Sani Dentro

 

L’Opg dei mafiosi cambia pelle

Negli anni Ottanta il “Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, ospitava boss simulatori di follia che da lì continuavano a gestire i loro traffici. Oggi i 210 detenuti pazienti sono molto diversi: colpevoli di omicidio o di reati banali, spesso restano a lungo perché non esistono strutture alternative. Ne abbiamo parlato con il direttore, lo psichiatra Nunziante Rosania

 

di Emanuela Zuccalà

Fotografie di Angelo Formica

 

Alle 18 scattano le due ore di socialità. Tutti si riversano nel cortile verde e assolato, a comprare caffè e pizzette nel chiosco-bar sotto gli alberi, a fare la fila per il karaoke, qualcuno semplicemente a fissare il vuoto da una panchina. L’Ospedale psichiatrico giudiziario “Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, era famoso negli anni Ottanta per i “soggiorni facili” dei mafiosi: boss che riuscivano a ottenere l’infermità mentale per farsi spedire in questo edificio liberty giallo e pesca, da dove continuavano a seguire i loro affari con la complicità del personale corrotto.

Oggi il panorama umano è profondamente diverso, e sfaccettato. Gli assassini schizofrenici soggiornano accanto a persone disturbate ma in realtà innocue, denunciate per bazzecole – un bagno nudo in una fontana o una pipì in strada fatti passare per atti osceni in luogo pubblico –, legati nella stessa prigionia in questo ospedale-carcere vittima delle contraddizioni di tutti e sei gli Opg d’Italia, con un’aggravante tutta sua: lo scarso interesse della sanità regionale siciliana.

Sono 210 i pazienti del “Madìa” di Barcellona, molti trasferiti dagli Opg di Napoli e di Aversa in ristrutturazione, molti altri sono detenuti comuni che in carcere hanno sviluppato depressioni e psicosi. Nunziante Rosania, psichiatra salernitano e direttore dal 1997, gira fra i sei reparti e li abbraccia, i suoi matti. È convinto che vadano chiusi, questi ex manicomi criminali dimenticati perfino dalla legge Basaglia: “Curare una malattia mentale in un contesto carcerario è impossibile”, dice. Ma in attesa che vengano discusse le due proposte di legge depositate in Parlamento anni fa, non può che tentare di far vivere al meglio questa struttura, aprendo al volontariato e cercando percorsi di reinserimento per i suoi matti. L’esatto contrario dell’antico motto che campeggia su una targhetta dell’ingresso: “Vigilando redimere”.

 

Dottor Rosania, gli Opg sono stati definiti “mostri a due teste”, ospedali-carceri che finiscono per non svolgere a pieno nessuna di queste due funzioni. A che servono, oggi?

La grande contraddizione degli Opg deriva dal Codice Rocco del 1930, che ha istituito le misure di sicurezza detentive, e il nuovo Codice Penale ne ha conservato l’impianto. Così il problema si è trascinato nel tempo e oggi i nodi vengono al pettine. La vera domanda è: si può declinare la psichiatria moderna in un ambito squisitamente carcerario?

 

Lei che risponde?

Che non è possibile immaginare progetti di riabilitazione e risposte individuali in un contesto che enfatizza i temi della sicurezza e la marginalizzazione rispetto alla società. Questo è il contrario di un moderno percorso psicoterapico. In passato, per i malati mentali, si separava la terapia (prima con l’elettroshock, poi con gli psicofarmaci) dal tentativo di reinserimento. Oggi i due percorsi sono contemporanei: i farmaci sono necessari per trovare un aggancio con il paziente, una relazione, e poter così trovare insieme una strada per tornare nel mondo. La reclusione in Opg rende difficile tutto questo, perché non è che un tentativo d’imbrigliare la pericolosità sociale, dimenticando che il vero problema è la malattia, e prima ancora l’uomo malato. Per vederlo e curarlo dobbiamo toglierci di dosso il gravame dell’assetto penitenziario, creare strutture alternative, cercare terapie adeguate e percorsi di inserimento lavorativo. Bisogna attivare i dipartimenti di salute mentale, il volontariato, gli enti locali e l’imprenditoria privata, per evitare che la misura di sicurezza in Opg si traduca in un ergastolo bianco, in una morte civile. Dobbiamo credere che queste persone possono dare ancora qualcosa a se stesse e alla società.

 

Tranne l’Opg di Castiglione delle Stiviere, in convenzione con la Asl di Mantova, gli Opg d’Italia dipendono dal Ministero della Giustizia. Questo significa rimanere in coda nei finanziamenti?

Abbiamo risorse modeste come tutte le strutture penitenziarie. Solo che da noi questo si traduce in minori possibilità trattamentali, e ne siamo preoccupati. L’Amministrazione penitenziaria ha fatto sforzi notevoli per gestire gli Opg, ora però tocca al legislatore far funzionare una volta per tutte la sanità carceraria in generale e le nostre realtà in particolare. Io sono convinto che gli Opg vadano superati, che il problema della patologia mentale in ambito forense si debba affrontare in modo radicalmente diverso, con strutture gestite dalle sanità locali. La legge Basaglia le aveva previste. Non sono state mai realizzate.

 

Intende le comunità, che qualcuno condanna come fossero semplici, anche se piccoli, manicomi?

Le comunità protette non devono farci paura: c’è una quota minoritaria di soggetti che ha bisogno di un contenimento, per poi affrontare il reinserimento. E sottolineo la necessità della prevenzione: tanti reati si potevano evitare, se solo un servizio sociale attento avesse letto in tempo certe situazioni.

 

Torniamo alle risorse economiche. Sono sufficienti per le terapie?

No: il nostro budget sanitario si è ridotto del 50 per cento in cinque anni. Così abbiamo scarsa disponibilità di psicofarmaci di ultima generazione, presupposti per una riabilitazione autentica. Un tempo qui creavamo degli zombie, con i vecchi farmaci che riducevano la componente delirante e allucinatoria ma a prezzo di annullare la persona. Quelli nuovi consentono di mantenere una fisicità adeguata per affrontare contesti socio-lavorativi. Sono molto cari, anche 200 euro a confezione. E poi abbiamo solo psichiatri convenzionati: ho portato le loro ore a 45 al mese, che è molto rispetto al passato, ma se considera che devono occuparsi di sei reparti con 210 pazienti…

 

La sanità pubblica non vi viene incontro?

In altre regioni è accaduto. In Sicilia no. Nonostante il fondo regionale per la sanità contenga anche le quote per questi pazienti, la Regione si tira puntualmente indietro.

 

Un altro grande male degli Opg è il fatto di essere calderoni indistinti, che mischiano i prosciolti per infermità mentale con i detenuti che si sono ammalati in carcere. Com’è possibile tenere insieme situazioni tanto diverse?

La prima cosa da fare è proprio semplificare le categorie giuridiche presenti in Opg. Una è quella degli internati, soggetti che hanno commesso un reato in stato di infermità mentale (per il 45 per cento dei sessanta che stanno qui si tratta di lesioni personali gravi, tentato omicidio e omicidio) e ritenuti socialmente pericolosi. Poi ne abbiamo sedici sottoposti a casa di cura e custodia, una misura per i semi-infermi di mente socialmente pericolosi. E ancora, l’ampia categoria dei detenuti: condannati da sani di mente, entrati in carcere, colpiti da una malattia psichiatrica e quindi venuti in Opg a scontare la pena. Ne abbiamo cinquanta. Un’altra quindicina sono i cosiddetti minorati psichici, portatori di gravi disturbi di personalità, con difficoltà di adattamento al regime carcerario ma senza una vera patologia: vengono qui con l’idea che il nostro sistema più flessibile, con le celle aperte tutto il giorno, ne consenta una migliore gestione. Infine, fra gli internati, crescono in modo preoccupante le misure di sicurezza provvisorie: persone in attesa di giudizio che sono state ritenute malati pericolosi. I servizi territoriali dicono di non riuscire a gestirli, così ce li mandano. E spesso rimangono per anni prima del processo, con il paradosso che la misura di sicurezza stabilita in sentenza è più breve del periodo già passato qui. Ne abbiamo una quarantina, più altri quattro in osservazione psichiatrica.

 

Quindi il ricovero in Opg, che dovrebbe essere l’extrema ratio, diventa un ripiego per mancanza di alternative?

Esattamente. E questo è contro la Costituzione, come ha stabilito la Corte Costituzionale in due sentenze del 2003 e del 2004, secondo cui l’Opg è per i casi estremi, dopo che l’autorità giudiziaria ha considerato e scartato tutte le alternative terapeutiche e riabilitative.

 

Accogliendo anche i detenuti comuni, finite poi per svolgere una funzione che dovrebbe competere alla sanità penitenziaria…

È un problema connesso alla semplificazione delle categorie giuridiche: dobbiamo restituire al carcere ciò che è del carcere. Il che significa attivare i centri clinici penitenziari, con piccoli reparti psichiatrici gestiti dal servizio sanitario nazionale. Qualche carcere ha già dei centri d’osservazione, ma non è la stessa cosa. Se gli Opg si occupassero solo dei prosciolti, ridurremmo i livelli di attenzione custodiale e porteremmo avanti più progetti riabilitativi all’esterno.

 

Esistono già progetti del genere? Come si può far vivere questa struttura?

Abbiamo stipulato protocolli d’intesa con cooperative sociali, enti locali, dipartimenti di salute mentale, associazioni di volontariato come l’Arci, il centro servizio sociale per adulti... E qualcosa è cambiato. Per esempio, stiamo realizzando un reparto a custodia attenuata, senza agenti, insieme al dipartimento di salute mentale: un progetto finanziato da Cassa delle ammende, che prevede nuovi infermieri, animatori di comunità ed esperti. L’obiettivo è far lavorare all’esterno i pazienti, secondo un modello trattamentale che potrebbe fare da apripista per altri Opg, a patto che – come dicevo – possiamo occuparci solo dei prosciolti. Inoltre abbiamo dato un’area in comodato alle cooperative sociali, che vi hanno realizzato una falegnameria e un’officina meccanica facendo lavorare anche pazienti del territorio: operano sul mercato e hanno un ingresso indipendente.

Un’altra ala la dedicheremo ai cavalli della Guardia forestale e a un canile comunale, che sarà il primo a Barcellona. Abbiamo poi una casa d’accoglienza all’esterno, gestita dal cappellano e da volontari, dove mandiamo i pazienti in permesso e a incontrare i familiari. E con le volontarie dell’Arci abbiamo attivato centri d’ascolto nei reparti, che ci consentono di cogliere bisogni che l’istituzione non può captare, perché una struttura come questa non riesce mai a piegarsi sulle esigenze dell’individuo. L’Arci ha aperto qui un circolo interno e un chiosco-bar gestito dagli stessi pazienti. E poi promuoviamo laboratori di pittura, musica e teatro; abbiamo tutte le classi scolastiche dalle elementari alle medie e corsi professionali gestiti da enti esterni. Sta partendo un’iniziativa con gli studenti delle superiori di Barcellona e Milazzo: alcuni sono già entrati, hanno realizzato un cortometraggio insieme ai pazienti. Molti di loro hanno figli adolescenti con i quali faticano a stabilire un contatto valido: incontrarsi con gli studenti è stato come parlare ai loro figli.

 

Gli internati godono di misure alternative e di permessi come i detenuti?

Sì, ma per loro i permessi si chiamano “licenze esperimento”. È inoltre prevista una “licenza finale” negli ultimi sei mesi della misura di sicurezza, finalizzata a un reinserimento progressivo e guidato. Gli esperti dei dipartimenti di salute mentale vengono qui, fanno verifiche, si raccordano con noi. Ma è un lavoro terribilmente faticoso: spesso, quando l’internato è in licenza, i dipartimenti di salute mentale si attaccano a qualsiasi pretesto per relazionare al magistrato e farli riportare qui. Sul territorio mancano strutture alternative, e queste persone fanno paura.

 

Dire che sono “socialmente pericolosi” significa dare per scontata la recidiva? E accade davvero che gli infermi di mente ripetano il reato?

In genere, al reato grave si accompagna una defervescenza della pericolosità. Gli omicidi con cui abbiamo a che fare maturano in ambito familiare, si consumano lentamente. La persona eliminata finisce per assumere un significato simbolico nella vita del soggetto omicida, con un aspetto proiettivo: il padre o la madre diventano il concentrato di tutte le problematiche di quel soggetto, in un’ambivalenza odio-amore che si trascina per anni. Anche l’uxoricidio non è un atto improvviso: deriva da un discorso paranoide, un convincimento persecutorio che diventa delirio di gelosia. Ecco perché prima ho parlato di prevenzione: un servizio sociale attento può evitare tanti reati. Invece le famiglie sono abbandonate a se stesse: più che assassini pazzi e pericolosi, qui raccogliamo storie di emarginazione, di decadimento progressivo di intere famiglie. La recidiva è più frequente nelle doppie diagnosi: tossicodipendenti o alcodipendenti con disagio psichico, con una devianza più sfumata ma più a rischio di ripetizione.

 

Il concetto di pericolosità sociale va quindi modificato?

La pericolosità non è un dato universale, uguale per chiunque e acquisito una volta per tutte. Vede, la misura di sicurezza in Opg non prevede un fine pena perché è determinata nel minimo, non nel massimo. A seconda della gravità del reato si dice “almeno due anni, almeno cinque, almeno dieci”. Alla fine si valuta se il soggetto è ancora pericoloso, e in quel caso la misura si proroga di sei mesi, e di altri sei, potenzialmente all’infinito. Queste proroghe non derivano dalla pericolosità del soggetto, bensì dall’incapacità del suo territorio ad accoglierlo. Se la tale città si è dotata di strutture alternative all’Opg, allora la pericolosità è considerata superata e quella persona se ne torna là. Se invece le strutture riabilitative mancano, anche chi ha commesso reati banali resta qui per anni, perché il Magistrato di Sorveglianza ragiona non solo sulla base della nostra relazione, ma anche e soprattutto sul contesto in cui la persona andrà.

 

C’è una storia, un volto che ricorda con più sollievo o più rabbia?

Tanti… Ma l’evento più incredibile è stato l’arrivo dei farmaci di nuova generazione. Certi pazienti erano considerati perduti, irrecuperabili. Vivevano ripiegati su se stessi, assenti, destinati a un’istituzionalizzazione eterna. I nuovi psicofarmaci ci hanno aperto i loro mondi, permettendoci di ripristinare un contatto. Io interagisco direttamente con i miei pazienti, anche giocandoci. Hanno bisogno di abbracciarmi, baciarmi, toccarmi. E io pure. È un modo per riconoscerci. Perché in questo lavoro bisogna sporcarsi le mani.

 

Sei manicomi dimenticati

Alfredo Bonazzi, ex ergastolano, poeta e scrittore, aveva intitolato la sua inchiesta sui manicomi criminali Squalificati a vita (Gribaudi Editore). Raccontava di un certo Farina, legato mani e piedi al letto di contenzione per dieci anni. Di Giuseppe Angioni, eroe di Caporetto andato fuori di testa, dimenticato per quarantacinque anni per via di una svista giudiziaria. Di Teresa Balducci, il cui suicidio ha fatto chiudere per sempre il lager femminile di Pozzuoli. Era il 1975 quando Bonazzi scriveva, lui stesso reduce dal manicomio criminale di Reggio Emilia. Oggi il nome di queste strutture è cambiato, i letti di contenzione non sono più l’unica terapia per la follia, ma gli Ospedali psichiatrici giudiziari, ignorati perfino dalla legge Basaglia del 1978 che chiudeva i manicomi d’Italia, restano realtà contraddittorie e di impianto profondamente manicomiale. Secondo un’indagine realizzata nel 2003 dal Dap con lo psichiatra Vittorino Andreoli, le presenze nei sei Opg d’Italia (Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto e Castiglione delle Stiviere, l’unico con una sezione femminile) si aggirano sulle 1.200 l’anno. L’età media è 41 anni, la maggior parte sono celibi e con un basso livello di istruzione. Quasi la metà ha commesso omicidio. In media restano tre anni in Opg, e l’80% è affetto da psicosi gravi come la schizofrenia.

 

 

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