Sani dentro

 

Cronaca di una morte forse evitabile

Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere

 

Pubblichiamo una testimonianza del compagno di cella che ha visto morire Paolo, e poi la lettera della moglie che ringrazia perché almeno qualcuno era lì con lui e ha poi voluto scrivere qualcosa per ricordarlo

 

di Graziano Scialpi

 

Non conoscevo Paolo. Non eravamo amici. È "entrato" nella mia vita nel pomeriggio di giovedì 9 settembre. Il mio compagno di cella era stato appena spostato al quinto piano, quello dei lavoranti, e rientrando dalla redazione, due ore dopo, ho trovato Paolo come mio nuovo coinquilino.

Non conoscevo Paolo. Non abbiamo avuto modo di conoscerci, sia per la brevità del tempo che abbiamo condiviso, sia perché la nostra convivenza è iniziata in un momento poco propizio. Quel giorno avevo appena saputo che il martedì successivo avrei dovuto sostenere un esame universitario e la mia testa era concentrata solo su quello. Per cui, dopo averlo fatto accomodare e sistemare, mi sono scusato con lui per la scarsa attenzione che avrei potuto dedicargli per qualche giorno. Lui non ne ha fatto un problema, anzi, quando studiavo cercava di disturbarmi il meno possibile.

Però, anche se poco, qualcosa so di lui. Appena è entrato in cella mi è sembrato che fosse un "pesce fuor d’acqua". Impressione che ha trovato conferma quando mi ha spiegato che stava scontando tre mesi per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbe dovuto tornare in libertà il 14 ottobre. In secondo luogo mi sono reso conto che non "era messo bene", nel senso che non aveva fonti di sostegno o qualcuno che lo seguisse nella carcerazione. Infine ho capito che aveva notevoli problemi a livello fisico. Ma in quel momento pensavo di avere tempo per approfondire la conoscenza, tutto il tempo della galera. Perciò mi sono informato con delicatezza, per non ferire il suo orgoglio, se avesse bisogno di sigarette o di qualcos’altro di essenziale, rinviando offerte di aiuto più sostanziali a quando avremmo avuto maggiore confidenza. Lui mi ha assicurato che aveva tabacco a sufficienza, insistendo anzi per contribuire alla spesa con i pochi euro di cui disponeva. Ma non ho avuto il tempo di fare di più. Sabato mattina (11 settembre), dopo aver bevuto il caffè insieme a me, Paolo si è vestito e, trascinando la gamba sinistra, è andato nella saletta ricreativa, dove è possibile trascorrere le ore d’aria, mentre io sono restato in cella a studiare.

Ma, dopo nemmeno mezz’ora, è ritornato, dicendo di non sentirsi bene. Dopo essersi steso sulla branda, si è alzato di scatto ed è corso in bagno, squassato da conati di vomito. Iniziando a preoccuparmi, gli ho chiesto cosa sentisse, se aveva male di stomaco. Lui mi ha risposto che sentiva i "sudori freddi", che stava molto male, ma che non era lo stomaco. Rendendomi conto della sua sofferenza, ho chiamato l’agente in servizio al piano, spiegandogli che il mio compagno si sentiva molto male. Dopo aver chiesto l’autorizzazione per telefono, l’agente è tornato per informarsi se Paolo ce la faceva a scendere all’infermeria da solo. Io mi sono offerto di accompagnarlo, ma lui ha declinato l’aiuto e si è avviato al piano terra, trascinando la gamba malata. Dopo una ventina di minuti è ritornato in cella. Gli ho chiesto cosa gli avesse riscontrato il medico e lui mi ha risposto: "Mi ha fatto un’iniezione, mi ha dato delle gocce e mi ha detto di mangiare in bianco". Quindi si è steso sulla branda girandosi e rigirandosi senza trovare pace. Dopo qualche momento si è rialzato chiedendomi se gli avrebbe fatto bene mangiare una mela. Io gli ho risposto: "Male non può farti". Si è alzato, ha mangiato una mela, poi mi ha chiesto una sigaretta, perché non ce la faceva ad arrotolarsene una. Terminata la sigaretta, l’ultima sigaretta, si è di nuovo steso sulla branda, girandosi e rigirandosi, incapace di trovare una posizione che gli desse un po’ di sollievo. Dopo qualche minuto si è addormentato all’improvviso, girato sul fianco destro, in posizione fetale. Subito ha iniziato a russare forte e il suo respiro era sofferente, intervallato da apnee di dieci-quindici secondi. Per un attimo ho pensato di svegliarlo, ma poi ho preferito farlo riposare, nella speranza che il sonno lo aiutasse a riprendersi, anche perché sapevo che quel tipo di disturbo è frequente nei russatori. Ma il mio istinto mi diceva che qualcosa non andava perché, mentre studiavo, ho iniziato a contare mentalmente i secondi che duravano le sue apnee. È andata avanti così per una decina di minuti, finché il respiro si è interrotto per 15, 30, 45 secondi. Ho alzato gli occhi e l’ho guardato, cercando un segno che avesse ripreso a respirare senza che me ne fossi accorto, ma Paolo era immobile e i secondi passavano sempre più veloci.

Mi sono alzato gli sono andato vicino e l’ho chiamato, ho urlato il suo nome più volte, scuotendolo per un braccio. Poi gli ho tastato il collo, cercando un battito che non c’era. Mi sono affacciato alla porta della cella, gridando all’agente che era lì vicino di chiamare il medico, perché il mio compagno aveva smesso di respirare. Quindi sono tornato da Paolo, gli ho steso le gambe e ho iniziato a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La seconda volta che ho soffiato, dalla sua bocca è uscito un fiotto di rigurgito liquido. Nel frattempo l’agente ha aperto la porta della cella, permettendo di entrare a due lavoranti che si trovavano in sezione. Insieme abbiamo tirato giù dalla branda Paolo, adagiandolo sul pavimento di cemento nudo. Dopo averlo tenuto per qualche momento girato sul fianco, per permettere ai suoi polmoni pieni di liquido di spurgarsi, sono ripresi sempre più frenetici il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, i pugni sullo sterno, mentre altri detenuti si accalcavano sulla porta della cella, affannandosi a dare consigli del tipo: "fagli bere un po’ d’acqua", "tiragli su le gambe", "mettigli un po’ di aceto sotto il naso". Nessuno voleva accettare la realtà tragica della situazione, tutti preferivano pensare che era solo un malore e che Paolo si sarebbe ripreso. Dopo un’eternità, i cinque-sette minuti che sono necessari a percorrere il tragitto dall’infermeria al terzo piano, è arrivato il medico, ha auscultato il muto petto di Paolo e ha dato ordine di metterlo sulla barella. Mentre i ragazzi sollevavano il corpo, il medico ha guardato nel nulla del muro bianco di fronte a sé, mormorando: "Lo avevo visto cinque minuti fa…". Poi sono partiti verso l’infermeria.

 

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto

 

Di Paolo in cella sono rimaste la macchia del rigurgito polmonare sul pavimento, la chiazza sulle lenzuola "di casanza" provocata dal rilassamento della vescica e le sue povere cose che, due ore dopo, ho dovuto mettere in un sacco nero di plastica e consegnare a magazzinieri meravigliati di quanto poco possedesse.

Qualcosa so di Paolo. So che aveva lavorato per 25 anni come verniciatore, emigrando anche in Germania, e che i solventi gli avevano corroso i polmoni, rendendolo invalido. So che aveva avuto un grave incidente che lo aveva sciancato, facendogli trascinare la gamba e costringendolo a fare iniezioni per il mal di schiena. So che viveva da solo perché aveva divorziato da poco e l’evento lo aveva fatto soffrire parecchio. So che aveva due figli piccoli che non lo conosceranno. Proprio venerdì sera, non so come, il discorso era caduto sulla morte e lui mi aveva detto: "A me interessa vivere solo finché i miei figli saranno maggiorenni".

Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe mai dovuto entrare in carcere per una condanna di tre mesi. So che, con le patologie di cui soffriva, non avrebbe dovuto finire in carcere nemmeno con una condanna a tre anni. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere.

Ma perché è morto Paolo? Puntare il dito solo sulle inefficienze del sistema medico carcerario e sui tagli che da tre anni a questa parte si abbattono sulla sanità penitenziaria sarebbe sin troppo facile e scontato.

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto. È morto perché forse il suo avvocato non ha ritenuto remunerativo preparare le tre-quattro carte che gli avrebbero facilmente evitato di finire dentro. È morto perché non si chiamava Tanzi e quindi non meritava una veloce corsa in ospedale al minimo accenno di malore. È morto perché l’opinione pubblica, che è formata da poveracci come lui, continua a sostenere un sistema dove i ricchi, i potenti e gli ammanicati sono "più uguali degli altri". È morto perché la stragrande maggioranza della nostra società civile soffre di una comoda presbiopia congenita che la fa reclamare e acclamare solo per i problemi distanti, molto distanti, possibilmente oltremare, perché cominciare a salvare le vite sottocasa sarebbe indegno, troppo poco nobile, perché significherebbe sporcarsi le mani sul serio.

È morto anche per causa mia. Perché non ho dato retta al mio primo istinto che mi spingeva a svegliarlo quando forse non era ancora troppo tardi. La differenza è che il mondo continuerà a ignorare Paolo, che ormai è solo un numero di una statistica, mentre io per il resto dei miei giorni sarò tormentato dal dubbio se avrei potuto salvarlo e per il resto dei miei giorni i suoi occhi sbarrati e privi di vita continueranno a osservarmi, rivolgendomi la loro silenziosa domanda: perché?

 

Martedì abbiamo pubblicato nel nostro sito la lettera di Graziano, il suo ricordo del compagno di cella appena morto, mercoledì ci ha scritto una donna, la moglie di Paolo, che da tempo non sapeva nulla del marito, e che ha ringraziato Graziano per aver raccontato qualcosa di lui ed essergli stato in qualche modo vicino. Quelli che seguono sono i suoi messaggi, che pubblichiamo per far capire ancora meglio che in carcere ci sono persone che molto probabilmente lì non dovrebbero proprio starci.

 

Almeno so che non è morto da solo

 

Non so che dire… so solo che ho pianto, ho pianto ancora lacrime amare, di tristezza di rabbia di amarezza. Io ti ringrazio perché sei rimasto vicino a Paolo, perché almeno so che non è morto da solo. Cosa posso dirti? non bastano le parole, quelle non più oramai, non basta più nulla…

Ho amato Paolo e so che non potevo far nulla nulla. Io ti ringrazio e non potrai mai sapere quanto…

Non sentirti in colpa chiunque tu sia… non so neppure come ti chiami, ma spero che qualcuno te lo dica, ti dica quanto tu hai fatto per lui solo essendo presente.

È tardi ormai la giornata sta finendo, così come è finita la vita di Paolo. Morire così in carcere non è facile accettarlo neppure per me, anche se per motivi miei l’ho abbandonato, con fatica, ma comunque ho dovuto…

Comunque ho amato Paolo… comunque, e comunque sono qui a ripensare ai suoi istanti di vita. Non sapevo nulla di quello che avesse fatto, di come fosse morto, nulla, ecco solo il nulla… Io penso di averti cercato, e tu mi hai fatto rivivere Paolo. Grazie, io ti ringrazio di cuore.

Il messaggio che ho scritto ieri sera l’ho buttato giù in quattro e quattr’otto, ma è quello che provavo in quel momento… l’ho fatto senza pensarci molto. Poi mi sono messa nei panni di Graziano e immagino l’impotenza che possa aver provato nel sapere Paolo morto. Io l’ho provata molti anni con Paolo.

Paolo è stato un ragazzo adottato a tre anni. La madre adottiva, diciamo la mia ex suocera, per colmare il vuoto lo ha sempre viziato, regali su regali, macchine su macchine. Ma l’affetto non si compra, l’affetto va dimostrato giorno dopo giorno, anche con dei no se necessario.

Paolo è rimasto solo. Io ho conosciuto Paolo quando avevo quindici anni (ora ne ho 32), ho vissuto con lui sino al 1999. L’ho sposato perché l’avevo scelto, non per obbligo. Sono arrivati prima Andrea, poi Anna, Andrea nel 1993, Anna nel 1995…

Paolo è sempre stato una persona estroversa, buona. Ecco, io del suo animo buono mi sono innamorata. Purtroppo Paolo era un ex alcolista, e nel 1995 ha ricominciato a bere… Nel lavoro era molto bravo e ricercato, ma faticava a mantenere un lavoro stabile. Abbiamo iniziato a frequentare i club per alcolisti in trattamento. Terapie di disintossicazione, insomma tutto quello che conoscevo per poter uscire da questa situazione. Ma nulla…

Nessuno può essere aiutato se veramente non vuole… Non so, non posso dire che non cercasse aiuto ma poi scappava. Comunque per lui era una fatica, una sconfitta ogni passo indietro. Cercava anche aiuto ma poi mollava tutto ogni volta… sempre la stessa storia… Il bere, le bugie, i debiti.

Ma io cosa posso dire ora? Che per cercare di salvarmi ho deciso di dire basta. Io penso che una persona che fa una determinata scelta comunque fatica. E io ho pianto molto, perché sentivo la sofferenza di Paolo.

Comunque, come c’è scritto sulla testimonianza di Graziano, Paolo era solo un poveraccio, una persona che per voler suo era sola. No, Paolo non era un delinquente, tutti gli hanno voluto bene. Era un matto ma aveva un cuore enorme e poi vi voleva bene, a modo suo ci voleva bene, ma per il suo modo di essere era diventato un pericolo.

E lui era assetato di affetto, e questo lo rendeva simile ad un cane ferito che si ribella. Prima la madre che lo abbandona, poi il cattivo rapporto e poi la morte della madre adottiva. Ed io mi sono accorta che comunque io per lui non potevo far nulla, se non peggiorare la situazione perché pretendevo di avere vicino un compagno ma così facendo lo obbligavo all’astinenza, ad avere una vita regolare, a vivere.

Che dire di Paolo. Io pensavo fosse morto in carcere da solo, in una cella del carcere chiusa, comunque nessuno mi aveva detto come fosse successo, cosa avesse fatto negli ultimi istanti della sua vita. Mi hanno detto solo che Paolo ha avuto una crisi cardiaca. E a me sono venute mille sensazioni.

Non lo sentivo da luglio, non sapevo dove fosse. La sensazione di: "È finita Paolo… ora sei in pace… ora non soffri più…" e poi il senso di colpa di quello che avevo pensato. Ma comunque mi faceva star male il fatto che poteva succedere in qualsiasi momento, magari dietro un fosso.

Una cosa mi ha sempre fatto star male: non volevo succedesse con lui da solo. Comunque è stato mio marito, comunque è stato il padre dei miei figli, ed io sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Sapevo che prima o poi qualcuno mi avrebbe telefonato per dirmi… Ma comunque è vero, io sono fuori, sono qui a casa. Quello ad essere morto in carcere è Paolo.

Comunque io sono qui a raccontare ai nostri figli che Paolo non c’è più, che comunque era il loro papà e devono ricordare le cose buone che ha fatto per loro. Che se hanno una casa è per merito del papà, e se non è potuto stargli vicino è perché l’alcool l’ha reso schiavo, ma lui provava un bene enorme per loro. Non è poi sempre così semplice, bisogna vedere dietro alla tenda per capire cosa c’è dentro ad una casa.

Ecco perché io mi sono sentita di ringraziare Graziano. Perché nonostante sia rimasto poco con lui è stato molto importante. Comunque gli era vicino. Comunque se non era per lui Paolo sarebbe stato un numero e non una storia di vita.

Io non so, forse non so se riesco ad essere capita: lui è stato lì, l’ha fatto al posto mio. Ed anche se ora io sono separata da Paolo, anche se ora io ho un altro compagno, comunque lui è stato mio marito, e comunque era nel mio cuore. Il saperlo solo davanti alla morte mi faceva un male terribile.

 

 

In ricordo di Giuliano, morto in galera a 74 anni

Se la salute in carcere è a rischio per tutti i detenuti, lo è doppiamente se una persona è anziana

 

Giuliano è morto in carcere, a 74 anni, pare per un’allergia. La prima cosa che viene in mente è che, se la salute in carcere è a rischio per tutti i detenuti, lo è doppiamente se una persona è anziana, e quindi più fragile e scoperta di fronte alla malattia. Ci piace almeno pubblicare il ricordo di un suo compagno, perché resti qualcosa di un uomo che è stato espropriato di tutto in un’età in cui si vorrebbe possedere qualcosa e godersi una vita più sicura e serena, e anche perché emerga con chiarezza che in carcere le persone fanno di tutto per mantenere integra la loro umanità, a dispetto di condizioni di vita che troppe volte di umano hanno ben poco.

 

di Marino Roviera

Caro amico Giuliano, consentimi di appropriarmi di questo titolo postumo che, ora, mi pesa non averti riconosciuto in vita. Sono giunto a Padova dieci mesi or sono convinto di aver subito un’ingiustizia e mi sono chiuso in me stesso perché trovavo inutile, dopo 26 anni di galera, continuare ad affezionarmi a persone che non rivedrò poi più, quindi anche tu sei rimasto vittima di questa mia decisione. Mi fa ancor più male questo mio atteggiamento perché ho constatato che nei tuoi confronti l’indifferenza era anche di chi ti doveva invece un interessamento.

Ti vedevo passare tutte le mattine su e giù per la sezione per racimolare qualche sigaretta, ma da me non ti sei mai fermato forse perché dissuaso dalla mia espressione truce o, più probabilmente, perché, da persona sensibile qual eri, avevi capito e rispettavi la mia scelta. In tanti mesi ti sei fermato due volte, forse perché eri più disperato del solito: ti diedi le sigarette ma chiusi la porta a qualsiasi dialogo.

Poi iniziai a lavorare e, almeno in parte, fui costretto a rivedere la mia scelta; tu rinunciavi alla pietanza ma ti faceva piacere un mestolo in più di pasta e io ti accontentavo volentieri. Un giorno mi fermasti: "Marino, ho finalmente ricevuto la pensione, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno vieni da me". Fui colpito da queste tue parole: cosa avevo fatto per meritarmi una simile riconoscenza? Naturalmente mi guardai bene dall’accettare questa offerta, ma mi avevi incuriosito e così mi interessai a te.

Venni a sapere che avevi 74 anni (tu in doccia, nostro unico punto d’incontro, scherzavi dicendo di averne 37, e poi, con una risata, aggiungevi "per gamba"), che ti eri costituito, venendo dalla Spagna dove vivevi, per una pena definitiva vecchia di 20 e più anni; la tua salute era precaria, se mi passi questo eufemismo, e non avevi nessuno all’esterno che si interessasse a te. La giustizia è una macchina crudele, scevra di sentimenti, una fredda calcolatrice - colpa = espiazione -, che non si è sentita in dovere di andare a vedere che eri un anziano malato e non in condizioni di nuocere alla società, anzi con gli anziani si sente esentata anche dal dovere di tentare un reinserimento futuro.

Dicono che la pena non deve essere una vendetta ma un periodo di riflessione che possa portare a un ravvedimento… dicono! Mi chiedo di cosa potevi ravvederti a 74 anni e in quelle condizioni. Ogni tanto alla mattina eri irriconoscibile tanto eri gonfio, ma credo che nessuno si sia preso la briga di verificare davvero i motivi di questo: per loro eri unicamente la matricola 5560.

Credo che tu fossi un uomo orgoglioso e giusto: ho saputo che Ilirian, che si era affezionato a te, ti aveva proposto di passare in cella con lui, così ti sarebbe stato vicino prendendosi cura di te, ma tu hai rifiutato consapevole di avere un carattere impegnativo. Eri solo, ma fiero, e non accettavi pietismi.

Venendo a conoscenza della mia fede bianconera ti compiacevi di parlarmi della nostra Juventus, ma ciò che non dimenticherò mai è il tuo modo di salutarmi. Quando mi vedevi passare davanti alla tua cella, i tuoi limpidi occhi azzurri comunicavano la gioia sincera del tuo saluto che aveva il potere di scaldarmi il cuore: tu che non avevi nulla possedevi ciò che pochi hanno.

Una mattina di qualche settimana fa ci siamo svegliati e tu non c’eri più, nella notte alle prime ore di ferragosto sei stato male e ti è stato concesso tutto il tempo necessario per morire. Ho la sensazione che l’indifferenza ti abbia accompagnato anche in quest’ultimo passo, per frantumarsi, solo poi, in una tardiva presa di coscienza. In parecchi di noi hai lasciato un grande vuoto perché ci siamo resi conto, una volta di più, che qualsiasi essere umano, bianco o nero, ricco o povero, deviante o onesto, è una miniera in cui non si è attinto mai abbastanza. Queste poche righe vogliono essere un ricordo che spero ti accompagni, ovunque ti abbiano sepolto.

 

 

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