Parliamone

 

Vedi alla voce “recidivi”

Non esiste una categoria “recidivi”, esistono tante storie troppo diverse per essere messe a confronto. E anche le statistiche servono a poco. Ne abbiamo parlato in redazione per “tenere alta la guardia”, perché interrogarsi sulla cause della recidiva non cura il male, ma almeno aiuta a cercare piccole possibili soluzioni

 

a cura della Redazione

 

Interrogarsi sulla recidiva dopo l’indulto è quasi d’obbligo, se si pensa che dall’inizio di agosto il mondo è pieno di gente che sta a fare la conta dei rientri e a catalogare le persone che subiscono reati come “vittime dell’indulto”. Ma i numeri e le statistiche, per quel che riguarda la recidiva, non aiutano, anzi a volte appiattiscono un problema, che di semplice non ha niente. Prima di tutto ci sono intere categorie di “recidivi” che hanno poco a che fare con i delinquenti comuni: i tossicodipendenti per esempio, che continuano a commettere reati certo non per arricchirsi, ma anche tanti immigrati che hanno sommato montagne di condanne per pure violazioni della Bossi-Fini. E ancora, quelli che non reggono perché non hanno mai vissuto con uno stipendio fisso di mille euro al mese, e quelli che non ce la fanno per disperazione e solitudine, e ancora, quelli che non riescono a togliersi di dosso l’etichetta di “ex detenuto” e si sentono condannati all’emarginazione, e quelli che tornano a commettere reati perché non sanno fare altro. Insomma, una realtà fatta di tante realtà, di cui siamo tornati a parlare in redazione. Di una cosa, comunque, siamo certi: per combattere davvero la recidiva, bisogna che la pena sia più vicina alla condanna, che le persone non vengano arrestate, rilasciate, e poi rimesse in galera dopo anni, perché così non è possibile costruire niente.

 

Ornella Favero: Vorrei che tornassimo sulla questione della recidiva. Ne abbiamo parlato molto quando c’è stata l’approvazione della ex Cirielli (N.d.R.: la legge che aggrava le pene per i recidivi e rende loro più difficile l’accesso alle misure alternative). Ora la questione è di nuovo al centro dell’attenzione dopo l’indulto, usata in modo strumentale dai media, e comunque non si può ignorarla, anche perché informare per noi deve voler dire far capire che non esiste una categoria “recidivi”, ma esistono tante storie diverse. Come si fa a pensare che il tossicodipendente che ruba per procurarsi la roba sia della stessa “categoria” del rapinatore che, dopo anni di carcere, esce e torna alla vita di prima perché non riesce ad adattarsi a una vita “normale”?

Marino Occhipinti: Sulla recidiva dei tossicodipendenti si fa fatica a parlare: non dico che è inevitabile, ma quasi purtroppo. Mentre invece casi come quello che abbiamo letto di recente, di uno che ha fatto venti, venticinque anni di carcere per reati come rapine a mano armata e simili, è in semilibertà e dopo un po’ di nuovo si fa tentare dai giri di una volta e rientra nel mondo della malavita, sono veramente la dimostrazione scientifica che in tanti casi il carcere non serve a niente.

Ornella Favero: Ma sono i soldi il motore che spinge le persone a tornare a commettere reati? È l’incapacità di adattarsi a fare quello che fa la gran parte degli italiani, cioè vivere con 1.000 euro al mese?

Elton Kalica: Penso che la cosa possa essere diversa per certe persone, che hanno fatto parte sempre del mondo della malavita. Molto spesso i soldi ce li hanno, dunque non avrebbero bisogno di fare rapine, penso che sia soprattutto uno stile di vita, la notorietà, la fama anche in negativo, il bisogno di essere sempre al centro della scena, perché è gente che fin da giovane è stata abituata ad avere l’attenzione di chi gli stava intorno per le “imprese” che faceva, e anche in carcere li hanno “rispettati” per il nome che avevano. Poi escono fuori, a 50 anni e più, e si trovano magari che al loro quartiere la gente non li saluta più perché i giovani non li conoscono, allora forse gli ritorna quella smania di dimostrare che sono qualcuno, “così parlano ancora di noi”.

Marino Occhipinti: Probabilmente uno si ritrova dopo 20 anni di galera a fare un lavoro faticoso da qualche parte, e uscire la mattina e rientrare la sera in carcere, senza nessuna prospettiva di miglioramento della sua condizione, e secondo me la voglia di dimostrare, più che agli altri a se stesso, che è ancora qualcuno è forte: ho visto che succede spesso nelle persone che finiscono in carcere che se qualcuno ti dimentica vuoi far vedere in tutti i modi agli altri che esisti ancora.

Ernesto Doni: Se io devo dire una mia opinione di quando sono uscito dal carcere, le cose sono andate così: sono uscito e mi sono sempre trovato in mezzo ad una strada. Adesso posso dire che sono un po’ guardato, sono un po’ curato. Io però ho paura che quando esco, se torno a Milano, sono rovinato un’altra volta.

Ornella Favero: Quindi la galera non è affatto un deterrente, cioè dopo tutti questi anni di galera a me sconvolge sentir dire: se vado lì perché ci sono i vecchi amici, rischio di restare di nuovo invischiato nelle vecchie storie, di farmi tentare da un ambiente che conosco, che è rassicurante, dove sanno chi sono. Ma Ernesto, quanti anni di galera hai fatto?

Ernesto Doni: 19 anni, è pesante, ma io ho paura di tornare dentro per questo: perché se vengo dentro ancora muoio qui stavolta.

Elton Kalica: Ernesto ha detto una cosa alla quale credo si debba dare molta importanza: “Se io vado a Milano”. “Se” comporta una scelta, è ovvio che se tutti noi scegliamo di andare a trovare i tipi “giusti” del quartiere da dove veniamo, siamo tutti destinati a rientrare in carcere, ma non è affatto scontato che lui esca fuori e scelga di andare a trovare i suoi vecchi amici a Milano. Quindi quello che ha detto lui riguarda tutti. Anche io se, quando esco, faccio la scelta di tornare a casa mia, prendo e vado nel mio quartiere e so chi sono i delinquenti, se vado là, li trovo li bacio li abbraccio, bevo, mangio con loro, andiamo in discoteca insieme, è ovvio che dopo due sere mi dicono: “Dai che c’è da fare un lavoretto oggi, vieni anche tu”. Però se io ho cambiato testa e scelgo di fare una vita regolare, evito di frequentare gli stessi posti, e quando vedo i vecchi amici, li saluto e basta.

Sandro Calderoni: C’è un altro aspetto della recidiva da considerare. Quando una persona esce dal carcere per lavorare all’esterno, sul posto di lavoro vive sempre con l’ansia che qualsiasi cosa succeda sarà lui il primo sospettato, sarà lui a essere preso di mira, e difficilmente avrà la possibilità di fare una vita “normale”, quindi dove va, dove finisce se non a continuare a fare i reati che ha fatto? anche questo è un motivo di recidiva, credo.

Ornella Favero: Quando diciamo che la persona che esce dal carcere si porta addosso molti pregiudizi, questo è vero da una parte, però se vogliamo essere onesti e realisti dobbiamo dirci che non si tratta sempre di pregiudizi, ma di una mancanza di fiducia che a volte si basa su fatti reali, su un passato che non si cancella così in fretta.

Alberto Xodo: Sì, ma spesso, quando hai commesso dei reati, alla fine paghi anche per delle cose che non hai fatto, non ne sapevi nulla e alla fine sei indagato per questi fatti, con sommari indizi, per esempio se nei paraggi di dove vivi tu a commettere un reato è stato uno con una certa corporatura o i capelli messi in un certo modo, allora devi essere tu per forza.

Ornella Favero: Una persona che è entrata ed è uscita dal carcere e ha commesso varie volte lo stesso genere di reati, o il tossicodipendente per esempio che ha rubato, che per la roba non ha guardato in faccia nessuno, secondo me non può parlare di pregiudizi se poi le persone che gli stanno intorno sono diffidenti nei suoi confronti. Allora distinguiamo le cose: se le forze dell’ordine ti sospettano sempre e comunque, vengono da te così senza prove, ti perseguitano senza motivo per quel che sei stato, questo è sbagliato. Però se tu sei in un posto di lavoro e lavori con dieci cittadini che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia e tu sei uno che ha fatto dentro e fuori dal carcere parecchie volte, allora io chiedo: ma voi di chi sospettereste se ci fosse un furto in un ambiente del genere?

Elton Kalica: Secondo me il fatto di essere etichettato come criminale influisce sulla vita di uno che è stato in carcere su due aspetti: uno nella vita quotidiana, e lì l’etichettamento ti spinge magari a vivere male, e non riesci a integrarti nella società o nel gruppo delle persone “per bene” perché sono tutti prevenuti, ti mettono un’etichetta di ex detenuto, di ex galeotto, di ex criminale, hanno la puzza sotto il naso, e tu allora ti dici “Meglio se vado coi compagni miei”. Ecco, questa è già una causa di delinquenza, mentre c’è un altro aspetto dell’etichettamento che è quello dei giudici, o dei poliziotti, e questo etichettamento ti porta in galera. Perché se tu vai di fronte ad un giudice, togliamo i casi in cui si viene arrestati in flagranza che sono pochissimi, la maggior parte delle condanne, dei processi si basa sui testimoni, su cose che dicono gli altri, dichiarazioni di gente che è stata fermata, arrestata o portata in questura o in carcere. Ecco se tu hai un precedente penale, se tu sei stato in carcere sei già al novantanove per cento colpevole, quindi i giudici, e prima ancora la polizia, i carabinieri hanno la convinzione che tu sei colpevole e cercano di trovare elementi su cui basare la loro convinzione, e spesso questo porta il giudice a dedicare minore attenzione ai fatti reali, alle prove. Come dire: ma certo che è stato lui, tanto lo ha già fatto... la cosa più grave però secondo me è il primo piano, è la vita comune, perché tu esci fuori e vedi che chi ti circonda, sia dove vivi che sul posto di lavoro, ti guarda dall’alto in basso. Questo lo sopporti una volta, due, ma la terza volta, visto che sono tutti o quasi “impermeabili” nei tuoi confronti, vai a trovare quegli amici che ti accettano per quello che sei, e però poi stando in compagnia con loro c’è naturalmente un maggior pericolo di ritornare a delinquere.

Graziano Scialpi: Sì, però io ho conosciuto gente che ha precedenti penali, e certamente sono andati a cercarli quando è successa una rapina nella zona dove stanno loro, ma se c’è stata la rapina e tu invece eri sul posto di lavoro, le forze dell’ordine angherie più di tanto non te ne fanno.

Elton Kalica: Proviamo però a pensare alla percentuale di recidivi che è dentro per rapina e ai recidivi che sono dentro per spaccio di stupefacenti: dei circa 500 detenuti che sono qui sono sicuro che per rapina ce ne saranno 20, il resto sono tutti per spaccio, e i recidivi per spaccio di stupefacenti spesso li arrestano perché c’è uno che, quando lo beccano con un grammo e gli chiedono “Chi è che te l’ha venduta?”, risponde magari “Elton”. E allora c’è poco da provare che Elton stava al lavoro, perché se Elton è stato una volta in carcere per spaccio e c’è un tossicodipendente che dice che si è procurato lo stupefacente da Elton, Elton viene automaticamente condannato.

Michele Cappabianca: Io per esempio, a un certo punto della mia vita ho lasciato il mio passato alle spalle e mi sono trasferito in un’altra città dove nessuno mi conosceva, ma i carabinieri, quando mi fermavano, la prima cosa che guardavano erano i precedenti penali, in base ai precedenti che avevo loro mi giudicavano: mi facevano controlli, mi perquisivano la macchina. Il problema è: se io mi comporto sempre bene e vado a lavorare, quanto mi possono turbare questi miei precedenti? A dire la verità la gente a me mi ha trattato sempre con cortesia, educazione, rispetto e fiducia, io facevo il muratore, mi davano le chiavi del loro appartamento, ho fatto dei lavori, non mi sono mai comportato male, ho avuto sempre la fiducia, però il problema esiste con le forze dell’ordine, perché magari sei un po’ arrogante, puoi essere prepotente nel modo di fare, io ho un caratteraccio, però mi sono sempre comportato bene, ho avuto una famiglia e lo Stato non mi ha dato niente, anzi tutto quello che mi sono costruito l’ho fatto con le mie forze, basandomi sugli errori della gioventù.

Franco Garaffoni: Comunque bisogna dire anche una cosa, esiste una “recidiva investigativa”, che chiaramente ci porteremo sempre dietro, non cambierà mai niente anche se passano vent’anni: è evidente che, se succederà qualcosa di illegale nel luogo in cui mi trovo anche io, sarò sempre il primo sospettato piuttosto di uno che è incensurato. Così, abbiamo un tipo di recidiva investigativa che non ci toglieremo mai dalle spalle. E occhio, perché giustamente Elton dice una grande verità: se io ho precedenti per spaccio e mi cuccano a parlare con te al telefono e ti dico “Portami la maglietta che hai a casa” e la maglietta è veramente la maglietta, un domani salta fuori un pentito che dice “Garaffoni spacciava cocaina”, e io pago anche se la maglietta era veramente tale e non un modo criptato per spacciare droga.

Ornella Favero: Mi ricordo una ragazza che faceva la ladra di appartamenti, e raccontava che di furti ne aveva fatti tanti, ma ne aveva pagati anche di quelli fatti da altri, che le “attaccavano” perché magari erano avvenuti nella stessa zona e non si erano trovati i colpevoli. Ovviamente se uno è recidivo il sospetto diventa quasi certezza, allora, a volte persone recidive finiscono per pagare anche reati che non hanno commesso, così come altri reati commessi sfuggono alla condanna. Questo è un problema, nel senso che una persona recidiva praticamente rischia di essere condannata a non uscire mai da questa spirale senza fine, perché anche nel momento in cui “appende al chiodo gli attrezzi”, e dice basta, se la troverà per anni probabilmente questa persecuzione. Però, io voglio fare l’avvocato del diavolo sulla questione che Franco, per esempio, ha chiamato “recidiva investigativa”: il pregiudizio, il fatto che tu sarai sempre quello sospettato, torno a ripetere che per questa questione qui, secondo me, scusate, ma una persona recidiva non si può lamentare più di tanto.

Sandro Calderoni: Io però vorrei almeno spiegare il problema che un recidivo ha rispetto alla vita di una persona normale. Per esempio mi ricordo quando ero ragazzo, e il Questore applicava l’articolo 1 (si tratta della legge n. 1423 del 27.12.1956, detta anche legge Tambroni, che prevede l’irrogazione di una serie di misure limitative della libertà a chi sia sospettato di mantenersi, anche solo in parte, con i proventi di reati, o di compiere abitualmente reati. La procedura prevede la notifica da parte del Questore di un “avviso orale” con l’invito a cambiare condotta di vita): non avevi reati, magari eri un po’ casinista, cose che si fanno da ragazzi, ti danno l’art. 1, l’invito a cambiare vita. A me, quando avevo 17-18 anni, l’articolo 1 l’hanno dato soprattutto per le chiacchiere di paese. Il fatto che comunque cominciano a darti misure del genere ti porta ad isolarti, a quel punto lì ti crei anche delle amicizie in ambienti di un certo tipo, perché lì trovi persone che magari sono isolate pure loro, così si crea tutta una catena senza fine che porta all’esclusione, e questo un po’ succede anche quando uno esce di galera, quindi a volte è l’isolamento che ti creano intorno a portarti a frequentare persone che hanno precedenti penali e a tornare in certi giri rischiosi.

Graziano Scialpi: Se io fossi un ascoltatore esterno sinceramente ti direi: sì, tu ti trovi perseguitato per tutta la vita, ma anche le vittime dei reati, anche i parenti di quello lì che gli hanno ammazzato il figlio durante una rapina, per tutta la vita se la tirano dietro, una storia così, anche quelli che sono rimasti scioccati, anche quelli che hanno subito il trauma di trovarsi l’appartamento buttato per aria, se la tirano dietro per tutta la vita. Ma la questione che rimane in sospeso è che c’è un 70 per cento di persone che continuano a commettere reati, o no?

Io sarei in difficoltà, se a me ponessero questa domanda: di tutta la gente che conosci in galera, su quanti scommetteresti dei soldi che escono fuori e vanno a lavorare otto o dieci ore al giorno e si accontentano di 800 euro al mese, e la sera stanno buoni in casa a guardare la televisione perché non hanno i soldi?

Piergiorgio Fraccari: Ma ce n’è stata di gente che è entrata la prima volta e, forse perché ha preso paura del carcere, ha capito tante cose e non è più tornata. Io posso portare l’esempio di gente incensurata che aveva una piccola attività, che si è trovata coinvolta con la droga, con la droga non devi metterti il passamontagna per fare rapine, non devi rischiare andando a rubare, ti danno in mano qualcosa, è facile fare i soldi. Quelli lì sono usciti e non sono più rientrati. Sono stati capaci di riprendere una vita normale, si sono attrezzati, hanno trovato una famiglia che li ha riaccolti.

Sandro Calderoni: Io volevo rispondere a Graziano che il problema non è che uno è recidivo e vuol fare vittimismo perché è recidivo, il problema è che quando esci sei isolato e difficilmente riesci a rientrare nell’ingranaggio della vita normale: se tu vai in un ambiente di operai, di lavoratori “veri”, raramente riesci a inserirti.

Gabriella Brugliera (volontaria): Sì, io penso che questo problema esiste, però facciamo il caso più eclatante, più semplice di recidiva, che è anche quella forse che più possiamo capire dal punto di vista umano, quello del tossicodipendente. Io sono stata derubata sul luogo dove mi fidavo moltissimo di lasciare tutto tranquillamente, e naturalmente in quel luogo c’era un tossicodipendente, tra l’altro mi legava e mi lega tuttora dell’affetto a questa persona, quindi nessun pregiudizio assolutamente, però nel momento in cui mi succede in un luogo del genere di essere derubata, anche se non ho la prova e anche se non faccio nulla, perché non ho voluto accusare nessuno, è chiaro che il mio pensiero è andato a quella persona. Quindi non è solo una questione di pregiudizio.

Marino Occhipinti: Se fanno un furto dove c’è un pregiudicato ovviamente si pensa subito a lui. Ma anche il Magistrato di Sorveglianza, quando si trova davanti a uno che è già entrato ed uscito cinque, sei volte dal carcere, è logico che ha delle perplessità a concedere i benefici: cioè, poniamo per esempio che tu sei il Magistrato e hai davanti un incensurato che ha fatto un reato grave una volta, e poi invece quello che è recidivo: daresti i benefici più facilmente all’incensurato credo, è una cosa inevitabile.

Ornella Favero: È giusta la domanda, ce la poniamo spesso, è un po’ il senso di questa discussione: quante volte bisogna ritentare e che cosa si può fare perché comunque una persona non sia tagliata fuori e qualche possibilità le sia data. Ma dobbiamo affrontare questi problemi in modo aperto, sincero, perché è un terreno molto difficile su cui si cerca qualche possibile soluzione con grande difficoltà, e con l’ostilità di quasi tutto il mondo. Una domanda poi la faccio, brutale, ai recidivi: che cosa potrebbe farvi cambiare vita? se voi foste lo Stato di cui vi lamentate, su cosa investireste?

Franco Garaffoni: Qui in tanti siamo recidivi, noi sappiamo già il metro di valutazione che useranno con noi una volta che ci presenteremo davanti ad un Giudice. Ma il discorso vero è appunto cosa dovrebbe fare lo Stato, la società. Il fatto è che è automatico che quelli come noi hanno un credito presso la malavita uscendo dal carcere da non pentiti, ma non abbiamo invece, ovviamente, un “credito” di reinserimento presso la società: e qui è l’incongruenza. È la malavita stessa che mi dice: Franco vieni qui che hai un bel cervello, vuoi cominciare a “lavorare”, pronti, perché sa già che la società mi ha condannato, che fuori a livello sociale non trovo niente. Noi abbiamo un “bonus” da spendere presso la malavita, mentre lo Stato ti dà la riabilitazione e poi quando vieni fermato da chi deve essere il garante dell’applicazione delle sue leggi, cioè le forze di polizia chiamate a questo compito, tu per loro, anche se ti sei riabilitato, rimani sempre un pregiudicato. E allora ecco cosa dovrebbe fare lo Stato, rivedere questa situazione, bilanciare questa situazione, secondo il mio punto di vista, e allora ci sarebbe la possibilità di un reinserimento anche di chi esce di galera.

Graziano Scialpi: Io ho visto degli esempi concreti, conosco una persona, recidiva, è finita dentro per rapina e traffico di droga, si è rotta le scatole è uscita e ha cominciato a lavorare, sul posto di lavoro le sapevano queste cose, perché ha iniziato da semilibero a lavorarci. I primi anni i carabinieri, a ogni rapina che c’era in zona, andavano lì e guardavano se era sul posto di lavoro, poi si sono rotte le scatole anche loro, è finita, è stato promosso capo reparto. Adesso, però ha chiuso davvero con la vita di prima, i pregiudicati non li saluta neanche per strada, non si ferma a fare le quattro chiacchiere e a rievocare i vecchi tempi, va a pescare, ha amicizie in altri ambienti. Se te la vuoi costruire davvero, una vita diversa, ce la puoi fare, ma è dura, e non ci sono scorciatoie.

Il “passo del gambero”

L’ostacolo più grosso del dopo carcere è riuscire a cancellare quel senso di impotenza nei confronti del mondo esterno, e convincersi che abbiamo le potenzialità ed i numeri per farcela

 

di Nicola Sansonna

 

Non è facile tentare di capire come mai una persona con un quoziente intellettivo nella norma anche dopo aver provato la durezza della reclusione, l’allontanamento dagli affetti, l’esclusione dalla società civile, decide che per lui è più conveniente commettere un nuovo reato. Anch’io ho fatto il “passo del gambero…” per due volte nella mia vita. La mia situazione con la Giustizia poteva essere risolta nel 1988, ma sono scappato da un permesso e sono stato arrestato dopo diciotto mesi e accusato di una serie di rapine in banca. Un’altra occasione l’ho avuta nel 1995, ma ho resistito sei mesi in articolo 21 (lavoro all’esterno) e poi sono stato arrestato nuovamente, sempre per una rapina in banca. A parte queste parentesi sono detenuto dal marzo 1977.

Analizzando cosa mi ha spinto a decidere la fuga e a commettere nuovi reati nel 1988, la prima cosa che mi viene alla mente è: la voglia di rivalsa. Ero stato condannato, e giustamente, ad una pena lunga, la stavo scontando. Ero entrato in galera che avevo appena compiuto diciannove anni e uscivo in permesso che ne avevo trentuno. Del mondo non avevo visto quasi niente, avevo voglia di fare! Di vederlo! Di avere una donna! Il problema dei problemi per me è stata sempre la fretta nel raggiungere i risultati.

Volevo recuperare il tempo perduto… come si usa dire, ma ho capito poi con il passare degli anni ed in quelle interminabili notti in carcere, in cui la tua vita ti scorre davanti come un brutto film che non vuoi vedere, che il tempo lo si vive giorno per giorno e non lo puoi “recuperare” mai. Diciamo che il mio personale motivo che mi ha portato a commettere nuovi reati nel 1988, dopo undici anni e mezzo di carcere, è stato esattamente questo, la voglia di “riprendermi indietro” il tempo trascorso in galera.

Nel 1995 le cose erano cambiate, mi ero diplomato geometra, uscivo e lavoravo per il Comune di Bologna, avevo avuto ottime opportunità. Ero anche un po’ più maturo, ma non abbastanza, quella maturità non è bastata a farmi desistere dal rapinare un’altra banca. Vedo quell’episodio come un vero suicidio sociale! Era per me un buon periodo: lavoro, amici una ragazza che amavo. Poi accadde qualcosa che sconvolse il mio equilibrio. Fui lasciato, secondo me senza una ragione seria, dalla ragazza e qualcosa scattò in me, come se non me ne fregasse più niente del mio destino.

“Sono nato in carcere, morirò in carcere”, pensavo. Non mi interessava assolutamente niente, ero diventato insoddisfatto, quello che facevo mi piaceva sempre meno, probabilmente senza rendermene conto ero scivolato in una sorta di depressione molto dolorosa, e cara da pagare in termini di anni di galera. Condannato a quattro anni, tra revoche e cose simili mi ritrovai con altri dodici anni da scontare.

 

Non voglio farmi prendere dall’ansia dei risultati

 

Era evitabile questo ritorno al delitto? Chissà se le cose avrebbero potuto andare diversamente… se fossi stato vicino alla famiglia forse… se non avessero assassinato, nel ’92, mio padre, con cui avevo un progetto di lavoro insieme, forse… se non fossero morti pochi mesi prima due miei fratelli, uno di ventinove anni in un incidente d’auto ed un mese dopo l’altro di ventisei anni suicida, forse…. Se, ma, forse. Tutte ipotesi, congetture. La realtà è che commisi nuovi reati.

Ne ho visti passare per la galera, uscire e poi tornare tanti, in ventotto anni di carcere… “Ma che cazzo ci fai ancora dentro? Sei uscito da pochissimo!”: quante volte ho pronunciato questa frase! Avevamo quasi imparato a conoscere le persone e la loro reale possibilità di restare fuori. Su qualcuno ci potevi pure scommettere, che lo avresti rivisto presto. Franchino che era in cella con me a Bologna al giudiziario nel 1992 mi disse: esco se trovo un buon lavoro, una ragazza, una casa, non voglio più tornare a fare cazzate, altrimenti un colpo in banca e mi sistemo! Fu riarrestato dopo un mesetto circa. Non aveva casa, né lavoro, la ragazza quella l’aveva trovata, ma vivere senza lavoro è dura.

Credo che dipenda molto anche da cosa pretendi tu dalla vita che ti si presenta davanti. La fretta che metti nel raggiungere un obiettivo. Io ho imparato a spezzettare i problemi, li vedo nella loro totalità ma li affronto un po’ alla volta senza farmi prendere dall’ansia dei risultati. So che ogni cosa, seppur piccola, che ottengo è un piccolo successo, e quindi non è un fallimento il fatto che, dopo due anni che sono fuori, io non abbia ancora la casa. È un successo che ho preso la patente. È un successo che ho un lavoro che mi piace e che mi permette di vivere decorosamente. È un successo il fatto che ho rafforzato i rapporti con tutta la mia famiglia. È un successo che ho tanti amici ed amiche. Reputo un successo il fatto che è dal 2001 che vado in permesso e ho sempre rispettato tutte le prescrizioni. Sono un successo questi due anni di lavoro esterno.

Penso che sovente la recidiva nasca dall’insoddisfazione della persona per ciò che fa, per ciò che è diventata, per le scarse prospettive che vede davanti. Ma l’ostacolo più grosso è riuscire a cancellare quel senso di impotenza nei confronti del mondo esterno, e convincersi che abbiamo le potenzialità ed i numeri per farcela. Ma certo “farcela” non è facile per nessuno, ed ancor meno quindi per un ex detenuto, anche quando torna ad essere una persona libera.

Ecco perché non mi piace parlare di recidiva, come se fosse un fenomeno uguale per tutti, semplice da capire e da condannare. I perché della recidiva? In realtà sono davvero, parafrasando Pirandello: Uno. Nessuno. Centomila!

Più galera più recidiva

Una legge che impone di tenere chiuso fino all’ultimo giorno il condannato e poi mollarlo senza accompagnamento, orientamento, controllo e supporto non sarebbe soltanto incostituzionale, ma diventerebbe anche pericolosa per quella società che vorrebbe difendere

 

di Elton Kalica

 

La rieducazione dei condannati è molto faticosa. Anzi è un problema che non lascia indifferente non soltanto chi si occupa di carcere e chi in carcere ci deve stare, ma l’intera società impaurita da una informazione sempre più allarmista. Per i “normali” cittadini è un problema sociale ed economico, mentre per i diretti interessati è una questione strettamente personale, dato che riguarda il loro futuro. Non è mica incoraggiante espiare una condanna con la consapevolezza che a fine pena ti ritroverai in mezzo ad una strada e a quel punto dovrai ritornare a rubare o a spacciare. E se questa diventa una certezza, succede spesso che il condannato si rassegni e viva come se lo status di delinquente fosse una condizione permanente. È ovvio, quindi, che così non riuscirai mai a comprendere bene la gravità della tua azione, soprattutto quando i problemi che ti hanno spinto la prima volta a finire in carcere persistono anche dopo aver espiato la pena. Faccio un esempio: vivo in un vagone abbandonato su un binario morto di una stazione ferroviaria, e rubo per mangiare. Mi arrestano e mi portano in carcere. Espiata la pena esco e non trovo neppure il vagone abbandonato, che nel frattempo è stato occupato, cosa faccio per non dormire a pancia vuota? È ovvio che ritorno a rubare.

Trovare una soluzione non è facile. Sono tanti gli studi, fatti da esperti proveniente da campi diversi, che però perlomeno concordano su un punto: chiudere una persona in cella dà poche speranze che la persona in questione abbia capito la lezione e non ritorni più a delinquere. Può darsi che il carcere risponda all’istanza di sicurezza che l’opinione pubblica costantemente avanza, ma bisogna tenere sempre conto che il carcere dovrebbe assolvere anche al compito di restituire alla società individui che si integrino nel tessuto sociale e non ricommettano reati.

 

Più misure alternative: è la “meno peggio” delle soluzioni

 

Se uno finisce la pena e ha già un lavoro, non è certo costretto ad andare a rubare o a spacciare. È vero che c’è chi ritorna a delinquere, ma in generale, quando si esce dal carcere, il primo istinto è quello di stabilirsi da qualche parte e fare una vita tranquilla, ma spesso questo progetto si frantuma per via di mille difficoltà. Naturalmente, il detenuto che non ha potuto seguire un percorso di reinserimento nella società quasi sicuramente si trova a fine pena buttato in mezzo a una strada, senza un soldo e senza lavoro. E tutti i sogni e i progetti di vita finiscono sotto il ponte dove andrà a dormire, o accanto alla panchina del giardinetto dove si metterà a spacciare.

Certamente per la società, che è protagonista della recidiva in quanto vittima, l’unica scelta sensata è che vengano utilizzati tutti gli strumenti possibili per evitare che chi esce dal carcere ritorni a commettere reati. Ma quali sono questi strumenti? Alcuni politici hanno scelto di rendere più duro il carcere, inasprire le pene o, come con la legge ex-Cirielli, di ridurre notevolmente il trattamento rieducativo che il sistema carcerario italiano prevede. Ma di sicuro, rendere più difficile per i recidivi l’accesso alle misure alternative non aiuta a ridurla davvero, la recidiva. Una legge che tende a tenere chiuso fino all’ultimo giorno o quasi il condannato e poi mollarlo senza accompagnamenti, orientamenti, controlli e supporti non è soltanto incostituzionale, ma spesso diventa pericolosa per quella società che la legge stessa dice di difendere.

Diversi sono gli studi sulla recidiva fatti da enti specializzati e tutti inevitabilmente giungono alla conclusione che la recidiva non si può cancellare, ma si può abbassare di molto quando i detenuti arrivano al fine pena passando per un percorso diverso dal carcere. Quindi facilitare l’accesso alle misure alternative ai detenuti può essere moralmente inaccettabile per chi evoca risposte dure e punizioni severe in nome di un ambiguo concetto della certezza della pena, ma fino ad oggi tutte le politiche repressive non hanno funzionato e quella delle misure alternative al carcere pare essere la soluzione meno peggio.

Ad una tale conclusione è giunta ad esempio l’indagine svolta nella provincia di Trento (1) sugli affidati in prova al servizio sociale nel periodo 1985-1995. Alla fine dello studio, si è rilevato che la prova dell’affidamento si era conclusa positivamente per il 90% dei casi.

In seguito si è andati a vedere anche quanti di loro hanno avuto problemi con la giustizia a una certa distanza dal fine pena. Lo studio ha evidenziato che tra le persone ammesse alla misura di affidamento in prova ai servizi sociali soltanto il 40% dei casi ha avuto di nuovo problemi con la giustizia a distanza di anni. Un’indagine più estesa ha fatto emergere un dato interessante: chi era alla prima condanna, dopo la prova dell’affidamento, ha avuto una minore ricaduta. Infatti soltanto il 20% dei non recidivi ha avuto problemi con la giustizia. Bisogna ricordare che il tasso di recidiva su chi esce direttamente dal carcere si aggira intorno al 70%.

Dello stesso tenore è anche il progetto di ricerca sulla recidiva “Misura”, svolto in Toscana (2). I risultati infatti hanno dato ragione a chi sostiene che le misure alternative abbassano il tasso della recidiva: soltanto il 30% delle persone in misura alternativa ha commesso un altro reato nei cinque anni successivi alla fine della misura di affidamento. Questo dato coincide anche con la bassa percentuale delle revoche per andamento negativo dell’affidamento. Ovviamente questo dato non può essere generalizzato, visto che i casi seguiti sono un numero limitato e la Toscana è una regione che non rispecchia il resto dell’Italia per quanto riguarda le risorse messe in campo in materia di aiuti sociali.

Ma una conferma forte e importante arriva dalla ricerca, presentata recentemente dall’Osservatorio delle misure alternative (3) presso la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna, che dal 1998 al 2005 ha seguito 8817 affidati ai servizi sociali, rilevando una recidiva del 19 per cento. Ha poi messo a confronto la recidiva degli affidati con quella delle persone, scarcerate nel 1998, analizzando 5772 casi nello stesso arco di tempo e riscontrando una recidiva del 68,45 per cento. Quasi sette persone su dieci tornano quindi a commettere reati se escono dal carcere a fine pena senza un percorso di reinserimento, meno di due su dieci se la strada verso la libertà è graduale, attraverso le misure alternative. Un dato straordinario, che parla chiaro: tutte le soluzioni che vanno nella direzione di rendere più difficile l’accesso alle misure alternative, cioè per esempio quello che la legge ex-Cirielli ha imposto, non cancellano la recidiva, anzi tendono ad aumentarla, quindi tali soluzioni sono per la società come tirarsi una zappata su un piede.

In effetti, questa legge ha fatto l’unica cosa che tutti gli studiosi e i ricercatori sconsigliano di fare, cioè escludere i recidivi dal percorso trattamentale, dall’unica via che offre qualche speranza di rieducazione a quei soggetti che non riescono a uscire dal circuito carcerario. E questo è triste, quando si ha la prova concreta che, con un incremento delle misure alternative e la messa a disposizione di risorse per i percorsi di reinserimento (con costi sicuramente inferiori a quelli che causa la recidiva) si riesce a ridurlo, l’incubo della recidiva, e a ottenere così, ricordiamocelo bene tutti, da un lato una riduzione del danno alla società, che subisce così meno reati, e dall’altro, una riduzione del danno al condannato, che viene aiutato a crearsi le condizioni per non ritornare più in carcere. Ma perché questi dati non vengono sventolati ogni giorno sotto il naso di tutti come si fa con quelli del “dopo indulto”?

  1. Un’indagine pilota”: è una ricerca condotta nel 1999 nella provincia di Trento e poi pubblicata nel “Secondo rapporto sulla sicurezza nel Trentino”;

  2. Misura”: è un progetto realizzato dal Ministero della Giustizia – Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana con l’Università degli studi di Firenze;

  3. Una prima ricognizione sulla recidiva degli affidati in prova al servizio sociale”: è una ricerca condotta, dal 1998 al 2005, dall’Osservatorio delle misure alternative presso la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna (a cura di Fabrizio Leonardi), secondo la quale la recidiva tra gli affidati in prova ai servizi sociali è di circa il 19 per cento, per gli scarcerati a fine pena è del 68,45 per cento.

Il carcere tra riforme e controriforme

Dal 1975 a oggi, un detenuto ripercorre illusioni e delusioni di chi, dal carcere, ha visto alternarsi leggi garantiste a brusche e pesanti chiusure

 

di Sandro Calderoni

 

Tempo fa sono venuti a trovarci in redazione, per illustrare la loro proposta di legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario, i magistrati Alessandro Margara e Francesco Maisto. La loro è stata un’esposizione molto ampia e interessante, in cui mi sono sentito personalmente coinvolto soprattutto quando Margara ha ricostruito, con ricchezza di particolari e di riferimenti storici, il complesso succedersi di riforme, mini-riforme e… controriforme che sono state emanate in materia carceraria negli ultimi trent’anni, a partire dall’entrata in vigore dell’Ordinamento Penitenziario del 1975.

Questo disorganico e talvolta contraddittorio stratificarsi di leggi e di leggine - e in certi casi di improvvisati provvedimenti “d’emergenza” che poi sono durati anni, ammesso che non siano ancora in vigore - io l’ho vissuto per intero, dal di dentro e sulla mia pelle, perché ero in galera nel ’75, quando fu emanato l’Ordinamento, e in galera ci sono anche adesso, a trent’anni abbondanti di distanza. Credo perciò di poter offrire una testimonianza di parte ma attendibile su quali siano state e continuino a essere le ricadute psicologiche che questi trent’anni di garantismo a corrente alternata hanno prodotto sulla popolazione carceraria, piombandola in uno stato di cronica sfiducia nei confronti di qualsiasi nuovo provvedimento venga annunciato.

Mentre Margara ripercorreva con precisione cronologica le varie tappe attraverso cui si è giunti all’attuale normativa sul carcere, dentro di me rivivevo il loro succedersi attraverso le mie personali esperienze, ricordando con chiarezza e ancor viva partecipazione sia le attese che le spinte riformiste avevano sviluppato all’epoca fra noi detenuti, sia – e più ancora, purtroppo – le brucianti delusioni provocate in seguito dall’involversi di quello spirito riformatore in una prassi tutt’altro che garantista, basata perlopiù su provvedimenti emergenziali e sostanzialmente “purgativi”. Il mio stato d’animo, così, quella mattina altalenava in continuazione fra alti e bassi, risvegliando in me sia il ricordo della tanto effimera euforia suscitata dalle “aperture” quanto il profondo senso di frustrazione provocato dalle successive, immancabili “chiusure” di un processo di riforma che, in trent’anni, non ha mai saputo uscire da uno stato di sostanziale precarietà.

D’altra parte va detto – e lo stesso Margara l’ha chiaramente ammesso – che all’Ordinamento Penitenziario nel 1975 non si arrivò grazie a un preciso disegno politico riformatore sostenuto da una gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica; ci si arrivò, praticamente, per forza maggiore, perché la situazione delle carceri italiane era divenuta insostenibile (istituti fatiscenti e sovraffollati, condizioni igieniche disastrose, evasioni all’ordine del giorno, frequenti e spesso clamorosi episodi di violenza fra detenuti e fra detenuti e agenti) e occorreva assolutamente disinnescare la “bomba” prima che esplodesse.

Pressata dagli eventi e dalla preoccupazione dell’opinione pubblica più avveduta, la classe politica dell’epoca seppe tuttavia rispondere a quella sfida con lucidità, emanando una riforma – quella appunto del ’75 – talmente innovativa da porre il nostro paese, che fino allora era stato in materia di legislazione sul carcere uno dei più arretrati d’Europa, un passo avanti rispetto a tutti gli altri. Uscendo dall’angusta logica della repressione fine a se stessa e puntando tutto sui concetti di rieducazione e di recupero sociale, l’Italia concretizzava finalmente in termini di legge quanto, quasi due secoli prima, aveva sostenuto in tema di delitti e relative pene il maggiore dei suoi pensatori illuministi, Cesare Beccaria.

Per quanto ben concepita e orientata, una legge però da sola non ce la fa a modificare la realtà. Tanto più se a smentire le sue buone intenzioni, e a renderle impopolari, sopravvengono emergenze politiche e sociali particolarmente gravi, che fanno prevalere la paura sulla ragione. E infatti la riforma del ’75 si impantanò, prima ancora di essere davvero decollata, nell’ondata di allarme sociale provocata dall’impennarsi proprio in quegli anni dell’attività terroristica. Nel rendere impopolari certi benefici che l’Ordinamento Penitenziario aveva appena concesso ai detenuti, come i primi permessi premio, certo concorse anche il fatto che più di uno di noi ne approfittò, dandosi alla fuga e commettendo nuovi reati; è fuor di dubbio, tuttavia, che fu essenzialmente il terrorismo – e il clima di “blindiamoli tutti” che aveva innescato – a svuotare di ogni autentico contenuto innovatore una riforma che, al suo nascere, aveva acceso tante speranze. E infatti non solo fu impresso agli istituti già esistenti un deciso giro di vite, ma vennero anche istituite nuove carceri di “massima sicurezza” in cui, in teoria, avrebbero dovuto essere reclusi soltanto i terroristi, ma che - in pratica - si affollarono ben presto soprattutto di detenuti “comuni”, i quali finirono per essere le vere “cavie da laboratorio” di un modo nuovo, ancor più repressivo, di intendere e di gestire la carcerazione. Stipate in spazi ristretti e stressate da controlli ossessivi, persone che spesso erano già di per sé delle “mine vaganti” esplosero in tutta la loro dirompente aggressività, dando luogo a un’escalation di violenze che finì presto per contagiare anche gli istituti cosiddetti “normali”.

 

L’arrivo della “Gozzini” e poi la “controriforma” del 1991

 

Questo stato di cose si protrasse fino al 1986, anno in cui fu varata la nuova riforma dell’Ordinamento Penitenziario, meglio nota come legge Gozzini. Ancora una volta la repressione fine a se stessa aveva mostrato la corda, e occorreva raffreddare l’esplosiva situazione carceraria ponendo mano a un insieme di norme capaci di rendere la galera non solo più vivibile, ma più educativa e socialmente utile. La legge Gozzini seppe andare alle radici del malessere carcerario, prefigurando non solo una detenzione più clemente e rispettosa dei fondamentali diritti della persona, ma anche una serie di organici interventi-ponte (permessi “di risocializzazione” e non più solo per gravi motivi familiari, articolo 21, semilibertà, affidamento in prova ai Servizi sociali) finalizzati a promuovere un rientro in società a pena scontata non traumatico, ma graduale e in qualche misura guidato.

Noi detenuti vivemmo l’avvento di quella riforma con entusiasmo, perché ci sentivamo finalmente coinvolti in un progetto che ci stimolava a tirare fuori il meglio delle nostre risorse e a guardare al futuro con maggiore serenità. Ma anche in quel caso le molte attese finirono ben presto per essere frustrate da una nuova, grave emergenza (la lotta alla mafia, questa volta), che ebbe l’effetto di indurre un nuovo, brusco retromarcia alla politica carceraria. Nel 1991 venne emanata infatti una legge che stravolgeva completamente lo spirito della Gozzini, escludendo del tutto dai benefici chi si era reso colpevole di alcuni crimini di particolare allarme sociale e prolungando i tempi d’accesso ai benefici medesimi per gli autori di altri, numerosi reati.

Non solo l’area dei benefici si restringeva notevolmente (in molti casi addirittura annullandosi), ma si infrangeva di fatto il principio della individualità del trattamento, che era stato uno dei cardini della legge Gozzini. A contare, e a determinare la “qualità” della pena, ora era soltanto il tipo di reato; ragion per cui se disgraziatamente venivi coinvolto anche marginalmente, e con responsabilità personali minime, in uno dei reati che prevedevano l’annientamento dei benefici o l’allungamento dei tempi necessari per potervi accedere, ti ritrovavi – e in effetti ancora ti ritrovi – catapultato nei circuiti chiusi della carcerazione “cieca”, quella che ti taglia fuori dal mondo senza offrirti neppure una finestra di comunicazione con la vita esterna per un lunghissimo periodo, o addirittura fino al termine della pena.

Da allora l’Ordinamento Penitenziario ha subito piccole ma costanti modifiche, che hanno finito per allontanarlo ulteriormente dal suo spirito originario, basato appunto sul carattere individuale della pena e del trattamento rieducativo. Ormai si ragiona praticamente soltanto in termini di tipologia di reato, e questo atteggiamento – che non tiene conto della singolarità di ogni persona, delle sue responsabilità ma anche delle sue potenzialità di recupero – viene rinfocolato ogni qual volta un fatto di cronaca particolarmente odioso o efferato scuote l’opinione pubblica, facendo prevalere la furia punitiva sul ragionamento e sull’oggettiva valutazione dei fatti. Il risultato è che le carceri di oggi, salvo rare eccezioni (le cosiddette “isole felici”, che poi davvero felici non sono, ma semmai soltanto “normali”), sono tornate a essere molto simili a quelle che la legge Gozzini si proponeva di “umanizzare”: buona parte dei detenuti non mette infatti il naso fuori fino al giorno della scarcerazione, e sono davvero pochi quelli a cui è concesso imboccare e percorrere con successo i percorsi di progressiva risocializzazione che costituivano il tratto più innovativo di quella riforma.

Peggio ancora, sta prevalendo una visione “statistica” del carcere e dei detenuti che vi sono reclusi, come si trattasse non di persone (che hanno sbagliato, ma che non per questo hanno perso la propria umanità) ma di numeri con un segno negativo sempre davanti. Sì, perché i detenuti non hanno volto né personalità, ma costano: e costano maledettamente caro. Oltre che una perdita sociale, costituiscono infatti una costante perdita economica, e ormai sono purtroppo sempre di meno coloro che capiscono (come capì Gozzini, e capiscono ora Margara e Maisto) che l’unico modo per far tornare i conti (o quanto meno per renderli socialmente utili) consiste nel recuperare il maggior numero di detenuti possibile, e non certo nel costruire sempre nuovi e più arcigni recinti in cui ingabbiarli senza speranza.

Tornando a quella mattina in cui Margara e Maisto sono venuti in redazione a spiegarci il loro progetto di riforma, ricordo con grande ammirazione la generosità umana e professionale del loro impegno. Ricordo però anche, e mi dispiace dirlo, che il mio entusiasmo era velato da una specie di frustrazione preventiva, perché in questi ultimi trent’anni di vita - buona parte dei quali vissuti dietro le sbarre - ho già visto troppe volte finire in nulla le più buone intenzioni. La mia critica non è volta certamente a Margara e Maisto, sia chiaro: ho infatti il massimo apprezzamento per il loro lavoro, e gli auguro con tutto il cuore di riuscire a condurlo in porto. La mia critica riguarda soltanto la maledetta, sfibrante altalena delle aperture e delle chiusure che si sono succedute nell’arco di questo trentennio, e che ora costringono a essere scettico anche chi, in cuor suo, non vorrebbe essere scettico per niente.

Accidenti, quanto sono fortunato!

Si è fortunati, se dopo il carcere si riesce ad avere un vero riscatto, che è quello di imparare a vivere in maniera diversa rispetto a prima della detenzione: meno ipocrita, meno superficiale

 

di Francesco

 

“SEI UN UOMO FORTUNATO!”. A forza di sentirmelo dire mi sono convinto che è vero: sono proprio fortunato, tanto fortunato. Il problema è che la fortuna ha un prezzo, come tutto nella vita; magari vai avanti a credito per anni e pensi di essere “super”, finché arriva il momento di pagare… e arriva sempre.

La prima grossa fortuna l’ho avuta verso i 15 anni e mezzo, quando, da un giorno all’altro, sono diventato ADULTO, saltando i “passaggi” noiosi, improduttivi e anche pericolosi dell’adolescenza e della gioventù. Cavolo se ero orgoglioso: invece di perdere tempo con gli amici, la scuola, e via dicendo, io producevo, correvo in lungo e in largo, facendo affari e malaffari, distruggendo – senza pensarci due volte – tutto quello che rappresentava un ostacolo. La seconda grossa fortuna l’ho avuta verso i 26 anni e mezzo, quando, da un giorno all’altro, sono diventato DETENUTO. È stata una “fortuna” perché mi ha impedito di continuare a distruggere, cosa che di certo avrei continuato a fare, ma anche perché mi ha salvato la vita: ormai ero a un pelo dalla morte; ammazzato, o suicida, o in altro modo, ma ero lì lì.

La terza grossa fortuna l’ho avuta verso i 41 anni e mezzo, quando, da un giorno all’altro, sono diventato UOMO LIBERO: in via provvisoria, costretto in un letto di ospedale, con il cuore aperto e rattoppato con un pezzo di plastica, però libero di incontrare chi volevo, libero di andare in bagno senza essere spiato, libero di guardare fuori dalla finestra senza vedere sbarre, libero di pensare e progettare e sognare un futuro, appunto, da UOMO LIBERO. Sono passati 27 anni da quando diventai ADULTO, 16 da quando diventai DETENUTO, 1 da quando sono diventato UOMO LIBERO. E, questo ultimo, è stato l’anno più bello della mia vita: anche se ho il fiatone ai primi tre gradini che salgo, anche se ho le braccia e le gambe pesanti come fossero di cemento e i piedi doloranti, anche se prendo nove tipi diversi di farmaci, che mi fanno gonfiare come un rospo.

La fortuna ha un prezzo e, adesso che lo so, sono ben contento di pagare subito, giorno per giorno, anziché rimandare e rimandare e poi trovarmi con un grosso debito, più gli interessi. Non ho più voglia di indebitarmi, bastano e avanzano gli arretrati… con la giustizia… e con la coscienza. L’essere diventato “UOMO” e “LIBERO” mi sta facendo riflettere come non ho mai fatto in 15 anni di carcere; solo adesso comincio a sentire il peso di un “debito” che penso non sarà possibile saldare mai. Mi vedo, con una casa e una compagna e un lavoro e una bicicletta e una “ventiquattrore”, e mi stupisco, quasi non ci credo, e mi viene da chiedermi: “Merito davvero tutte queste cose?. Ho fatto tanti danni, ho fatto finta di essere un’altra persona e ci ho creduto; ora mi ritrovo ad essere felice, ad avere tutto ciò che un UOMO LIBERO può desiderare!”.

 

Il carcere ti ferma, ma non ti può insegnare a vivere

 

Sono “reinserito”! Sono “reinserito”? Il “reinserimento” è quando uno riesce a sbarcare il lunario senza fare cose illegali? Oppure è quando ha imparato a vivere da UOMO LIBERO, che non vuol dire soltanto avere una busta paga? Perché il “saper vivere” è quasi uno stato di grazia, richiede equilibri e risorse personali molto più complesse che non il semplice poter dire “io non faccio del male a nessuno”. Non bastano i soldi, non basta neanche l’intelligenza: puoi essere ricco come Paperone, o un genio della matematica, però se non hai imparato “a vivere” sei una bomba ad orologeria, prima o poi esplodi e fai strage di quanto ti sta intorno.

La contraddizione principale del carcere è proprio questa: non insegna a vivere! Non può farlo, non è adatto, serve a “fermare”… e basta! Il giornale dei detenuti di Piacenza si chiama “Sosta Forzata” ed è un titolo indovinatissimo: l’arresto interrompe un certo tipo di vita e, in tanti casi, questa interruzione forzata è l’unica soluzione possibile. Dopo aver assolto a questo compito il carcere diventa assolutamente inutile, spesso controproducente. Non ottiene quasi mai che l’ex detenuto si guardi dal commettere nuovi reati, trattenuto dalla paura di tornare dentro, altrimenti non avremmo il livello di recidiva che abbiamo. Non riesce nemmeno a dissuadere i “potenziali delinquenti”, altrimenti in paesi (gli USA e la Russia) dove un abitante su 100 è già in carcere il livello di criminalità dovrebbe essere bassissimo, invece è molto più alto rispetto, ad esempio, all’Italia.

Certo, la pena serve anche e semplicemente a punire, è mera “retribuzione”: hai fatto del male, subisci a tua volta del male. Se sposiamo questo concetto, però, dobbiamo anche accettare la pena di morte: chi ha ucciso “paghi”… con la vita. Il vero “riscatto” è un’altra cosa: i morti non si possono certo resuscitare, i danni fisici e psicologici difficilmente sono compensabili e perfino il risarcimento economico risulta inattuabile per la maggior parte dei detenuti ed ex detenuti, che già sono bravi se riescono a guadagnarsi la pagnotta.

Il vero riscatto è quello di riuscire a vivere in maniera diversa rispetto a prima della detenzione: meno ipocrita, meno superficiale, meno “a credito”. Dentro il carcere soffri troppo per riuscire a farlo e, comunque, il posto è sbagliato, le relazioni falsate, le percezioni distorte. Esci, ti ritrovi nella VITA REALE, e solo lì ti accorgi di quanto sei inadeguato e fasullo. Spesso sento dire che qualcuno in carcere “dà il peggio di sé” e, qualcun altro, “il meglio di sé”, invece questo “meglio” è un “peggio” travestito, dato dall’incolore adattamento alle richieste dell’istituzione e, allo stesso tempo, dalla privazione di un rapporto effettivo con il mondo esterno, senza relazioni autentiche, senza assunzioni di responsabilità, senza confronto con i problemi quotidiani della vita.

In carcere nessuno può “imparare a vivere”, al massimo può sembrare che abbia imparato, convincendo prima di tutti se stesso, necessariamente, perché è impossibile fingere per giorni mesi e anni. In carcere, quindi, non è possibile nessun riscatto, non è possibile neanche iniziare a riscattarsi. Tutto è rimandato a dopo l’uscita, a quanto entri nel vortice del mondo reale.

L’arresto di un recidivo equivale troppe

volte alla cattura di una bestia

Quando i “precedenti penali” diventano una condanna

 

di Piergiorgio Fraccari

 

La recidiva ha, in un certo senso, anche un altro nome, si chiama “precedente penale”: una persona che ha commesso un reato ha un precedente penale, e questo la porta ad essere tre quinti di cittadino, come lo erano gli schiavi resi “liberi” alla fine dell’Ottocento in America (ogni schiavo contava tre quinti di una persona). Liberi di non votare, liberi di non ricoprire cariche pubbliche, liberi di non frequentare le scuole civili dei bianchi. Si ha un bel dire che la legge italiana ritiene un imputato innocente fino alla fine dei tre gradi di giudizio, in cui verrà assolto o condannato. Dall’attimo dell’arresto se hai un precedente vieni trattato da persona colpevole, il precedente penale rientra già nelle prove a tuo carico, fa pendere la bilancia dalla parte della colpevolezza, ti fa perdere i diritti di cui gode un incensurato. Specialmente sotto il profilo umano, si è spesso privati di ogni dignità: l’arresto di un recidivo equivale troppe volte alla cattura di una bestia.

Un precedente penale pesa anche quando una persona è libera, specialmente nelle piccole province e nei paesi, dove ad ogni evento criminoso avvenuto, queste persone sono soggette a perquisizioni domiciliari, personali, fermi o quant’altro la legge permette di fare. Non importa se la persona perde ore di lavoro e dignità: ha un precedente penale, perciò è potenzialmente colpevole. Quando qualcuna di queste persone, specialmente tra i giovani, commette davvero altri reati, viene da pensare che l’essere trattati sempre da criminali altro non può fare che spingere a diventarlo veramente. E il carcere rischia di servirgli solo ad allargare le conoscenze nel campo della criminalità.

Il peso del passato è quasi insostenibile

per chi vuole rifarsi una vita

 

di Salvatore Allia

 

Esco dal carcere e trovo lavoro, finalmente tutto procede per il meglio quando un bel giorno commettono un reato accanto al posto dove lavoro e ancora una volta la mia vita prende una direzione diversa: dall’illusione di essere tornato “regolare” alle solite scene degradanti, la guardia ed il ladro. Mi fermano ad un posto di blocco per un semplice controllo sul territorio, fin lì tutto bene, patente e libretto, ancora tutto bene, poi la domanda: lei ha precedenti penali? Ed ecco cambiare tutta la prospettiva: immediatamente scatta la verifica al terminale mentre l’altro poliziotto ti tiene sotto tiro con conseguenti domande: da dove viene? dove sta andando? E poi, alla tua risposta, la cosa più fastidiosa è quando scatta la domanda: perché, cosa va a fare in quel posto? Sembra quasi di stare ancora in carcere, dove per qualsiasi cosa fai devi avere l’autorizzazione ed ogni agente può fermarti e chiederti dove vai e perché. Immaginarsi poi se accanto al pregiudicato c’è una donna: ci sono stati casi che hanno oltrepassato il limite, dove chi mi aveva fermato si è spinto fino a dare consigli alla ragazza seduta accanto al “delinquente” con frasi del tipo “Ma cosa fai con uno come lui, stai alla larga da certi tipi” e così via fino ad arrivare al punto di creare una situazione imbarazzante, insostenibile per chi vuole rifarsi una vita.

Il coraggio di rilanciare l’ipotesi di un’amnistia

Risorse umane e denaro buttati in processi, dove già si sa che le

eventuali condanne verranno annullate dall’indulto

 

di Marino Occhipinti

 

La bufera mediatica scatenata su quel 3 per cento di persone che dopo aver beneficiato del recente atto di clemenza sono ritornate in carcere per aver commesso un nuovo reato, ha fatto dimenticare le vecchie promesse di amnistia, quell’amnistia che dal dopoguerra in poi ha sempre viaggiato di pari passo con l’indulto. Il motivo dell’abbinata indulto-amnistia non scaturiva da chissà quale buonismo, ma era dettato dalla logica e dal buon senso: mentre l’indulto condona la pena detentiva, o parte di essa, l’amnistia cancella i reati che prevedono fino ad un tot di pena massima.

È evidente che, in mancanza dell’amnistia, si continuano a celebrare processi e vengono inflitte condanne che non verranno mai scontate perché coperte da indulto. Il risultato è che, secondo alcuni monitoraggi recentemente effettuati in varie città, le attività giudiziarie girano praticamente a vuoto. Se una parte dei cittadini – a causa dell’enorme lavoro arretrato che ingolfa i tribunali – attende anche 8-10 anni per ottenere giustizia, ci sono migliaia di persone sotto processo che, una volta concluso l’iter processuale e anche in caso di condanna – sempre che la stessa non superi i tre anni – si vedranno azzerare la pena.

 

A Pesaro, per esempio, stando alla proiezione dei dati del 2004 e del 2005, il 94 per cento dei processi penali eseguiti in quel Tribunale si concluderanno con una sentenza di condanna inferiore ai tre anni che, grazie appunto allo sconto di pena concesso dall’indulto, resterà solo “su carta”. Insomma un’attività giudiziaria e processuale sostanzialmente virtuale, fermo restando, invece, tutte le spese che comporta lo svolgimento di un procedimento penale.

Non esiste una statistica precisa, ma secondo fonti non ufficiali, sempre considerando la casistica pesarese, il costo medio di un processo penale si aggirerebbe intorno ai 3.500 euro. Nello scorso anno, per esempio, a fronte di 1041 processi, tra sede monocratica e collegiale, oltre 970 hanno portato ad una sentenza di condanna inferiore ai tre anni. Numeri pressoché identici al 2004, dove le sentenze furono un po’ di meno, 1014. E di fronte a questa situazione, se la maggioranza dei procedimenti penali che si svolgeranno per illeciti compiuti fino al 2 maggio 2006 (cioè quelli rientranti nella sfera dell’indulto), non porterà in concreto a nessun provvedimento, di certo però materialmente farà spendere in processi quasi 4 milioni di euro ogni anno (e ci riferiamo soltanto alla cittadina marchigiana), oltre alle risorse umane necessarie allo svolgimento di processi con testimoni, consulenti, perizie eccetera.

 

A Treviso il procuratore capo ha invitato i sostituti procuratori a dare la precedenza alle istruttorie per reati che prevedono condanne superiori ai tre anni, tralasciando di fatto gli altri così da non impegnare energie in inchieste che comporterebbero un lavoro inutile. D’altronde sono gli stessi magistrati favorevoli all’amnistia, e non sono pochi, a sostenere che non ha alcun senso continuare attività giudiziarie destinate al macero.

 

A Milano il Tribunale è senza soldi, senza mezzi, senza personale, addirittura senza carta. “Questo non è più un grido di allarme, ma di disperazione”, ha dichiarato Giuseppe Grechi, presidente della Corte d’Appello, che ha convocato i giornalisti per comunicare di aver disposto la riduzione delle udienze, da 5 a 4 per settimana. Giuseppe Grechi ha infatti invitato i presidenti delle sezioni penali a privilegiare la fissazione dei processi con detenuti e quelli per reati di maggiore gravità non rientranti nel provvedimento di indulto. Ed ha fatto un appello anche alla procura affinché vi siano meno arresti per la violazione della legge Bossi-Fini, con l’obiettivo di non ingolfare il palazzo di giustizia con i processi per direttissima.

 

 

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