Parliamone

 

Ma c’è qualcosa che "scoraggia" dal commettere nuovi reati?

La fretta di "recuperare" il tempo perso in galera, la voglia di avere dalla vita tutto quello che gli anni di detenzione ti hanno tolto, la paura di non farcela a rientrare nella società: sono un’infinità le cause che riportano tante persone in carcere

 

Parlare di tutte quelle persone che, dopo il carcere, tornano a commettere reati, è importante se si vuole davvero affrontare seriamente il tema di una società più sicura: invece si parla quasi sempre di sicurezza in modo astratto, pensando che sia un problema di più repressione, leggi più dure, pene più lunghe. Eppure, le testimonianze che seguono mettono in luce brutalmente una cosa: che tanta galera non serve a "scoraggiare" dal commettere altri reati, ci vuole ben altro, ci vuole per lo meno la capacità di far nascere nelle persone la voglia di una vita diversa, e di offrir loro anche qualche possibilità concreta di cambiare. A partire da una presa di coscienza che è prima di tutto culturale: il modello che oggi la società "normale" offre infatti, tanti soldi e tanta fretta, non può che contribuire a moltiplicare i reati e le recidive, non certo a ridurli.

 

 

La recidiva è qualcosa che può essere in agguato sempre

Se calcolo brutalmente quanto ho fatto soffrire e quanto ho sofferto io, e quanto sono costati i miei reati e la mia galera alla mia famiglia, allo Stato, ad altre persone, il mio bilancio di vita è fallimentare

 

di Nicola Sansonna

Quello della recidiva è un tasto importante e dolente che abbiamo toccato più volte, ma questa volta abbiamo deciso di affrontarlo "a 360 gradi", coinvolgendo nella discussione un po’ tutte le diverse "categorie" di detenuti, se così si può dire: tossicodipendenti, rapinatori, immigrati, detenuti per reati di sangue, ma che nulla hanno a che fare con ambienti criminali.

Personalmente ho già avuto modo di elaborare un mio pensiero sul tema e trarne delle conclusioni. Sono partito facendo un bilancio della mia vita e mettendo da una parte le cose negative e dall’altra le cose positive che questo tipo di vita comporta: in pratica, a parte 18 mesi di latitanza per una fuga da un permesso, il resto dal 1977 ad oggi che siamo nel 2004 è tutta galera. Il mio bilancio, e la conseguente valutazione sull’opportunità, o la convenienza di tornare a delinquere, è risultato pendere pesantemente per la scelta dell’onestà, nel senso che se calcolo brutalmente quanto ho fatto soffrire (se ciò fosse calcolabile) e quanto ho sofferto io, quanto è costata la mia galera alla mia famiglia, allo Stato, a chi è stato vittima dei miei reati, il mio bilancio di vita è di tipo fallimentare.

Lo spunto per riprendere ora il discorso me lo dà uno scritto di un lettore di Ristretti Orizzonti, Alberto Verra, che si qualifica come "cittadino incensurato", e parlando di un mio articolo sul tema della recidiva scrive: "Vi faccio un esempio che conosciamo perché tratto da una testimonianza sul vostro giornale: Nicola in uno dei suoi scritti, analizzando le cause del suo comportamento nel 1995 (una rapina mentre lavorava all’esterno in misura alternativa) dice di avere avuto troppa fretta, individuando nella fretta la causa scatenante del suo reato, ma la fretta è sempre una conseguenza, mai una causa: da dove nasceva allora questa fretta? Analizzare questi aspetti è utile non solo a Nicola stesso e a persone che possono trovarsi nella sue condizioni del 1995, ma anche a noi cittadini ‘normali’ per capire quali sono i campanelli d’allarme a cui prestare attenzione".

Io personalmente non so dire se ci sono dei campanelli d’allarme… magari ci fossero, uno li ascolta e trova il modo di superare il problema. Certamente, quando sono uscito di galera, la fretta ha contato molto nella mia vita, fretta nel voler cercare di recuperare tutto il tempo perso, tempo sospeso dalla vita reale, tempo sottratto agli affetti, tempo che misurava con anni e mesi il mio reato. Ma recuperare quel tempo è impossibile, vivere "in fretta" nella speranza di pareggiare i conti, e rientrare in possesso del tempo perso in carcere, è impossibile.

La fretta però stava forse anche nel voler rincorrere quello stile di vita, dove non si conoscono ristrettezze economiche, dove si è abituati ad avere tutto e subito. Mia sorella Teresa mi scrisse alcuni anni fa: "Nik non vedo l’ora che anche tu inizi a misurarti con i veri problemi della vita, con le cose di tutti i giorni, riuscire con uno stipendio modesto ad arrivare a fine mese, queste saranno le sfide che ti aspettano e devi farcela!". Da allora non l’ho ancora delusa, né lei né chi mi vuole bene o semplicemente mi ha dato fiducia. Ma la recidiva è qualcosa che può essere in agguato sempre, ed è per questo che noi stessi dobbiamo mantenere sempre altissima la nostra attenzione.

La mia tecnica è elementare: non faccio assolutamente niente che non posso permettermi. Sia come acquisti, sia come pretese. Devo dire che questo mi ha portato molta serenità, non ho ansie derivate dal dover dimostrare qualcosa a qualcuno, che spesso poi è solo un problema tuo, perché sei ancora attaccato all’immagine che gli altri possono essersi fatta di te. Ho imparato a mostrami per quello che sono nella mia interezza, senza paura di far vedere anche le debolezze quando ci sono.

Per evitare di tornare in galera per un altro reato, può essere particolarmente importante accettarsi per ciò che si è veramente, e non per quello che gli altri pensano tu sia. Parlo per me come soggetto umano e mi riferisco anche a tutti quelli che si sono scontati oltre la metà della loro vita sepolti vivi, e sono tanti. Non credo a pentimenti, stravolgimenti di coscienza, folgorazioni sulla via di Damasco… credo nella ragione, nell’intelligenza dell’uomo, nella razionalità che prima o poi deve venir fuori. Nella scelta davvero consapevole. E quando parlo di scelta intendo una dolorosa presa di coscienza, che nulla ha a che vedere con i pentimenti fittizi atti a beccarsi benefici facendo arrestare i vecchi amici di un’epoca passata.

Ma quello che penso possa essere di reale aiuto a non ricadere nel reato, è una maggior stima di se stessi, e lasciarsi trasportare dalla tenue corrente delle piccole dolci cose della vita.

 

 

Il primato assoluto di recidive? È quello dei tossicodipendenti...

 

di Stefano Bentivogli

A guardare le statistiche sulla recidività nel commettere reati e ad affiancarle a quelle del cattivo esito delle misure alternative alla detenzione non c’è scampo: il primato assoluto è quello dei tossicodipendenti. L’altro record correlato è quello riferito al lasso di tempo che intercorre tra la scarcerazione e la commissione di un nuovo reato: ci sono casi, non poi così rari, in cui l’intervallo è misurabile in poche ore.

Sembra di avere a che fare con dei veri principi del male, gente senza scrupoli verso se stessi e tantomeno verso gli altri. È tramontata da parecchio tempo l’immagine dei figli dei fiori, degli hippies, degli stralunati sognatori che viaggiavano alle porte della percezione, di quelli che stimolavano la creatività con sostanze stupefacenti. La società di allora, pur condannandoli, in qualche modo li tollerava perché erano pochi e riuniti in tribù che spesso se ne stavano alla larga volontariamente dalla società perché la rifiutavano.

I tempi sono cambiati, la droga è oggi dentro il tessuto sociale a tutti i livelli ed il suo prospero mercato, in barba a tutte le pratiche proibizioniste, è solidamente inserito nei circuiti della finanza mondiale al punto di condizionare gli equilibri geopolitici del pianeta.

L’unico elemento che si è mantenuto costante con il passato è lo stato di illegalità, con la differenza però che, di tossici, le galere di oggi sono piene, anzi strapiene visto che molti di questi, utilizzando le leggi sulla tossicodipendenza, dovrebbero scontare la pena fuori, affidati a comunità terapeutiche o seguiti dal Ser.T. E invece spesso non riescono ad accedere a misure alternative, perché si sono già bruciati questa possibilità.

Qualcosa quindi non funziona proprio, se questo fiume di persone che finisce dietro le sbarre è diventato inarrestabile. Il dato di fatto è che, se per le comunità terapeutiche è molto difficile interrompere lo stato di dipendenza della persona affidata, per il carcere è quasi impossibile, di qui la recidiva inarrestabile. La comprensione del problema può essere aiutata solo da una maggiore conoscenza della realtà, proverò allora a raccontare qualcosa, ma premetto che sono tossico, detenuto e super-recidivo… abbastanza informato di conseguenza.

I tossici che sono in galera, e soprattutto quelli che vi rientrano di continuo, si differenziano dagli altri, i liberi, sostanzialmente per la dichiarazione dei redditi e per lo stato di famiglia (quello reale). Non sono mai stato in cella con Diego Armando Maradona, tantomeno col senatore a vita Emilio Colombo ai quali do tutta la mia solidarietà perché capisco in che razza di guaio si sono cacciati. Ricordo invece il Giubileo dei detenuti nel 2000 con la Messa del Papa a Regina Coeli (ho soggiornato brevemente anche lì), ricordo il detenuto che portava la croce in processione, morì pochi giorni dopo di overdose, in carcere. Un caso "spettacolare", ma neanche su questo ho sentito una grande compassione, una riflessione esistenziale generale che in qualche modo potesse affiancarsi a quella suscitata per la morte di Marco Pantani. Due morti entrambi tristi, entrambi in solitudine, morti di roba, come tanti trovati già viola, soffocati dal vomito nel cesso di qualche stazione.

La morte in carcere continua intanto ad essere considerata una morte di serie B, forse perché è impossibile per chi è libero incrociare quegli occhi sbarrati, quello stupore spaventato nell’attimo in cui la vita se ne va.

Per quanto riguarda lo "stato di famiglia reale", così prima l’ho definito, è quella situazione di solitudine affettiva aggravata nella quale il tossicodipendente viene ben presto a trovarsi ad un certo punto della sua storia. In carcere mantenere vivi gli affetti è un problema per tutti, per quelli che entrano già soli è un disastro, è quasi impossibile ricostruire relazioni affettive con lettere e colloqui, bisogna vedere poi se hai ancora qualcuno a cui scrivere e qualcuno che venga ad incontrarti a colloquio.

In carcere i tossici creano tanti problemi quanti ne hanno. Spesso entrano e devono affrontare la famigerata crisi d’astinenza, a meno che non riescano ad ottenere il metadone ad libitum. Si riempiono di psicofarmaci, dormono di giorno e fanno casino di notte, spesso sono talmente scassati che fanno fatica a lavarsi, sudano come spugne, non puliscono la cella, non hanno vestiti per cambiarsi, sono senza soldi e senza sigarette (ma fumerebbero dalla mattina alla sera).

Sotto il profilo sanitario sono invece fornitissimi, hanno tutte le epatiti dell’alfabeto, flebiti, infezioni… e l’AIDS? Se lo dichiarano, meglio stare alla larga, sennò… figurati se non ce l’ha, non vedi in che condizioni è… guarda come è smagrito.

Non è una situazione generalizzabile e i miei compagni si arrabbieranno, loro ed anche quelli che si fanno sostenitori della solidarietà tra detenuti, ma sfido chiunque a dire che vaneggio - la realtà è che il carcere è sovraffollato e stressante, ed è difficile sopportare convivenze così differenti. I medici invece, mediamente i "tossici" non li sopportano proprio, e in alcuni casi, da me constatati personalmente, li disprezzano. Il tossico è in grado di esercitare un pressing sul personale sanitario, sia esso medico o paramedico, per ottenere la dose di psicofarmaci a lui più consona, al quale è difficile resistere. Il tossico è bugiardo, manipolatore, è in grado di simulare l’intenzione suicida pur di ottenere quello che vuole, a volte conviene imbottirlo di benzodiazepine, così non rompe le palle e… affari suoi.

La questione poi negli ultimi anni pare si sia complicata, sono stati scoperti i soggetti a "doppia diagnosi", quelli che associano patologie psichiatriche all’abuso di sostanze stupefacenti, in italiano corrente pazzi ed anche drogati. Studi e ricerche di altissimo livello hanno stabilito che questi casi sono costantemente in aumento e che necessitano di accurati interventi terapeutici. Queste persone invece stanno affollando le sezioni degli Istituti di pena dove, per carenza di risorse, l’area sanitaria sta colando a picco, la mancanza di agenti impedisce spesso di svolgere attività fuori dalla cella o di predisporre le scorte per i ricoveri in ospedale. Gli psicofarmaci invece non mancano mai, credo veramente che il loro taglio sarebbe l’unica possibilità di far scoppiare una rivolta.

L’esecuzione della pena per alcuni si avvicina al letto di contenzione ma, visto che i tossici fanno reati del cavolo, le pene poi non sono lunghissime e spesso vengono sospese, tramutate in affidamenti. Materialmente per i primi reati, essendo le pene inferiori ai due anni, si resta in libertà con la "sospensione condizionale della pena". Per i seguenti, in genere più d’uno, si passa un breve periodo in carcere fino all’ottenimento di un’ulteriore sospensione per accedere poi all’affidamento in una comunità terapeutica. In questo periodo di libertà si commettono altri piccoli reati e si rientra in carcere aspettando l’eventuale concessione dell’affidamento in prova. A questo punto la pena da espiare inizia ad essere consistente, per uscire bisogna attendere che il residuo da scontare sia sotto i 4 anni.

È così che la gran parte dei casi che conosco siglano i record di recidiva, ci si trova improvvisamente con un bel periodo di galera davanti e niente fuori che ti possa incentivare a dare una svolta alla situazione.

Ricordo un amico che la mattina doveva essere scarcerato, ha girato tutte le celle della sezione in cerca di un limone (per i neofiti, l’agrume si usa per sciogliere l’eroina), non aveva tempo da perdere una volta fuori, erano due anni che era dentro. Io addirittura, ovviamente qui lo dico e qui lo nego, un giorno che dovevo essere scarcerato, sono riuscito a farmi addirittura prima di uscire, e all’uscita ero scassato come il giorno che mi avevano messo dentro. Così si esce fuori allo sbando, la roba costa cara, non la regalano davanti alle scuole, bisogna procurarsi i soldi nel modo più semplice e veloce. Ma la lucidità entro breve raggiunge lo zero assoluto, così le mani invece che sulla refurtiva finiscono dentro le manette. La frequenza di reati diventa direttamente proporzionale alla quantità di roba necessaria, alla fine non ci si preoccupa più nemmeno di farla franca, si sa già come andrà a finire.

La strada per uscire da situazioni del genere non ha tempi programmabili, il carcere però non aiuta di certo, ancor di più il carcere odierno, che non dà niente neanche al tipo di criminali per il quale è stato tristemente ideato. Le nostre leggi prevedono l’istituzione di sezioni apposite per i tossicodipendenti, in realtà queste sono quasi inesistenti perché costano troppo ed i soldi non ci sono. Così in carcere si vive alla rinfusa, mescolando e sommando disagi di tutti i generi, il risultato è che la disperazione aumenta e si alimenta, di continuo, fino alla scarcerazione, pronta per essere riversata all’esterno.

Resta quindi aperto il problema e non mi sento di poter proporre un "cosa fare" per risolvere una situazione così difficile e complessa. È necessario però, quando si affrontano questi temi come questi, essere più attenti, provare a capire meglio di cosa si parla ed evitare di rimanere vittime di luoghi comuni. Periodicamente difatti viene dato grande risalto nella cronaca dei giornali ad episodi delittuosi compiuti da tossicodipendenti, di solito piccoli reati contro il patrimonio che purtroppo accade che sfocino in violenza contro le persone, fino all’omicidio. La lettura poi è sempre la stessa: "omicidio per pochi euro, doveva comprarsi la dose di eroina". Il tossicodipendente diventa il peggiore dei mostri in circolazione, si dimentica il grado di volontarietà, l’assenza di premeditazione che invece le nostre leggi pongono in primo piano nella determinazione di un reato. La reazione della gente automaticamente si esplicita nella richiesta di più carcere anzi, solo carcere, come se si potesse liberarsi di un disagio personale chiudendolo in una gabbia. In realtà, una persona che ha problemi di dipendenza da sostanze, qualunque esse siano, in origine crea danno a se stessa, a livello sociale il problema c’è solo quando il mantenimento dello stato di dipendenza, avendo reso la sostanza illegale, obbliga il dipendente a commettere reati. È fin troppo palese che il drogato col portafoglio pieno è un personaggio assente dall’assortimento penitenziario. Ma non mi interessa, in questo momento, soffermarmi sugli effetti discriminanti delle politiche proibizioniste, trovo più importante parlare della loro assurdità e della loro inefficacia.

Alla base della dipendenza da sostanze stupefacenti c’è il bisogno di riempire un vuoto, la necessità di rimettere in equilibrio qualcosa, la droga svolge in qualche modo questa funzione, ci fa stare bene o meglio, non troppo male. La dipendenza poi aumenta le difficoltà a cercare un equilibrio in qualche altro modo, riduce gli spazi di sperimentazione. A questa situazione già difficile si sovrappone lo stato di illegalità che comporta, inizialmente, una vita da semiclandestino, successivamente invece, dati i costi degli stupefacenti, la necessità di commettere reati.

Così nella fase iniziale è difficile essere intercettati da qualcuno che ti possa dare una mano, si resta nascosti, cercando di proteggere lo stato di benessere che un po’ di droga ti garantisce. Poi invece quando si comincia a commettere reati, in genere i più semplici, perché del crimine i tossici non sono mai professionisti, si viene intercettati dalle Forze dell’ordine e si finisce in galera, come molta dell’opinione pubblica si augura.

Torniamo allora ai mostri peggiori dei quali parlavo prima, quelli che per pochi euro uccidono e vorrei ricordare un caso di pochi mesi fa, un tossicodipendente pugliese che durante una rapina in un supermercato, per pochi euro, ha ucciso con una coltellata il proprietario che si era ribellato. È stato dato un grande risalto alla notizia per la sua assurdità, i soliti pochi euro per la dose e un essere umano morto. Come avviene poi nella gran parte di questi casi il colpevole si è consegnato alla Polizia, probabilmente poco dopo essere riuscito a "farsi" e a riprendersi dall’incubo di cui era stato protagonista. Si riportavano nelle cronache altri dati, tra i quali uno su cui sarebbe bene riflettere: aveva appena finito di scontare in carcere un cumulo di condanne pari a 10 anni!

Forse occorre cominciare a chiedersi anche come sia possibile che dopo 10 anni di carcere la disperazione di questo ragazzo fosse ancora così grande da arrivare ad uccidere, o come un altro ragazzo di Roma, con una situazione giuridica simile, sia stato ucciso invece dal giornalaio che tentava di rapinare. Cosa succede dentro le carceri? Questi luoghi in cui si parcheggia la gente per rieducarli o quantomeno per proteggere la società libera svolgono la loro funzione?

E qui subentra il sistema penitenziario con tutte le sue contraddizioni, evidenti anche per chi a questo sistema crede ancora, in questo caso le soluzioni ibride per i tossicodipendenti, in carcere per scontare una condanna e per curarsi, ma in strutture dove si annaspa per garantire assistenza sanitaria a patologie ben più semplici. Inutile che commenti quindi la proposta di legge Fini sulle tossicodipendenze, nella quale, si badi bene, dove si parla di cure in Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti si annusa facilmente il tentativo di "carcerizzare" anche quest’ultime.

Io penso che punire la disperazione sia una vera follia, e vale per i tossici come per tutti gli altri, ma la nostra super civiltà non riesce a liberarsi dalla mania del carcere, figuriamoci quanto ci metterà a liberarsi dal bisogno perverso di dover sempre punire.

 

 

Ho già sofferto troppo per rischiare anche di diventare un recidivo

Dopo tanti anni di carcere, lontano dal mio paese, dalla mia famiglia e dai miei affetti, so anche troppo bene quanto è salato il conto che ho pagato per i reati che ho commesso

 

di Altin Demiri

Qualche giorno fa in redazione abbiamo parlato di recidiva. Ho sentito opinioni diverse, che non mi va di giudicare perché ciascuno ragiona con la sua testa e ha la sua storia. Posso parlare perciò solo del mio caso personale, in quanto conosco bene il mio carattere e so cosa conta o non conta, per me.

Credo che tutti possano sbagliare, e che spesso si sbagli più per colpa delle situazioni in cui ci si viene a trovare che per propria scelta. E infatti anche io ho sbagliato, come tanti. Sono convinto però che non sarò mai un recidivo, perché dopo tanti anni di carcere, lontano dal mio paese, lontano dalla mia famiglia e dai miei affetti, so anche troppo bene quanto è salato il conto che ho pagato e che continuo ogni giorno a pagare per i reati che ho commesso. Troppo salato, per rischiare di dover tornare a pagarlo in futuro.

A forza di riflettere non solo sulla mia situazione, ma anche su quella dei tanti compagni detenuti che ho conosciuto in carcere, non ho dubbi a rispondere no, alla domanda se valeva davvero la pena di rapinare, spacciare, trafficare, rubare e compiere gli altri reati che ci hanno portato qui dentro. Se uno conosce la galera, se ci ha passato anni dentro, come me, deve essere proprio un pazzo, o un "incorreggibile", se è disposto a correre il rischio di tornarci, una volta riacquistata la libertà.

Io credo che una persona deve imparare a dare un significato alla propria vita e deve scegliere responsabilmente il proprio destino, senza lasciarsi trascinare dalle circostanze. Perciò in futuro, quando finalmente uscirò dalla galera, farò di tutto per trovare un lavoro onesto che mi consenta di vivere decorosamente. E se sarò sfortunato, se non lo troverò un lavoro così, piuttosto che rimettermi a commettere reati (con il rischio di tornarci, dietro le sbarre) me ne tornerò a casa mia, in Albania, vicino alla mia famiglia, perché di fame non muore nessuno, nemmeno là. La libertà, quando l’avrò riconquistata, non sarò disposto a barattarla con nessuna somma di denaro.

 

 

Entri che sei un povero cristo ed esci che sei un delinquente professionista

Una storia fatta di 16 anni trascorsi dietro le sbarre di 19 diverse carceri italiane. La solitudine, la rabbia ed i rimpianti, ma anche la speranza di una vita diversa

 

di Nicola Pagliarulo

Casa lavoro Giudecca Venezia

Scrivo a tentoni nel silenzio della notte alla ricerca di qualche verità: ma perché sono così complicato ed ostinato, tanto da non voler, ancora oggi, accettare le mie debolezze e le mie insicurezze?

Da cosa fuggo non l’ho ancora capito, forse dal destino che mi sono costruito, che è tutto l’opposto di quello che credevo. La vita è un dono divino, fatta di sacrifici, di piccole rinunce, di semplicità e unione e armonia della famiglia. L’amore totale, appunto. Tutto questo era il mio mondo. Una splendida famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla, ma nonostante questo ho conosciuto 19 carceri, ho forzatamente convissuto a strettissimo contatto con etnie e culture non desiderate, non cercate. Il tempo ha fatto prima maturare la sopportazione, poi l’accettazione e infine ci siamo anche voluti bene.

Ho già scontato sedici anni di carcere: in me c’è qualcosa di marcio. Sedici anni sono una cifra impressionante, e seppure con una gran rabbia interiore sono ancora vivo. Spesso penso a Rimini, Bologna, Milano, Padova circondariale, Padova penale, Trieste, Udine, Belluno, Pordenone, Verona, Venezia circondariale, Venezia Casa di lavoro, Giudecca, Ferrara, Montelupo Fiorentino… e sono ancora vivo. Carceri girati e rigirati più volte: ne porto il "calore" sulla pelle, provare per credere. Una tournée carceraria durante la quale ho visto, ma anche vissuto in prima persona, situazioni in cui l’essere umano viene spogliato della sua dignità, dei suoi valori, delle sue aspirazioni, persino dei suoi sogni e dei suoi progetti. Situazioni dove si perde ogni aspettativa per il futuro, e allora si cerca soltanto di sopravvivere a un infame presente che è il nulla.

Certo, cazzo, la colpa è solo nostra, ce la siamo cercata. Abbiamo infranto le regole della società ed è giusto che paghiamo, ma cosa fanno le istituzioni per noi avanzi di galera? Sono entrato per un reato, neppure tanto grave, e come succede per il bingo ne ho vinti altri due. Il carcere è la scuola della delinquenza, dove viene messo lo sbarbato in mezzo a chi, delle patrie galere, ha fatto la sua seconda casa. In carcere impari le strategie per scassinare meglio, i trucchi per raggirare i sistemi d’allarme più sofisticati. In carcere, chissà perché, stringi sempre i rapporti con le amicizie più "sbagliate", conosci gli agganci più sostanziosi per i traffici di droga o armi, impari bene come rapinare una banca, un rappresentante orafo… Entri che sei un povero cristo ed esci che sei un delinquente professionista.

Penso che se solo all’interno di tutti gli istituti penitenziari ci fossero corsi davvero utili, attività ricreative, sportive, ma anche persone esterne a sufficienza e con le capacità per farci staccare la spina della routine carceraria, noi rifiuti della società potremmo imparare qualcosa di più importante e determinante, e magari ottenere un diploma professionale con possibilità di un lavoro una volta usciti, anziché essere sbattuti allo sbaraglio senza neppure un posto dove andare.

E poi, proprio per l’uscita, servirebbe più attenzione da parte delle istituzioni, un aiuto di tipo anche "psicologico", necessità alla quale quasi nessuno mai pensa. È un momento difficile, quello in cui si deve affrontare la propria famiglia, persone anch’esse relegate – non sempre ma molto spesso – ai margini della società per colpa di chi ha commesso il reato. Vergogna e incomprensioni, ed ecco che, anziché stringersi e cercare una soluzione, diventa più semplice telefonare all’amico conosciuto in carcere: "Sono nella merda, hai modo di aiutarmi a tirare su due soldi?".

Sfido chiunque, italiano o straniero non importa, a uscire senza un euro dopo parecchi anni di carcere e tornare dalla propria famiglia, ammesso che sia disposta ad accoglierti, e farsi mantenere. Abbiamo la nostra dignità che troppo spesso ce lo impedisce, invece dovremmo imparare a metterla da parte per chiedere aiuto: "Scusami, ho sbagliato, aiutami a rialzarmi onestamente". La penso spesso, questa cosa: sulla carta mi sembra tutto semplice, ma poi non ce la faccio.

Ho nella mente i troppi compleanni, i tanti natali e le tante pasque trascorsi nella più completa solitudine, periodi della mia esistenza in cui ho vissuto – e vivo ancora oggi – da solo. Abbandonato a causa del distacco e della freddezza che oramai si sono creati tra me e la famiglia: a fine pena sarò ancora più solo. Potrei farmi mantenere da mio padre benestante, "tanto lui ha case e negozi in abbondanza", ma io da solo ho fallito e da solo ne voglio uscire.

Senza scorciatoie, però: senza più puntare la 38 special sull’onesto impiegato e soprattutto senza il fiato del poliziotto alle calcagna. Voglio mettermi in gioco, stavolta onestamente. Ci provo, chissà che non riesca a trovare anche una donna che sappia amarmi con semplicità…

 

 

Lasciate ogni speranza… o voi che uscite

Ma chi riesce realmente a "reinserirsi nella società", al termine della pena? Forse si potrebbe dire che, tranne qualche eccezione, ci riesce soltanto chi non è mai stato davvero "disinserito"

 

di Francesco Morelli

 

"Lasciate ogni speranza… o voi che uscite". Queste sono le parole usate dal criminologo Carlo Alberto Romano alla presentazione di una ricerca sulla recidiva postpenitenziaria, realizzata dalla associazione "Carcere e territorio" di Brescia, di cui è presidente. L’indagine ha preso in considerazione per un periodo di cinque anni (98/2002), l’attività del Tribunale Penale di Brescia ed i risultati sono sconcertanti: l’80 per cento di coloro che hanno terminato una pena detentiva sono nuovamente tornati a delinquere e ad essere condannati.

Una percentuale che deve far riflettere e discutere, che deve indurre gli operatori della giustizia, ma anche il volontariato e noi detenuti, ad avere dei dubbi rispetto a ciò che si fa e che ci si attende sul versante del cosiddetto "reinserimento".

Oltre tutto questa cifra è, probabilmente, sottostimata: la ricerca si basa sui dati provenienti dal distretto giudiziario di Brescia, non considera che qualcuno, dopo avere scontato la pena nel carcere della città, può essere "emigrato" in altre province o regioni e lì avere commesso dei reati ed essere stato condannato. Poi c’è l’ulteriore problema della esatta identificazione di molti stranieri, dell’uso degli "alias", che consente di figurare come incensurati (un tempo si otteneva anche la "condizionale", oggi soltanto una espulsione più rapida…).

E, infine, non dobbiamo dimenticare che, di tutti i reati commessi, solo nel 15 per cento dei casi viene individuato il responsabile (la percentuale aumenta per i reati più gravi ed è minima, ad esempio, per i furti: 4-5 per cento). Quindi, se l’esperienza conta qualcosa, è ragionevole supporre che un "criminale recidivo" sia un po’ più difficile da incastrare, rispetto ad uno alle prime armi: qualcuno che la "fa franca" ci sarà pure, insomma…

Alla fine dei conti, chi realmente riesce a "reinserirsi nella società", al termine della pena? A mio parere, tranne qualche eccezione, ci riesce soltanto chi non è mai stato davvero "disinserito". Quindi quelle persone che finiscono in carcere per un incidente di percorso, non ci rimangono troppo a lungo e, all’uscita, trovano intatta (e magari rafforzata) la rete di affetti, solidarietà, e quant’altro.

Invece la grande parte dei "devianti", quindi poi dei detenuti, lo diventa per una serie di difficoltà: psicologiche, relazionali, economiche..., che il carcere aggrava e complica… e non vedo come potrebbe essere diversamente…

Quando un ex detenuto viene nuovamente arrestato nessuno si scandalizza, i giornali ne fanno una notizia soltanto se era in misura alternativa, oppure se era uscito da pochi giorni (o ore…), perché in questi casi serve a solleticare l’ottusa indignazione dell’opinione pubblica. Se ha terminato la pena da un po’ di tempo smette di essere un "ex detenuto" e diventa un "pregiudicato", parola che allude a colpe indelebili, debiti inestinguibili, futuri predestinati.

Un "pregiudicato" preso in flagrante di reato è un episodio perfino rassicurante, per la gente: conferma l’idea che un delinquente rimane tale per sempre, che i crimini sono commessi sempre dalle stesse persone, che la polizia sa fare bene il suo lavoro… e poi arriva un giudice a far uscire tutti!

 

Un ex detenuto deve essere preparato a combattere duramente, se vuole "stare a galla" in un mondo basato sulla competizione

 

Gli "ex detenuti" ottengono l’attenzione dei media solo quando mettono in atto proteste clamorose per ottenere un aiuto: spesso un lavoro, a volte una casa. A Caltanissetta uno si è versato addosso della benzina, minacciando di darsi fuoco dentro il municipio; ad Avellino un altro si è incatenato nella piazza principale, a Torino un altro ancora si è arrampicato su una ciminiera, dicendo che si sarebbe buttato se non arrivava un "giudice" ad ascoltare le sue ragioni…

A volte questi gesti ottengono l’effetto sperato, qualche amministratore pubblico impietosito (o semplicemente per evitare rogne) trova un "lavoretto" per l’ex detenuto: quello di Caltanissetta pare abbia avuto un "posto" dove guadagna ben 200 euro al mese, ad esempio.

E, quando accade, poi si assiste alla sollevazione dei disoccupati "normali", che scrivono ai giornali: "Dobbiamo commettere un reato, per trovare lavoro?!?". Se le guerre sono, sempre e comunque, faccende tristi, le "guerre tra poveri" lo sono particolarmente… Del resto non c’è dubbio che un ex detenuto debba essere preparato a combattere duramente, se vuole "stare a galla" in un mondo basato sulla competizione.

E non sempre questo è possibile, per ragioni di età, di salute di forza d’animo e via dicendo. O vogliamo davvero pensare che siamo tutti deficienti (noi detenuti, intendo), che ci piace stare in carcere… sì, sarebbe una spiegazione molto comoda per la coscienza, ma non è così. Di deficienti ce ne sono, come dal resto ci sono tra le persone libere, me la gran parte di noi diventa recidivo quando si arrende, quando decide che non ce la fa a vivere all’interno dei faticosi percorsi a cui è obbligato.

Credo non si tratti di una scelta presa a cuor leggero, ma allo stesso tempo è anche una scelta dettata dall’incoscienza. E chi vive ai margini è incosciente del proprio ruolo sociale vero, si percepisce come una vittima e quindi è pronto ad autogiustificarsi quando fa azioni non proprio corrette. Sono disfattista? Qualcuno ce la può fare, ma deve pure avere una buona dose di fortuna, oltre a tutto il resto…

E di me stesso, cosa posso dire? Solo un episodio, che vale più di tante chiacchiere: l’altra sera al rientro (lavoro all’esterno in articolo 21 e rientro in carcere alla sera) ho trovato una ingiunzione per il pagamento di circa 25.000 euro, "spese di giustizia" accumulate dal 1990 al 1996 (quindi quelle dal ‘96 in poi devono ancora arrivare?).

Sapevo che c’erano, avevo chiesto pure la "remissione del debito"… ma sono arrivate lo stesso! Adesso ho due soluzioni: o trovare questi soldi entro 60 giorni, oppure chiedere una rateizzazione e farmi decurtare il 20 per cento dello stipendio per i prossimi 12 anni. Se fossi dell’umore giusto mi augurerei "buona fortuna" da solo…

 

 

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