Attenti ai libri

 

La loro terra è rossa

Un libro che racconta un viaggio a ritroso,

dall’Italia dei sogni dei migranti al Marocco

che hanno dovuto abbandonare

 

di Nicola Sansonna

 

"La loro terra è rossa": fare la recensione di questo libro è per me un’esperienza piuttosto particolare, perché mi costringe a mantenere due sguardi. Il primo come redattore incaricato di recensire un libro, il secondo per aver partecipato, anche se per un solo piccolo capitolo, alla realizzazione del libro stesso, un capitolo che riguarda i ragazzi marocchini detenuti qui a Padova.

Ma parlare di questo libro è anche qualcosa che mi riempie d’orgoglio. Conosco l’autore sin da quando eravamo ragazzi, siamo entrambi chieresi, e abbiamo in comune l’amore verso una persona speciale, Marina Bodrato, sua madre, che per me è stata una "madre culturale", che mi ha seguito per i 25 anni di galera che ho già scontato, facendo sorgere in me l’amore per la letteratura classica e il gusto per la scrittura.

Quello che ci propone in "La loro terra è rossa" Emanuele Maspoli è un viaggio a ritroso. Un viaggio che inizia da quella che era la speranza, lo sguardo verso il futuro, l’Europa, l’Italia, per tornare al Marocco, alla realtà che migliaia di ragazzi hanno voluto lasciare alle loro spalle inseguendo un sogno.

 

Il viaggio di Emanuele parte dal ricco nordest, dalla Treviso dell’ex sindaco Gentilini, che per risolvere il "problema immigrati" suggeriva di travestirli da leprotti e poi sparargli addosso, la stessa amministrazione che fece togliere le panchine per evitare che gli immigrati, i mendicanti, i senza dimora potessero sostarci e rovinare così l’immagine della città. Il clima che gli stranieri vivono lì è ben spiegato dall’autore: sono intimoriti, e sono stati molto riluttanti a rilasciare interviste. E quasi tutti hanno anche preso l’abitudine di parlare a bassa voce, come per non farsi notare troppo.

 

È bello lasciarsi coinvolgere in questa avventura, in questa immersione nella cultura marocchina

 

Alloggi non concessi pur avendo regolare permesso di soggiorno ed un lavoro stabile, licenziamenti su due piedi, la spada di Damocle dell’espulsione che pende sulla loro testa se non hanno un lavoro, quindi il rischio continuo di subire ricatti: questa è per lo più la realtà di Treviso. Da Treviso poi si viaggia verso Modena, Venezia, Torino, Chieri, la città in cui l’autore ha vissuto la sua giovinezza. Per approdare in Spagna, una delle rotte più utilizzate dai migranti marocchini, ed infine in Marocco.

È bello lasciarsi coinvolgere in questa avventura, in questa immersione nella cultura marocchina, soprattutto in periodi come questo, in cui si parla di guerre giuste, di guerre lampo, di guerre durature, di guerre sante. Emanuele Maspoli rifiuta proprio questo concetto di contrapposizione, e ci porta invece alle radici della tradizione, della cultura, della vita quotidiana del Marocco, con le sue feste, gli usi, i divieti, tutto scandito da un ritmo pacato, che nasce forse da quelle distese di sabbia il cui respiro caldo sembra regolare l’esistenza delle città di quel paese.

 

Nella strada impari molto, com’è la gente, come la pensa

 

Le persone incontrate e intervistate sono una rappresentanza significativa della ricchissima umanità di origine marocchina che vive, lavora e a volte semplicemente sopravvive in Europa.

Nel suo viaggio a ritroso in Spagna, ad Alicante Emanuele incontra Amazigh, che gli racconta con lucidità cos’è per un migrante la strada, il luogo che più spesso impara a conoscere, dove si rifugia per cercare relazioni e risposte ai suoi bisogni: "Nella strada impari molto, com’è la gente, come la pensa: i sentimenti umani sono più comprensibili se si fa esperienza della strada. Anche la vera essenza della religione islamica è più chiara con l’esperienza del bisogno, ti rendi conto cosa vuol dire essere musulmano, di come la gente povera aiuta gli altri, vive la moschea e il sentimento islamico. Io leggo molto il Corano. Tanti frequentano la moschea e pregano, ma non agiscono da veri musulmani".

Fatima invece ricorda un’altra caratteristica della vita dei migranti: quella di tornare in patria per le feste, e cercare nelle feste di non perdere il contatto con la tradizione, con la vita famigliare, con il proprio passato: "Il bello del Marocco è l’allegria. Quando ci vado mi piace partecipare ai matrimoni. Quest’estate la mia famiglia parteciperà a molte feste di nozze, così ho deciso di seguirli e passare là le vacanze. Per vestirmi come mi pare per scatenarmi nei balli per conoscere tante persone".

Khouribga, Frih Ben Salah, Beni Mellal, Marrakech, sono solo alcune delle città, descritte soprattutto attraverso le parole di chi le abita, e quello che emerge è qualcosa che supera l’intento puramente narrativo, entrando nella sfera delle emozioni, delle sensazioni, dei sentimenti. E lasciando il lettore rapito da quelle descrizioni così autenticamente forti. È, quello di "La loro terra è rossa", un viaggio anche verso la propria coscienza, verso quel lato del nostro essere che non si rassegna agli schematismi ed agli stereotipi e cerca comunque ed ovunque l’autenticità, la verità e l’essenza delle cose.

Ma il punto nodale del lavoro di Emanuele Maspoli lo individua bene, nella sua prefazione al libro, Goffredo Fofi: il viaggio più lungo e più bello che si può compiere è dentro se stessi, per giungere nella propria profondità ad incontrare tutto il mondo e a scoprirsi uguali nelle proprie debolezze.

 

Emanuele Maspoli, nato a Torino nel 1967, risiede a Venezia. È operatore culturale e animatore di gruppo in ambito non violento, formatore all’educazione alla pace, interculturalità e gestione delle dinamiche di gruppo, ha aperto nel 1997 il Centro culturale di vacanza "Il lato azzurro", a Venezia isola di S. Erasmo, dove ha anche partecipato alla fondazione della redazione del giornale Terremerse, di cui fa tuttora parte.

 

 

"Testimone inconsapevole", un legal thriller di casa nostra

Il protagonista è un avvocato che legge romanzi americani, ascolta i Dire Straits e difende con passione un poveraccio

 

di Elton Kalica

 

"Anni prima il mio lavoro mi piaceva abbastanza. Adesso invece mi dava un vago senso di nausea": questo pensa Guido Guerrieri, un avvocato di Bari cinico, stanco, consapevole di aver fatto assolvere gente che non lo meritava, senza più stimoli e voglia di reagire, proprio mentre, arrivato a casa, trova la moglie che gli comunica che vuole la separazione. Lei sostiene calma e implacabile che lui è diventato un uomo mediocre. E subito dopo lo butta fuori di casa.

Il leggero sollievo dei primi giorni di "libertà" si trasforma presto in un incubo. Guido Guerrieri viene invaso da attacchi di panico, diventa claustrofobico, facile alle lacrime, paranoico al punto che superstizioni infantili emergono dall’oblio e lo invadono portandolo vicino alla pazzia.

Ma l’avvocato sa di non essere ancora pazzo, e sa anche che la terapia prescritta dallo psichiatra non funzionerà. Allora riprende ad andare alla palestra di boxe dove cerca di dimenticare le ombre che lo perseguitano. Ricomincia a preparare processi, ascoltare i clienti. I clienti. Un giorno riceve la visita di una cliente, una donna di colore dall’aspetto aristocratico. Il suo compagno – un "vuccumprà" senegalese – è stato arrestato per il sequestro e l’omicidio di un bambino di nove anni, bianco. Un bambino che è scomparso dal giardino della casa dei nonni al mare, ed è stato trovato morto, in un pozzo.

L’avvocato che non dormiva da mesi, avviluppato in pensieri ossessivi e tristi, si riprende. Il caso lo incuriosisce e decide di occuparsene, anche se l’uomo arrestato non ha abbastanza denaro e la donna di colore, l’unico punto di riferimento per l’uomo, è costretta a ritornare al suo paese d’origine lasciandolo solo con quella responsabilità.

Nel frattempo, la difficile strada del triste avvocato viene attraversata dall’amicizia di una nuova vicina di casa, che è appena uscita da una storia di alcolismo, ma che come lui è stata un avvocato, legge romanzi americani, come lui, e ascolta i Dire Straits. Sarebbe una storia perfetta con cui leccarsi le ferite ancora fresche, ma lui ci va cauto, molto cauto. Confuso e assalito da dubbi, alla fine Guido Guerrieri affronta il processo: deve fare i conti con un procuratore che non ha alcuna prova in mano ma ha diverse testimonianze che sostengono la sua teoria e dei testimoni convinti di contribuire alla condanna del colpevole, dell’uomo nero.

L’accusato dal suo canto non ha nessuna prova che lo scagioni: ma non dovrebbe essere lui a provare la sua innocenza, è l’accusa che deve dimostrare la sua colpevolezza. Nonostante il rito processuale italiano offra pochi colpi di scena, l’avvocato riesce ad animarlo, anzi lo stravolge. Umilia il maresciallo dei carabinieri, sottomette il testimone chiave, poi attacca il procuratore. Però tutto ciò non basta. L’uomo non si abbatte. Forse c’è una telefonata che potrebbe sottrarre il suo cliente dalle grinfie degli uomini bianchi che lo vogliono vedere al rogo. Ma basterà? E soprattutto, che piega prenderà la vita dell’avvocato dopo il processo? Riuscirà ad emergere dagli abissi della sua psiche dove la separazione dalla moglie lo aveva seppellito?

Per qualcuno gli avvocati sono degli avvoltoi in cerca di vittime da ripulire, per altri dei mostri di astuzia che si muovono con perfida abilità nei labirinti della giustizia rendendole la vita difficile. Per noi detenuti, quelle poche volte che riescono a fare uscire qualcuno sono dei geni, ma veramente quelle poche volte. In tutti gli altri casi, quando falliscono, allora sono solo l’oggetto delle nostre maledizioni. L’avvocato di questa storia forse è soprattutto fortunato, ma almeno, dopo un inizio stanco e senza slanci, alla fine riscopre la passione e la voglia di cercare la verità. "Testimone inconsapevole" è una storia raccontata da un magistrato che sui processi la sa lunga, ma forse anche sulla depressione, l’ansia e il rock americano.

 

 

Quando varchiamo la soglia della biblioteca ritroviamo la nostra umanità

 e riscopriamo la parte migliore di noi stessi

"Una favola per sognare": così recita il dorso delle copertine delle audiocassette che i detenuti della Casa circondariale di Como hanno registrato, nella biblioteca dell’istituto, per i bambini degenti presso l’Unità operativa di pediatria dell’ospedale S. Anna

 

A cura di Marino Occhipinti

 

L’iniziativa "Una favola per sognare" rientra nel progetto "Un libro una voce" promosso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ida Morosini, insegnante e volontaria che gestisce la biblioteca del carcere di Como, e che in pochi anni è riuscita a renderla moderna e funzionale, è stata l’organizzatrice e la coordinatrice del progetto. L’ha supervisionato in tutte le sue fasi, dalla scelta delle favole alle musiche, dall’idea delle traduzioni alla selezione dei detenuti. Ha curato tutte le registrazioni nella sezione femminile e tenuto i contatti tra questa e le sezioni maschili. A lei abbiamo chiesto di raccontarci i momenti più importanti di questa iniziativa.

 

In cosa consiste il progetto "Un libro una voce" e come ha preso avvio?

Verso la fine del mese di marzo Vincenzo Lo Cascio, operatore di Polizia penitenziaria, viene a farci visita in biblioteca con la direttrice del carcere, Francesca Fabrizi. In pochi minuti siamo informati del progetto "Un libro una voce", presentato presso la Casa di reclusione di Rebibbia e che consiste nella realizzazione di audiolibri letti dai detenuti e destinati agli ipovedenti o a chiunque ami la lettura ma non sia in condizione di leggere. Primo autore, Franz Kafka, prima lettura, Lettera al padre. Con davvero immenso piacere, entusiasmo e anche soddisfazione accettiamo la proposta di partecipare al progetto: noi, però, racconteremo le favole per farle ascoltare ai bambini dell’ospedale S. Anna di Como.

 

Ci sono particolari motivi per i quali la biblioteca di Como è stata coinvolta nell’iniziativa?

Il Dap ha scelto Como come primo carcere da coinvolgere e ciò è avvenuto per tre motivi: la presenza di una biblioteca efficiente ed automatizzata, la dimensione trattamentale oramai consolidata del carcere e la presenza di un reparto nido che ospita mamme con bambini al di sotto dei tre anni.

 

Ma quali sono le finalità che si propone il progetto?

Riflessione sui vissuti, assunzione di responsabilità, da parte del detenuto in vista del suo reinserimento sociale, ma anche solidarietà nei confronti di chi, "compagno di sventura", vive particolari condizioni di disagio o sofferenza.

 

Queste attività, finora svolte a titolo di volontariato, potrebbero diventare anche delle opportunità lavorative vere e proprie? Ci sono richieste, c’è un "mercato"?

Questa è un’altra delle finalità del progetto e anche la speranza: che pure in Italia si riesca a stimolare un mercato, certamente poco vivace e in sensibile ritardo rispetto ai paesi europei. Per ora, naturalmente dopo la consegna ufficiale ai bambini dell’ospedale Sant’Anna di Como, che avverrà in settembre, regaleremo le cassette alle scuole e al Lyon di Como. Con un po’ di fortuna…

 

Quante persone detenute sono impegnate e cosa fanno esattamente?

A "Una favola per sognare" hanno partecipato undici detenuti e quattro detenute. Nicola ha recitato, registrato e curato il mixer di brani e musiche, Karim Sofiane ha curato i disegni delle copertine, con Benito e Francisco, il quale ha tradotto in inglese I tre sordi e l’ha pure recitata. Whaidhys e Claudia hanno tradotto e recitato in spagnolo, Adrian ha tradotto e recitato in albanese, Dhana ha tradotto e recitato in rumeno, una ragazza anonima ha tradotto e recitato in francese, Sam ha letto in arabo e tradotto in italiano due favole arabe. Gli altri hanno solo recitato. Il nostro è stato un laboratorio sorto tra i tanti all’interno della biblioteca, quasi spontaneamente. Se l’iniziativa avrà successo e ci verrà concesso un finanziamento, sono sicura che tutti i detenuti saranno felici di ripeterla con l’impegno e l’entusiasmo di sempre.

 

Oltre alle favole per bambini, pensate di estendere il progetto anche alla registrazione di "libri parlati" per persone non vedenti?

Sì, certamente. L’idea è di allestire delle vere e proprie audioteche in carcere. Sarà bandito un concorso per la scelta delle voci più belle e più adatte alla recita. La selezione sarà effettuata da una giuria speciale, composta dalla madrina Enrica Bonaccorti, da attori, personaggi dello spettacolo ed autorità.

 

Per ultima la domanda più importante: ci parla delle reazioni delle persone detenute che hanno lavorato al progetto? Insomma, in questa iniziativa c’è anche un risvolto sociale, legato al recupero e alla riabilitazione delle persone condannate?

Divertimento, gioia, solidarietà e tanta emozione. È proprio incredibile come un microfono riesca a trasformare le persone e a svelare timidezze altrimenti insospettabili! Questa esperienza mi ha confermato quanto sia sottile e impercettibile la soglia tra il bene e il male e come sia sempre vincente puntare sulla valorizzazione delle risorse. Non so in termini numerici quanto siano i reali "recuperi", ma, guardando questo gruppo al lavoro, era palpabile la gioia legata al dono semplice e gratuito… di qualcosa di sé… per gli altri, per chi, per motivi diversi, eppure tanto simili, soffre come o forse anche di più.

 

Certamente è molto più semplice impegnare le persone detenute nelle varie attività, che fargliele raccontare. Pur tuttavia… quasi tutti hanno voluto esprimere con affetto e gioia la volontà di rendersi utili regalando un sorriso e un sogno ai bambini malati. Ognuno a suo modo, ma tutti con il cuore e dando libero sfogo alle emozioni

 

Cristian Lospennato, 25 anni

Un giorno mi trovavo in biblioteca, stavo cercando alcuni libri quando sentii parlare di un’iniziativa molto bella, che da lì a poco doveva partire. Mi son detto: perché no? Vi partecipai… e la professoressa Morosini mi chiese se avrei voluto registrare delle fiabe per bambini un po’ sfortunati (malati). Non ho esitato! Questa per me è stata una proposta molto allettante che mi ha dato modo di utilizzare del tempo (qui ne abbiamo a volontà) per qualcosa di veramente importante.

Penso che questo sia un progetto molto interessante per un futuro migliore sia per noi detenuti che per i bambini: entrambi soffriamo ma sappiamo volare sulle ali di sogni e speranze, un modo migliore degli altri per non inabissarci troppo dentro il nostro dolore, attorniati dai soliti pensieri, sempre negativi!

Spero che i bambini, ascoltando le cassette, non si siano messi a piangere per la mia voce che sembra più da orco che da principe, infatti io ho raccontato la fiaba Il principe che sposò una rana. Penso inoltre che riusciranno ad immedesimarsi così tanto da essere loro stessi i protagonisti della fiaba, perché ciò è successo anche a me mentre registravo: ho provato un’emozione indescrivibile, che mi fa sentire appagato e fiero, sia di me stesso che degli amici detenuti che hanno contribuito alla realizzazione di questo meraviglioso progetto.

Sono sicuro che i bambini si distrarranno dal loro dolore per abbracciare la vita e scalare mille montagne, riuscendo sempre in queste imprese ed in altre ancora più difficili, proprio come ho fatto io. Non capita tutti i giorni di trovarsi davanti a un microfono, attirati dal desiderio d’immaginare i bambini che ascoltano ciò che abbiamo fatto con tanta cura, immaginare le loro facce, i loro gesti in perfetta sintonia con gli alti e bassi della storia. Mi sono reso conto che far sorridere un bambino costa pochissimo. Per me è stata un’iniziativa molto nobile che rimarrà nella mia testa per sempre.

Nicola, 38 anni, bibliotecario e curatore del mixer

Mi sono tanto divertito di fronte alle immancabili "papere" dei lettori, ma quando è stato il mio turno ero emozionatissimo. L’esperienza è stata importante, come tutte quelle che si sperimentano in biblioteca, perché mi ha consentito di rendermi utile agli altri, specialmente ai bambini malati: ha fatto scattare in tutti e anche in me la molla della solidarietà verso chi soffre, una solidarietà che probabilmente, fuori, da libero, in preda a mille distrazioni, non avrei trovato il tempo, né colto l’occasione per mettere in pratica.

Francisco, 27 anni

Questo progetto mi ha insegnato che costa poco o niente fare del bene. Quando registravo o disegnavo mi immaginavo bambino nell’atto di ascoltare le favole che, purtroppo, nessuno mi ha mai letto.

Karim Sofiane, 30 anni

Io invece immaginavo di leggere per la mia bambina e rabbrividivo per l’emozione. Questa esperienza rimarrà sempre nel mio cuore: è stata bellissima e mi ha insegnato che bisogna amare le cose che si fanno per farle bene.

Adrian, albanese, 28 anni

Questa attività è stata diversa dalle solite, ma come tutte le altre che si fanno in biblioteca, ci ha consentito di "evadere" dai nostri problemi e dimenticare il dramma della nostra condizione di detenuti. Quando varchiamo la soglia della biblioteca, tra i libri, l’accoglienza degli operatori, gli spazi e il bel movimento di persone, ritroviamo la nostra umanità e riscopriamo la parte migliore di noi stessi.

Sam, tunisino

È stato bello: sono ritornato bambino e ho rivissuto una fetta della mia infanzia, quando mamma e nonna mi raccontavano la mia favola preferita. Ho ritrovato la felicità dell’innocenza, che, crescendo, naturalmente ha ceduto il posto alla disillusione… e all’amarezza di constatare che, a differenza delle favole, nella realtà la giustizia è uguale soltanto per chi ha i soldi. È poco, quello che ho fatto, e vorrei poter fare di più. Per i bambini e non solo.

Patty

Eccomi qua, sono sola davanti ad un computer, ho un microfono in mano e nell’altra… favole. Devo interpretarle e non ho mai fatto niente del genere. Chiudo gli occhi; davanti a me ci sono bambini, alcuni li conosco, sono i miei adorabili nipotini, altri non li ho mai visti, ma ci sono e pendono dalle mie labbra… Inizio a leggere e mentre entro nel vivo delle storie i loro visi cambiano continuamente espressione, ascoltano, si rattristano o gioiscono insieme agli eroi della storia, e io con loro…

Ogni finale racchiude in sé una lezione morale, che io comprendo e, ne sono sicura, non sfugge neanche a loro, i bambini: il nostro futuro, le favole: il nostro passato, il sogno che stimola la voglia di crescere, che insegna la differenza tra il bene e il male, che fa sognare ad occhi aperti, che dà speranza per un futuro migliore… Bene, la registrazione è finita; permane una sensazione di sogno in me, lentamente si dissolvono i volti di quei bambini: nel mio immaginario stanno dormendo, sognano… Mi riascolto, e non posso fare a meno di ridere, non riconosco la mia voce, mi vergogno per un po’, ma penso che chi non mi conosce non la troverà ridicola, sarà solo una voce da poter ascoltare ad occhi chiusi e che racconterà storie bellissime, dove il bene trionfa sempre e il male è sconfitto per sempre…

Poi arrivano le prime reazioni al mio "lavoro": sono positive, l’interpretazione è buona, sembra sia riuscita a trasmettere delle sensazioni in chi ascolta. Penso seriamente che potrei, grazie a questa esperienza casuale, immaginare un lavoro che abbia a che fare con questo… la doppiatrice? E perché no, l’attrice o forse la speaker in una radio… quante strade si possono aprire… No, non sono sogni… Sono stata testimone (attiva) di ogni progetto nato nella sezione femminile del carcere di Como. La Morosini è una pantera travestita da agnello. È tenace come solo poche persone sanno essere e spende tempo ed energia per dare a noi possibilità di recupero reale: con la biblioteca, che ha offerto a me e ad altre ragazze la possibilità di fare qualcosa di veramente utile ed interessante e poi con altre iniziative che mirano ad una più completa e profonda cognizione delle capacità e possibilità di essere parte di un mondo che solo se noi vogliamo ci esclude…

No, non è un sogno, la possibilità di creare qualcosa di utile e bello per noi e per chi non può rendersi conto altrimenti delle nostre capacità e scinderle automaticamente dalle nostre colpe, per altro pagate duramente…

Chiudo semplicemente con un grazie e con la speranza che altre, dopo me, potranno usufruire di questa possibilità di riscatto, perché non c’è niente che appaghi di più che fare qualcosa per gli altri, rendendosi conto che c’è sempre chi ha bisogno di sognare e c’è sempre chi sta peggio di noi. La lezione più importante per la vita di ognuno è capire che il mondo non ruota intorno a noi, ma, al contrario, siamo tutti ingranaggi per far funzionare la grande, immensa macchina, che è la vita…

Salvatore, 30 anni

Le iniziative della biblioteca ci insegnano a riflettere su di noi e le nostre azioni passate, ci aprono all’esterno, come se potessimo riacquistare per un attimo la libertà: durante la registrazione delle favole, pensavo ai miei nipotini e, dopo, ai miei genitori. Non ci crederete, ma quando mi sono risentito e ho visto tutto il lavoro e poi, quando mi sono visto in televisione, protagonista positivo, ho scritto a mia madre, dicendole, per la prima volta in vita mia, che le voglio bene e che ho deciso, d’ora in poi, di "regalarle" un mio nuovo e più sano comportamento.

Giorgio

Nella cella di un carcere ho sofferto tanto per non aver potuto fare da padre a mio figlio. Non ho provato la gioia di raccontargli le favole e ammirare i suoi occhi sgranati al suono delle mie parole. Questa esperienza mi ha come colmato quel vuoto e così è stata grande la commozione: mi sono sentito padre e figlio, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio.

Sicuramente iniziative del genere ti fanno scavare nel profondo, quando le porte si richiudono dietro di te e ti senti solo con te stesso e il tuo passato. Così ti metti a pensare e rivisiti le cose brutte e quelle belle, fantastichi e, per un po’, ti dimentichi di essere in carcere. Qui, se vuoi sopravvivere, devi imparare a "staccare", altrimenti il carcere ti distrugge. Le attività culturali, gli studi, la lettura… ti aiutano a vivere. Mi piacerebbe che ciò che abbiamo fatto, tutti col cuore, aiutasse i bambini e la società a pensare che il detenuto non è un mostro, ma una persona che ha sbagliato e sta pagando il suo debito e può anche fare del bene.

Claudia

Mi sono sentita importante e non so spiegare quanto sia stato bello sentirmi utile, io, priva di libertà, qui dentro, poter fare un regalo a dei bambini che soffrono. Che strano, sentire la mia voce: non avevo mai fatto niente di così divertente! E poi, che ridere! Non la smettevo più e continuavo a sbagliare. Quanta pazienza che ha avuto Ida! La ringrazio per la fiducia che mi ha dato e per il suo travolgente ottimismo, che ha il potere di contagiarmi. Ma la cosa più sorprendente è stata durante l’intervista per "Lucignolo": come una scolaretta, non ricordavo più nessuna favola, né titoli, né contenuti! E dire che ne ho tradotte quattro in spagnolo! Poi, ecco, mi viene in mente una, ma soltanto quella e soltanto il titolo: "Il principe che sposò una rana"…

 

 

Precedente Home Su Successiva