Sprigionare gli affetti

 

Detenuti-genitori

Un percorso esistenziale dai risvolti risocializzanti

Con il progetto “Genitorialità responsabile” già da alcuni anni, nelle carceri calabresi,

si tenta di riannodare i fili del complesso rapporto tra figli e genitori-detenuti

 

di Marino Occhipinti

 

Le finalità del progetto “Genitorialità responsabile”, ideato e sviluppato dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Calabria, si muovono su due piani. Il primo di ripristino o recupero di un ruolo familiare irrinunciabile, fonte di gratificazione e di riconoscibilità sociale, il secondo di consapevolezza e responsabilizzazione che inizia con una riflessione sul proprio nucleo familiare per poi proiettarsi all’esterno, con l’acquisizione di comportamenti conformi ed adeguati alle regole del vivere civile.

Partendo dal nucleo esistenziale dell’uomo detenuto, ovvero dall’essenza vitale dell’affetto verso i propri figli, si è scelto di puntare su una riflessione ad ampio raggio dell’esperienza genitoriale, implicitamente ostacolata e coartata dalla stessa condizione detentiva.

La riflessione sulla responsabilità genitoriale, volano di una migliore revisione critica del vissuto esistenziale, è stata accolta dalle persone ristrette non tanto per formali esigenze di adesione alle attività proposte dall’Amministrazione penitenziaria, quanto per una sostanziale necessità di chiarezza, conoscenza e sostegno del proprio ruolo. L’essere genitore ed il sentirsi tale implica una presenza affettiva e tangibile che lo stato detentivo di fatto esclude: l’opportunità di rivivere episodi salienti della propria vita attraverso i racconti e la possibilità di superare timori e sentimenti di colpa legati alla detenzione, hanno permesso una riscoperta della genitorialità in termini di puro affetto ed attenzione verso la crescita dei propri figli.

Questo sguardo vigile e la richiesta accorata di poter partecipare attivamente alla loro esistenza hanno costituito il leit-motiv degli incontri di gruppo, nei quali la condivisione delle esperienze ha permesso di superare l’iniziale ritrosia a vantaggio di un forte ed utile clima emotivo.

In particolare, poi, la grande preoccupazione per la sorte dei propri ragazzi – assolutamente innocenti, ma socialmente stigmatizzati dalla presenza di genitori condannati – ha costituto l’osservazione più dolorosa di tutto il percorso espressivo: la sofferenza per le difficoltà economiche e sociali da loro patite, l’isolamento da essi subito, derivato dall’avere genitori ingombranti e sconvenienti, e l’impossibilità di avere una guida sicura e affidabile che li accompagni nei momenti più delicati della crescita, sono stati i temi forti delle discussioni svolte.

In questo progetto, poi, anche gli operatori sono stati “costretti” ad un confronto diretto e ad una condivisione ragionata di strumenti e scelte esecutive, che hanno ridotto lo stato di parziale isolamento nel quale essi sono costretti, talvolta, a lavorare. Il risultato di questa sinergia ha migliorato sensibilmente il dialogo emotivo e professionale, rendendo altresì più efficace l’approccio nei confronti dei detenuti, ai quali si chiedeva di discutere e relazionarsi su problematiche comuni a tutti i presenti, in uno scambio in cui si era indistintamente “tutti genitori”, con preoccupazioni simili e facilmente riconoscibili.

Il progetto visto da operatori della Casa di reclusione di Rossano

 

Alberto Rossi, educatore

 

L’iniziativa realizzata all’interno dell’istituto di Rossano per le sezioni Alta sicurezza e Media sicurezza, è stata favorevolmente accolta e positivamente vissuta, sia da tutti gli operatori coinvolti, sia dai detenuti partecipanti ai Gruppi di lavoro. La genitorialità, la responsabilità genitoriale, il ruolo di paternità nel detenuto, costituiscono un aspetto importante della condizione detentiva e del percorso riabilitativo delle persone ristrette a cui, anche nel recente passato, non è stata dedicata la dovuta attenzione.

Pertanto, questa iniziativa, inedita e forse inaspettata, ha raccolto l’entusiasmo e l’interesse non solo formale dei partecipanti, dai quali è emersa, sin dall’inizio, la voglia di comprensione e conoscenza, il bisogno di chiarezza e sostegno del proprio “essere genitore” e del “fare il genitore” in condizione detenuta, ma anche del proprio “esserci” e sentirsi “vivo e presente” alla realtà del proprio nucleo familiare. Affrontare queste tematiche vuol dire entrare in un ambito molto delicato ed andare a toccare corde scoperte e sensibili, sul piano emotivo ed esistenziale degli individui. In generale, la realtà detentiva può portare il soggetto detenuto a “scomparire” dalla società come genitore e ad entrare in meccanismi di “adattamento passivo” al carcere.

Ciò può essere determinato, in particolare, dal distacco dagli affetti, dal trasferimento in realtà carcerarie lontane dalla residenza dei congiunti, dai limiti strutturali degli ambienti a disposizione per gli incontri con gli stessi, dalla presenza di figli traumatizzati dalla condizione di detenzione del padre. Anche nei detenuti partecipanti al corso, soprattutto in alcuni con prospettiva di lunga pena, è emersa una sorta di rassegnazione, con conseguente non attesa di cambiamento ed atteggiamento di responsabilità. In altri, invece, è parso prevalere lo stimolo forte ad avviare un processo di presa di coscienza personale ed assunzione di responsabilità graduale, laddove la motivazione ed il valore di riferimento sia il figlio stesso e l’amore nei suoi confronti.

Nel corso dei confronti sviluppatisi con gli incontri del progetto, si è cercato di condividere quanto tale assunzione di responsabilità possa valere sia come dovere, sia come diritto, che rappresenti una spinta in più per utilizzare al meglio lo spazio temporale della detenzione vivendolo anche in termini di progettualità per il futuro dei propri figli.

Resteranno, per chi vi ha partecipato, le immagini del detenuto straniero, lontano dalla patria e dai congiunti con molti anni di carcerazione alle spalle ed altrettanti davanti a se, che non trattiene le lacrime al solo rievocare la propria esperienza di paternità e di attuale mancanza di paternità; così come quelle del detenuto di Alta sicurezza, con lunga carcerazione, il quale, commosso fino alle lacrime descrive la bellezza, l’innocenza e la determinazione della propria figlia preadolescente (che ha vissuto senza la presenza paterna per anni) come un esempio vitale di possibilità di una esistenza diversa, quasi specchiandosi nella realtà di vita positiva della bambina.

Resteranno immagini, espressioni, segnali trasmessi in termini verbali e non verbali, indicativi, comunque, di interesse non strumentale e forte coinvolgimento emotivo, con il pensiero rivolto in particolare alle vite dei figli, le persone più innocenti e più ingiustamente condannate, che si ritrovano per lunghi periodi, i più importanti dell’esistenza, senza padri (o madri), sopportando anche l’isolamento, le difficoltà socio-economiche, il sentirsi figli di “genitori sbagliati”, dinanzi a chi li circonda.

Tante domande sono state espresse e tante sono rimaste inevase!

Nel lavoro dei gruppi, negli incontri di cineforum, nei momenti comuni, si è cercato di facilitare l’esperienza emotiva e di accomunare, nel piccolo gruppo, l’espressione delle emozioni, rendendole comprensibili, accettabili e fruibili da tutti, nell’accettazione e nella condivisione.

Nella libertà, si parla spesso della crisi della famiglia, delle difficoltà di comunicazione e di dialogo tra genitori e figli, degli scontri generazionali, dell’assenza della figura paterna dal nucleo.

Scontrandosi con il vissuto di allontanamento forzato e di affetti “a tempo parziale” dei detenuti, tali tematiche paiono dissolversi e costringono ad una presa di consapevolezza del proprio ruolo di padre, alla “riscoperta della paternità” come conquista ed affermazione determinata, non egoistica, ma dettata da sentimenti veri, di amore e rispetto, di attenzione alla crescita umana dei figli, al loro diritto ad esistere nell’innocenza e nella unicità di uomini.

Perciò, l’esperienza del progetto “Genitori responsabili” ha lasciato positivi riscontri anche in me, in quanto operatore penitenziario ed in quanto padre. È utile, dunque, abbracciare la forte istanza pervenuta dai detenuti partecipanti a proseguire in analoghe iniziative, con percorsi simili, ma anche proponendo attività in ambito socio-culturale, che possano riprendere determinate tematiche affrontate.

 

Gabriella Acireale, educatrice

 

Il progetto ha rappresentato per me una esperienza molto positiva, un contesto di lavoro di condivisione e di confronto diretto e continuo che normalmente, nel lavoro quotidiano che svolgo nel carcere, non mi appartiene. Per chi, vuoi per limiti strutturali dell’organizzazione o vuoi per le croniche carenze di personale, il vissuto costante è quello della solitudine dell’educatore che solo in pochi, rari momenti può confrontarsi con il collega o con le altre figure che si aggirano per l’istituzione.

Il lavoro con i gruppi invece ha favorito un processo di condivisione costante con gli altri operatori, ha consentito di mettere in atto un “prezioso” scambio ed arricchimento sul piano emotivo e professionale. Il lavorare in uno “spazio” comune ha anche permesso di definire profili più completi e validi. Inoltre, il gruppo ha rappresentato uno strumento di lavoro efficace anche per il singolo professionista; grazie ad esso ho potuto finalmente entrare in contatto con le storie vere delle persone e non solo con le loro vicende giudiziarie.

Il gruppo mi ha offerto uno spazio di osservazione più attendibile degli individui, consentendomi di conoscerli in modo più approfondito, anche alla luce dei loro rapporti con i figli e con il partner.

 

Adriana Delinea e Filomena Scarpa, assistenti sociali

 

L’esperienza della partecipazione al progetto “Genitorialità responsabile” ha dato modo a questi operatori di trarre considerazioni di diverso tipo. In primo luogo il particolare contesto carcerario, le particolari categorie dei detenuti coinvolti e la delicatezza dell’argomento trattato avrebbero potuto presentare notevoli difficoltà di approccio e di gestione, che tuttavia, dopo i primi incontri, si sono rivelati facilmente superabili, proprio per il coinvolgimento che l’argomento ha determinato in tutti i partecipanti. Il coinvolgimento degli operatori ad un’esperienza inconsueta, oltre che consentire una verifica delle proprie capacità umane e professionali, ha permesso agli stessi di creare e sperimentare reale collaborazione ed interazione con le altre figure professionali con le quali già ci si rapporta in sedi diverse.

In secondo luogo la conoscenza più approfondita dei detenuti, già sottoposti ad osservazione o a trattamento, ha fornito agli operatori ulteriori risorse utili nella valutazione finale del percorso osservativo e la convinzione che occorre individuare strumenti trattamentali diversificati ed in un certo senso innovativi e più vicini ai vissuti emozionali dei detenuti, per aiutarli a procedere ad una rielaborazione anche dei vissuti devianti.

In terzo luogo si è osservato che la composizione del gruppo dei detenuti del circuito dell’Alta sicurezza avrebbe richiesto una più accurata conoscenza dei detenuti stessi da parte di tutti gli operatori, per avere una maggiore facilità di gestione delle dinamiche del gruppo e per evitare la possibilità di eventuali tentativi di operazioni di orientamento forzato nelle scelte del gruppo stesso. Grazie alla formazione dei sottogruppi ed all’intervento diretto delle singole figure professionali coinvolte, gli operatori ritengono che si sia riuscito ad evitare dinamiche distorte ed a fornire sollecitazioni raccolte, nella maggior parte dei casi dai detenuti coinvolti.

Nel complesso l’esperienza è risultata abbastanza gratificante sul piano personale e lavorativo, anche per le ricadute sulle attività professionali all’interno dell’istituto e per la tangibile, diversa percezione che i detenuti hanno avuto degli operatori, con i quali hanno avuto occasione di interagire in un’ottica diversificata rispetto a quella con cui normalmente si relazionano con gli stessi.

 

Antonietta Converso e Armando Madeo, psicologi

 

La dimensione del gruppo è una scoperta continua, è uno spazio dinamico che una volta attivato permette di avvicinarsi a contenuti e ad esperienze non prevedibili. L’attesa di risultati per un gruppo con dei detenuti, all’inizio non era molto alta. Tante erano le resistenze e i timori che le cose avrebbero potuto non funzionare a dovere. Una volta nel gruppo però, la prima e più conosciuta definizione di gruppo, quella di K. Lewin si è realizzata con tutta la sua forza: “Un gruppo è qualcosa di più, anzi di diverso della somma dei suoi componenti”.

Noi, infatti ci attendevamo che mettendo insieme delle persone detenute avremmo dovuto combattere con le difese e gli atteggiamenti prevenuti di più individui che mai si sarebbero aperti alle nostre stimolazioni.

Invece, con sorpresa, abbiamo dovuto prendere atto che, quelle persone, condividendo uno stesso spazio sono divenute GRUPPO e, insieme, si sono messe in gioco, hanno parlato e hanno mostrato molta parte di loro, che nemmeno in cento colloqui individuali sarebbero venute fuori.

Il gruppo quindi funziona, funziona molto bene anche con i detenuti e sta a noi cercare di approfondire ed affinare l’uso di questo strumento, che da solo, se utilizzato con competenza, può consentirci di attivare processi di conoscenza e di cambiamento veramente efficaci e duraturi.

 

 

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