Diritti da tutelare

 

I diritti dei detenuti devono essere resi esigibili

A Brescia, il Garante delle persone private della libertà personale,

coordina anche il “Tavolo permanente in materia di esecuzione penale”,

che ha il compito di promuovere iniziative ed intese a tutela delle

persone ristrette nelle carceri, di agevolare il reinserimento

delle persone detenute e occuparsi dei problemi delle loro famiglie

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Iniziamo, con l’intervista a Mario Fappani, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, una serie di articoli dedicati a questa figura importante, che molti Enti locali hanno già istituito, nell’attesa che venga approvata la legge, che prevede la figura del Garante nazionale. Lo facciamo con la consapevolezza che oggi più che mai, in un clima in cui cresce la voglia di negare qualsiasi diritto alle persone incarcerate, è importante che ogni territorio, che ha un carcere, abbia anche un Garante che in qualche modo si occupi di rendere esigibili per i detenuti quei diritti, che altrimenti resterebbero pura teoria.

 

Quando è cominciata la sua attività di Garante delle persone private della libertà personale?

Il Garante è stato istituito dalla Giunta comunale di Brescia nel giugno del 2005. Tale scelta è conseguente all’impegno assunto dal Comune nel promuovere la partecipazione attiva alla vita civile, assicurare i diritti di cittadinanza, accesso ai servizi e al lavoro a tutti i cittadini.

Nelle persone private della libertà personale, il Comune stesso ha riconosciuto alcuni fra i più deboli ed esclusi dalla pienezza all’esercizio dei diritti e delle opportunità di promozione umana e sociale e, in collaborazione con lo Stato titolare delle funzioni amministrative in materia di sicurezza di polizia e esecuzione della pena, intende garantire a tutti, cittadini e non, domiciliati o residenti, la fruizione dei servizi e le varie forme di partecipazione alla vita civile della città.

Il quadro è palese: tutte queste nomine di “figure ad hoc di garanzia” evidenziano un dato incontrovertibile, e cioè la convinzione che i diritti fondamentali delle persone ristrette nella libertà personale devono essere garantiti ma anche resi esigibili.

 

E quali sono gli obiettivi del Garante?

Ai sensi del dettato Costituzionale (art. 27, comma III) la persona privata della libertà personale perde solo il diritto alla libertà di movimento, ma mantiene tutti i diritti fondamentali, quali il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione e formazione, ma non sempre è così. Anzi, allo stato attuale, tali diritti sono ben lungi dall’essere garantiti, in particolare ai cittadini che si trovano ristretti in carcere, siano essi in attesa di giudizio o condannati in via definitiva.

Un miglioramento effettivo della condizione in cui versano i detenuti delle carceri cittadine può passare solo, a mio avviso, attraverso una triangolazione costante di rapporti tra popolazione carceraria, direzione delle carceri e amministrazioni pubbliche, oltre al coordinamento e al sostegno del prezioso lavoro svolto dalle associazioni di volontariato e dalle organizzazioni del terzo settore (mondo della cooperazione in primo luogo).

 

Abbiamo letto dell’istituzione di un Tavolo penale. Di cosa si tratta e chi vi partecipa?

Si tratta di un prezioso strumento per la realizzazione del rapporto triangolare di cui parlavo. È il “Tavolo permanente in materia di esecuzione penale” previsto dalle linee guida della Direzione generale famiglia e solidarietà della Regione Lombardia. Al Tavolo penale viene affidato il compito di promuovere iniziative ed intese a tutela delle persone ristrette nelle carceri, di realizzare servizi e interventi riguardanti il disagio adulto e minorile, di agevolare e facilitare il reinserimento e la tutela delle persone detenute e delle loro famiglie. Nel marzo del 2006, la Giunta comunale ha affidato il coordinamento di tale organismo al mio Ufficio. Al Tavolo penale partecipano i direttori degli istituti penali, dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, dell’ufficio dei Servizi sociali Minori del Ministero della Giustizia, dell’ufficio Servizi Sociali disagio adulto grave del Comune di Brescia, rappresentanti dei 12 distretti A.S.L., della Provincia di Brescia, delle associazioni di volontariato operanti sul territorio, il direttore del Servi­zio sociale dell’A.S.L. e del Ser.T., rappresentanti delle cooperative sociali, agenti di rete e quanti, a seconda dell’argomento trattato nei vari incontri, operano sul territorio e coprono ruoli ai quali ci si può riferire per la soluzione delle questioni affrontate.

 

Quindi la società e gli enti locali “rispondono” alle sue richieste?

Ritengo che parte della società bresciana sia attenta e sensibile alle problematiche relative alla detenzione, anche perché sollecitata dalla stampa locale che dà ampio risalto alle questioni carcerarie; se da parte del Comune di Brescia è tangibile il sostegno ai vari progetti presentati, da parte del mondo imprenditoriale, nonostante le continue sollecitazioni, si riscontra invece un atteggiamento di chiusura.

 

Incontra spesso le persone detenute?

Il felice atteggiamento della direzione delle carceri, nella persona del direttore dott.ssa Mariagrazia Bregoli, che mi ha fornito la sua immediata e piena disponibilità, mi ha permesso di incontrare periodicamente la popolazione carceraria e di rapportarmi costruttivamente all’istituzione penitenziaria che, spesso, si rivolge al Garante per snellire le pratiche burocratiche in rapporto alla pubblica amministrazione o per sottoporgli particolari problematiche. Di fatto ho sempre goduto di libero accesso e posso incontrare quando ritengo opportuno la popolazione carceraria. Si è stilato, concordemente alla direzione, un calendario di mie presenze in carcere che mi permette di incontrare i detenuti che abbiano fatto formale richiesta con “domandina”.

In questi incontri privati i detenuti mi sottopongono i loro bisogni, richieste di vario genere e/o problemi generali relativi alla vita carceraria, da cui derivano disagi e sofferenze cui possibilmente porre rimedio in collaborazione con la direzione e il personale dell’istituto di pena (educatori, personale sanitario, agenti penitenziari e volontari).

Tutti i detenuti che si sono relazionati all’ufficio del Garante tramite colloquio o scritti, attraverso i legali o i familiari, hanno lamentato la scarsità di colloqui con gli educatori, numericamente insufficienti, e, per questo motivo, nelle nostre carceri, da qualche tempo, hanno preso servizio due Agenti di rete provenienti da realtà di volontariato a fianco degli educatori presenti per coadiuvarli nella loro attività. È un’esperienza all’avanguardia nelle carceri italiane, che va ascritta a tutto merito dell’ottimo lavoro da tempo espletato dall’associazione Carcere e Territorio e dalle realtà cooperative che con essa interagiscono, nonché al sostegno economico della Regione Lombardia.

 

E la vivibilità dei ristretti com’è?

Il sovraffollamento ante indulto obbligava alla convivenza di 5/6 detenuti in celle previste per 2 persone. Una situazione di manifesta insopportabilità e certamente irrispettosa delle più elementari norme di convivenza, oltre che rischiosa dal punto di vista igienico-sanitario. Dopo pochi mesi di relativa tranquillità, la situazione in ordine alle presenze dei detenuti si sta facendo nuovamente preoccupante. Basti pensare che alla data odierna in carcere risultano presenti oltre 320 persone di cui i 2/3 sono stranieri. Il quadro si fa ancora più sconsolante se si pensa che almeno un terzo dei detenuti si trova ristretto per reati inerenti il mondo della tossicodipendenza, la maggior parte dei quali è affetto da patologie plurime riconducibili all’uso di sostanze stupefacenti.

 

Ci sono opportunità lavorative?

È una cosa sconsolante. Diceva anni fa, il dott. Giancarlo Zappa*, che “il lavoro penitenziario è l’elemento principale nel trattamento rieducativo, finalizzato com’è a promuovere il processo di modificazione degli atteggiamenti antisociali dei condannati. Sul piano concreto e storico, bisogna ammettere che si sono fatti passi indietro nel senso che le possibilità offerte dall’Amministrazione penitenziaria si sono ridotte al lumicino e riguardano un numero di soggetti del tutto trascurabile. Nel carcere ordinario, oggi come allora, non si va praticamente oltre il lavoro ‘domestico’, comprendendo nel termine anche i lavori di ordinaria e piccola manutenzione degli immobili”.

Ebbene, rispetto a queste considerazioni di oltre dieci anni fa, il quadro si è fatto ancor più critico perché, a fronte dell’aumento inarrestabile della popolazione carceraria, nessun passo significativo è stato compiuto per offrire ai detenuti un’occupazione lavorativa, se si eccettuano alcuni interventi da parte delle cooperative sociali, e le carenze riguardano anche il lavoro esterno.

Accade così che la Magistratura di Sorveglianza e la direzione del carcere, anche volendo, non possono concedere ai detenuti l’accesso alle misure alternative al carcere (semilibertà, affidamento ai Servizi sociali, articolo 21), misure che rappresentano una tappa importante sulla strada del trattamento rieducativo.

 

Avete fatto anche un tentativo per tutelare maggiormente i rapporti affettivi…

Fra i tanti problemi che affliggono il carcere quello dell’esercizio della “genitorialità” è di certo tra i più delicati e rilevanti. Dalla direzione e dalla rappresentanza dei detenuti mi è stato chiesto un aiuto nell’organizzazione dei colloqui con i bambini, in quanto attualmente questi possono svolgersi solo in un locale fortemente inadeguato alla privacy e al rapporto affettivo. L’esercizio della “genitorialità” infatti, oltre che un diritto, comunque da garantire pur nei limiti della condizione di restrizione, rappresenta un fatto spesso decisivo in relazione alla rieducazione del condannato e alla educazione dei suoi figli, essendo noto infatti quanto possa essere problematica la formazione di un bambino privo del rapporto quotidiano con i genitori rispetto al suo futuro.

A tale proposito, sono intervenuto per favorire fra la direzione del carcere ed il Comune di Brescia la stesura della bozza di una convenzione con il Servizio Biblioteche finalizzata all’utilizzo della biblioteca limitrofa a Canton Mombello. Si era individuato uno spazio consono a tali delicatissimi colloqui, al fine di rendere il meno traumatico possibile il rapporto dei minori interessati con i detenuti, anche tramite la presenza di volontari. Purtroppo, ad oggi, il progetto non ha ancora potuto decollare per difficoltà insorte nella traduzione dei detenuti dal carcere alla biblioteca stessa.

 

Ora, dopo l’indulto, le cose andranno meglio…

Macchè, la situazione è drammaticamente inaccettabile: prima dell’indulto Canton Mombello ospitava circa 500 detenuti maschi, la metà in attesa di giudizio e i restanti definitivi, ricorrenti o appellanti, mentre la capienza considerata regolamentare dal Ministero competente si attestava sui 206 posti-letto e quella tollerabile sui 298. Dopo un primo momento di notevole alleggerimento della popolazione carceraria (da un totale sulle due carceri di 604 detenuti, si era scesi a 382, con 222 indultati), nonostante a distanza di un mese vi fosse stata una sola recidiva e alla luce del fatto che l’effetto indulto sia ancora in atto, le presenze sono a 450 detenuti.

Ma parto più da lontano. Il 2006 è iniziato con l’approvazione della legge sugli stupefacenti, la Fini-Giovanardi, e le previsioni di applicazione di questa normativa, assieme alla legge ex Cirielli per la parte sulla recidiva e alla legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, erano di un aumento del numero dei detenuti oltre ogni limite di sopportabilità. A fine luglio il Parlamento ha votato con l’ottanta per cento dei voti favorevoli il provvedimento di indulto. Quali riflessioni ha posto l’indulto a chi presta un’attenzione non distratta ai problemi penitenziari?

Prima di tutto ha messo in luce una applicazione ridotta delle misure alternative per l’insussistenza di condizioni che ne rendessero praticabile l’esercizio (mancanza di lavoro esterno al carcere e di soluzioni alloggiative): infatti molti dei detenuti definitivi usciti grazie all’indulto erano nei termini per usufruire di programmi di accompagnamento al ritorno in società, ma stavano ammassati negli istituti di pena e, non lo si dimentichi, pesavano sui bilanci dello Stato in misura rilevante e sconosciuta ai più. Da un’indagine del “Sole 24ore” del 18 gennaio 2006 risultava che i costi delle carceri erano altissimi e così quantificati: ogni detenuto costava allo Stato 131,67 € al giorno contro i 63 dollari degli Stati uniti (52,5 €); di fronte ad un organico di 43.000 unità di agenti di Polizia penitenziaria, c’era un agente ogni 1,4 detenuti, contro una media europea di 1 agente ogni 3 detenuti e quella americana di 1 ogni 7 reclusi.

In secondo luogo, l’indulto ha reso evidente che chi esce dal carcere è solo con il suo sacco di plastica nera dell’immondizia, perché il welfare non ha risorse per gli ultimi o ha altre priorità. Ma ha anche evidenziato come la giusta preoccupazione che l’improvvisa liberazione di detenuti, non accompagnati negli ultimi anni di detenzione antecedenti la fine della pena, senza un indispensabile programma di recupero e reinserimento nella società, possa ampliare di molto i rischi della recidiva. Questa preoccupazione dovrebbe permettere l’apertura di un dibattito più ampio sulla necessità di ampliare la possibilità di occupazione esterna e di sistemazioni alloggiative per i detenuti che scontano gli ultimi anni della pena, così da permettere alla Magistratura di Sorveglianza ed agli Uffici Esecuzione Penale Esterna l’attuazione di un efficace programma di accompagnamento al necessario reinserimento.

 

Reinserimento molto più facile in caso di concessione di misure alternative alla detenzione…

Studi sul tema della recidiva offrono un illuminante quadro: i casi di recidiva, nei sette anni seguenti alla liberazione, di detenuti interessati da misure alternative si attestano su una percentuale di recidiva al di sotto del 20 per cento, mentre la percentuale di recidiva riguardante i detenuti non opportunamente accompagnati, si attesta su una cifra superiore al 70 per cento. Questione questa che resta di grande, scottante attualità perchè, indulto o non indulto, i detenuti italiani dal carcere escono comunque ogni giorno una volta scontato il loro debito con la giustizia. Infine, l’indulto ha denunciato la presenza di una detenzione sociale di massa costituita per lo più da immigrati e da tossicodipendenti che, non dovrebbero né entrare né stare in carcere.

 

Che “messaggio” manderebbe oggi alla società?

Una lettura, anche non approfondita, dei compiti affidati al mio Ufficio da parte del Consiglio comunale, offre il panorama dei tanti obbiettivi da perseguire per allacciare un ponte tra il carcere e la società civile tramite le istituzioni pubbliche, fra le quali un ruolo fondamentale può e deve essere svolto dall’amministrazione più vicina ai cittadini quale è quella comunale.

Di questi compiti quello più importante è, a mio parere, la comunicazione sull’identità del carcere. Si tratta, come afferma in un suo articolo di presentazione alla mostra della Triennale di Milano “Oltre le sbarre”, Candido Cannavò, di svolgere una sorta di missione morale, e cioè: “Far capire alla gente che il carcere non è una pattumiera e che dietro le sbarre vivono persone con dignità, intelligenza, fantasia, speranza. Donne e uomini sul crinale di uno strapiombo: una piccola spinta basta a perderli ma, se allunghi loro una mano, possono ancora essere recuperati nella società. Di questa realtà molta gente è del tutto ignara. Il rapporto tra il pubblico e il carcere è dominato dalla riluttanza o, nel migliore dei casi, dall’indifferenza. Il carcere è un pensiero sgradevole, una bruttura da rimuovere dalla mente, un posto che ti induce a girare lo sguardo dall’altra parte, se ci passi davanti. Quanto di più bieco, sbagliato e controproducente”.

Negli incontri con singole persone e realtà associative varie nelle circostanze che mi hanno permesso di parlare del carcere, le mie sensazioni erano sempre uguali, un muro all’inizio, la graduale presa di coscienza e poi il senso, talvolta commosso, della rivelazione: scoprire i dolori, i sentimenti e i diritti di un luogo infido e proibito che non ci è arrivato da una maledizione celeste, ma fa parte delle nostre società come una delle tante patologie con le quali siamo chiamati a convivere.

Se il mio Ufficio, tra le tante iniziative assunte e da assumere, potrà svolgere almeno questo ruolo fondamentale, e cioè un pressante invito ad aprire gli occhi e a spingersi al di là delle mura su qualcosa che non possiamo né ignorare né dimenticare, la mia coscienza si acquieterà nella convinzione di aver svolto un compito fondamentale nella difesa della dignità di ogni persona, al di là anche dei deprecabili reati commessi.

 

* Giancarlo Zappa è stato Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, dal 1978 al 1997.

Tra i molti incarichi che ha avuto a livello nazionale, vale la pena ricordare la sua qualificata partecipazione al gruppo di lavoro che ha prodotto la Legge Gozzini (1986) sull’ordinamento carcerario.

 

 

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