare perché è un po’ depresso, del carcere ricorda solo la solitudine, le liti e gli psicofarmaci. Dell’Italia ha in mente la strada e le case abbandonate, ma vuole rimanere a tutti i costi, i suoi in Marocco hanno bisogno di soldi. L’Italia per lui resta un paese strano, tutti fumano le canne, perfino le donne, ma vendere fumo è vietato, si finisce in galera...

 

Kamel, come sei arrivato in Italia?

Sono arrivato dal Marocco con la barca, sono 10 mesi che sono in Italia. Sono venuto qui per lavorare e dare un aiuto alla mia famiglia. Ma in Italia poi non ho mai lavorato, ho cominciato subito a spacciare e basta.

 

Hai mai provato a trovarti un lavoro?

Sì, i primi giorni ho provato. Sono stato da mio cugino a Brescia, ma la padrona di casa ha scoperto che dormivo da lui ed ha minacciato di chiamare la polizia. Mio cugino si è spaventato, mi ha dato 100 euro e mi ha detto di andare via. Così sono venuto a Padova da un amico, ho spacciato droga per due mesi. Mi ha preso la polizia e sono stato portato in carcere a Potenza per sei mesi.

 

Com’è il carcere per un ragazzo minorenne?

Brutto, molto brutto. Si esce la mattina e si va a fare colazione, poi al al campo a giocare. A mezzogiorno si mangia e poi si torna in cella. Si esce di nuovo alle cinque a giocare, si cena alle otto e poi si torna in cella. Tutti i giorni così.

 

Hai avuto la possibilità di contattare la tua famiglia dal carcere?

Senti, per sei mesi non ho più parlato con la mia famiglia. Ho chiesto di chiamarla e ho dato l’indirizzo di casa. Ho fatto la richiesta per telefonare, ma loro mi hanno risposto sempre di no.

 

Come andavano le cose con gli altri ragazzi che erano dentro?

Era un casino, tu lo sai il carcere com’è. Proprio perché sono stato sei mesi senza chiamare la mia famiglia, ero molto nervoso e facevo casino. Mi era venuto anche mal di stomaco per l’ansia e, se qualcuno mi faceva arrabbiare, subito lo attaccavo. Quando sono uscito dal carcere avevo già preso cinque rapporti ed una denuncia.

 

Cosa facevano per farti stare più calmo?

Mi davano le gocce, Minias, Valium, sono arrivato una volta a 120 gocce e Tavor, ho mangiato anche le pasticche.

 

Con le medicine riuscivi a stare un po’ più calmo?

Sì, anche troppo calmo perché con tutte quelle gocce non facevo più niente e pensavo anche troppo.

 

Quando sei uscito ti hanno portato qui?

No, sono stato fuori due settimane poi sono arrivato qui. Avevo qualche soldo, dei vestiti, ma non ho trovato nessuno. I miei amici erano tutti finiti in carcere, sono andato a dormire in stazione, poi ho trovato una casa abbandonata e ho cominciato a dormire là. Sempre meglio della strada, faceva freddo la sera. Al mattino alle otto mi ha fermato la polizia, mi hanno portato in questura dove mi hanno detto che un minorenne non poteva stare per strada. È stata la polizia a portarmi qui in comunità.

 

Ora come vanno le cose, hai anche smesso di prendere tutte quelle gocce?

Non mi sento molto bene perché ho preso per sei mesi tutte quelle medicine, non sto bene dentro, ho mangiato troppe pasticche e gocce.

 

Cosa pensi di fare, appena ti sarai ripreso fisicamente?

Voglio trovare un lavoro, fare una vita senza problemi e basta. Lo so che è difficile in Italia trovare lavoro e fare una vita senza problemi, ma io voglio stare qua e fare i documenti, dopo coi documenti trovo un lavoro giusto.

 

Ora probabilmente ti manderanno anche a scuola?

Non mi piace la scuola, mi piace solo il lavoro. Vorrei fare il meccanico, a me piace fare il meccanico.

 

Lo sai che anche per fare il meccanico in Italia occorre andare a scuola, la scuola per meccanici?

Io ho già lavorato come meccanico per un anno.

 

Qual è il tuo primo desiderio in questo momento?

I documenti, per avere un lavoro. Ho parlato ieri sera al telefono con mio padre che è rimasto solo con mio fratello, c’è bisogno di soldi 

 

Prima di entrare in carcere facevi uso di droga?

No, tranne le canne, ma quella è droga leggera.

 

Non lo sai che in Italia non si possono fumare le canne?

Ma se qui a Padova in piazza delle Erbe fumano tutti le canne, gli uomini e perfino le donne!

 

 

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