Le parole degli insegnanti

 

Rompere la scorza di indifferenza degli studenti

Porte chiuse e finestre da aprire

In quale modo mai la vita colorata, attraente e appagante di un adolescente medio di oggi potrebbe avere a che fare con quella sorta di buco nero che i ragazzi immaginano sia un carcere?

 

di Giuliana De Cecchi

Insegnante di Lettere dell’istituto tecnico P. Scalcerle

 

Organizzare un percorso didattico sul carcere, portare i ragazzi dentro un carcere è una bella sfida. I ragazzi sono lo specchio del loro tempo, manipolabili come e più degli adulti. Dunque va fatto con loro un lavoro controcorrente, è una navigazione rischiosa, piena di scogli affioranti. Potrebbero pensare, per prima cosa, che sia una proposta bizzarra: in quale modo mai la vita colorata, attraente e appagante di un adolescente medio di oggi potrebbe avere a che fare con quella sorta di buco nero che i ragazzi immaginano sia un carcere? Che cosa ci vado a fare, potrebbero chiedersi.

Rompere questa scorza di indifferenza, questo senso di estraneità è il primo problema da risolvere.

E poi arriva il secondo: se qualcuno in quel buco nero ci è finito, vuol dire che se l’è cercata… È la vecchia, rassicurante logica dell’occhio per occhio, che ci libera da ogni dubbio e da ogni rischio. Il male c’é, ma è lontanissimo da noi, non ci riguarda, è chiuso in quel buco nero, a noi non succederà niente di simile: chi lo compie, quel male, è cattivo e merita la punizione. Punto.

Ed ecco il terzo scoglio: non è che preoccuparsi di chi è rinchiuso nasconde magari lo scopo di giustificarlo? Affiora il sospetto del buonismo, sospetto che diffida delle buone intenzioni, quasi volessero cancellare le colpe e aprire le porte ai cattivi, per farli uscire…

Questi diffusi stati d’animo nei ragazzi si rivelano essere una forte auto-difesa: si dà una soluzione semplice ad un problema complesso, come se bastasse cacciare via i cattivi per far scomparire il male. E se ci pensiamo bene, potremmo scoprire che questa logica della reclusione è anche tipica della società adulta: semplificante, liquidatoria, procede per eliminazione, tende a chiudere le porte, annulla e dimentica.

Allora portare i ragazzi in carcere è cominciare ad aprire delle finestre mentali. Una finestra sui cattivi, intanto: leggendo i testi scritti dai miei ragazzi/e, dopo la visita in carcere, ho visto che ciò che li aveva maggiormente colpiti è stato lo scoprire la normalità di quegli uomini, ascoltare storie di vita quotidiana, seppure di una quotidianità drammaticamente inceppata. Non a caso la domanda ricorrente è sempre la stessa: che cosa li ha spinti a rompere la loro normalità, che cosa li ha fatti deragliare, visto che non si tratta di mostri dagli occhi di fuoco, ma di uomini, solo uomini.

E poi un’altra finestra si apre su quell’umanità dolente che sono i familiari dei cattivi, altro pianeta dimenticato e messo in un angolo buio: i ragazzi hanno ascoltato storie di bambini e bambine, di madri, di padri in lacrime, di affetti interrotti e bruciati. È stato come scoprire improvvisamente che la vita è maledettamente complessa, è come una scacchiera in cui il gioco maldestro di una pedina muove e trascina altre pedine che non hanno colpa, che il male lo subiscono, non se lo sono certo cercato. E qui non è facile allora dimenticare, il solito espediente della rimozione non funziona più. Ci servono altre chiavi di lettura della realtà…

Ma la finestra più grande che si spalanca è quella sui ragazzi stessi: come in una stanza degli specchi, l’immagine degli uomini reclusi rimbalza sui ragazzi. Da qui la spinta a guardarsi dentro e scoprire che anche la nostra quieta e normalissima quotidianità potrebbe incepparsi, perché anche noi siamo portatori di impulsi, di pulsioni trasgressive, di lati oscuri che non ci siamo magari mai preoccupati di sondare, perché non sospettavamo neppure della loro esistenza.

A questo punto possiamo dire di aver vinto la sfida: il solo aver compreso a 16 o 17 anni la complessità della nostra psiche è un traguardo. Da qui si può costruire qualcosa di buono.

 

 

Una scuola che collabora al progetto con un suo blog

 

di Morena Marsilio

Insegnante di Lettere del liceo scientifico Galilei di Caselle di Selvazzano

 

Io insegno al Liceo scientifico Galilei di Caselle, ed è il primo anno che partecipiamo al progetto, siamo entrati nel progetto con sei classi, le sei quarte che avevamo nell’istituto, e tutte e sei hanno deciso con molta serenità di partecipare. Quindi abbiamo avuto un coinvolgimento più o meno di 130 ragazzi, di questi 130 solo uno all’inizio ha dichiaratamente detto che lui non avrebbe voluto partecipare, è un ragazzo che io non ho nelle mie classi, non lo conosco, e vorrei sapere adesso cosa ne pensa in realtà a progetto quasi finito.

Mi soffermo su un paio di attività che abbiamo realizzato parallelamente al progetto. Abbiamo creato nel nostro istituto un blog, un blog proprio per il progetto carcere, se volete digitarlo lo trovate al www.galicarcere.altervista.org.

Allora questo blog è stato uno spazio nel quale i ragazzi hanno potuto liberamente, anonimamente, talvolta con dei nick name, esprimere le loro riflessioni, i loro pensieri, le loro emozioni su questo progetto. Ecco, l’onda emotiva è stata l’elemento che li ha portati soprattutto a comunicare all’indomani del primo incontro con i carcerati. E poi il blog è stato comunque una finestra interessante, perché ogni tanto i ragazzi intervenivano anche oltre l’onda emotiva, per comunicare per esempio l’importanza di alzare lo sguardo, come ha scritto un ragazzo, rispetto ad altre realtà detentive molto pesanti che si possono ritrovare in America o in Cina.

Un’altra iniziativa che abbiamo voluto affiancare al progetto è stata quella di muoverci per la biblioteca del carcere. A marzo è stata inaugurata la biblioteca Tommaso Campanella, io ho sempre avuto una particolare sensibilità per questo tipo di tematiche, ero presente quel giorno e ho chiesto ai ragazzi della scuola e alle colleghe di mobilitarci per poter arricchire il fondo bibliotecario.

Quindi ci stiamo muovendo con una raccolta di fondi che poi destineremo appunto alla biblioteca con un buono d’ordine che si potrà spendere in una libreria della città, in modo da prendere quello di cui c’è bisogno.

E una riflessione con la quale vorrei chiudere è la voce di un mio alunno, che secondo me ha spiegato con chiarezza l’efficacia preventiva di questo progetto. Sottolineo che sono tutti ragazzi di 18, 19 anni, quindi ragazzi grandi, che si muovono molto, stanno via alla sera, hanno una vita sociale molto attiva.

Allora Riccardo scrive: “Non avevo mai riflettuto, prima di ascoltare i racconti dei detenuti da noi incontrati, sul motivo per cui una persona compie un crimine, o meglio ritenevo che il male, inteso come entità che spinge un individuo a compiere azioni illecite di peso consistente, fosse una caratteristica innata in alcuni soggetti. Una predisposizione genetica a dimenticare il rispetto per gli altri e talvolta anche per se stessi.

Inoltre pensavo che l’atto criminoso trovasse fondamento in situazioni difficili come una infanzia tormentata, un passato di violenze subite, o comunque una vita condotta senza regole. Oggi ad incontro avvenuto mi rendo conto che sbagliavo di grosso.

L’incontro con i detenuti ha provocato in me un senso di insicurezza e anche di paura, in quanto ho preso piena coscienza di essere l’artefice del mio futuro.

Da domani non ci saranno più genitori a guidarmi e sarò responsabile di ogni mia scelta, sembrerà una banalità ma non ci avevo mai riflettuto”.

Ecco io credo che se i ragazzi hanno portato a casa questi pensieri e queste riflessioni, potranno forse far parlare la parte migliore che hanno dentro di loro.

 

 

Un percorso che ha disgregato quei collanti, che impedivano la liberazione di energie positive

 

di Riccardo Abati

Insegnante di Lettere della scuola media di Pianiga

 

Sono un insegnante della scuola secondaria di primo grado. La mia esperienza ha viaggiato su due binari. Infatti, quando mi sono incontrato con la redazione di Ristretti Orizzonti, e questo è successo nel luglio dell’anno scorso, e ho informato che nel mio istituto esiste un Consiglio comunale dei ragazzi, la redazione si è dimostrata molto interessata a questa esperienza di cittadinanza attiva.

Penso sappiate cos’è un Consiglio comunale dei ragazzi: è un gruppo, eletto all’interno della scuola dagli studenti e che ha un suo programma e un suo percorso, anche di discussione sulle tematiche della prevenzione, della sicurezza, della legalità e della solidarietà.

Devo dire però che le uniche difficoltà che ho incontrato per portare avanti il progetto scuola-carcere, non le ho trovate dai ragazzi, ma dagli adulti. Quando ho proposto al Collegio docenti questa iniziativa di collaborazione con Ristretti, si sono alzati tanti muri e sono state avanzate molte perplessità relative all’opportunità di avvicinare un centinaio di adolescenti al mondo carcerario. Meglio la solita didattica? Meglio vivere tranquilli all’interno delle nostre mura di cemento? (ironia della sorte la mia scuola ha una ingombrante struttura in calcestruzzo!). Perché tante reticenze? Da dove nascevano questi ostacoli? Indifferenza? Difficoltà reali o alibi per un fare scuola “più tranquillo”? Nel mio istituto ci sono cinque classi terze delle quali quattro hanno partecipato al progetto e sono anche entrate in carcere per incontrare detenuti e volontari di Ristretti Orizzonti, mentre una è stata privata della possibilità di effettuare questa esperienza. Ho chiesto all’insegnante di quella classe se voleva esternarmi le sue perplessità, ma non ci sono state risposte significative. Era però evidente un arroccamento, un timore di subire “scacco matto”. Un non volersi mettere in gioco e soprattutto un non voler fare giocare ai propri studenti una delle tante partite importanti della loro vita. Ho avvertito una paura molto forte, una difficoltà interiore di confrontarsi con una realtà che i ragazzi potevano anche non conoscere e che stava benissimo fuori dalla loro vita, perché secondo questa mia collega il mondo del carcere è un mondo a parte.

Anche il Consiglio comunale dei ragazzi ha ricevuto dalla redazione di Ristretti una proposta di collaborazione sulle tematiche della prevenzione e della sicurezza. I ragazzi all’inizio hanno manifestato un misto di curiosità e di timore. Successivamente, discutendo animosamente tra loro, si sono divisi in più frange. In questa discussione sono emersi i loro vissuti con comportamenti a volte già al limite della legalità. Si sono scontrati con un’informazione sulle tematiche carcerarie spesso distorta e strumentalizzata e con un ambiente culturale del territorio scippato dei valori della civiltà contadina. Inoltre sono venuti a galla stereotipi e pregiudizi respirati all’interno delle famiglie e spesso involontariamente trasmessi ai figli. Il trinomio scuola-carcere-famiglia è stato ben messo a nudo dai ragionamenti degli studenti facendo emergere come ogni componente deve giocare fino in fondo la propria parte, con obiettività, disponibilità al confronto e soprattutto senza giudicare a priori quanto non si è vissuto sulla propria pelle in ascolto, sguardi incrociati e dialogo. Sono stati “crudi”, tremendamente critici, a volte cattivi, ma di una cattiveria che era spesso una maschera di tanti disagi esistenziali propri o di coetanei a loro noti. L’informazione corretta gioca un ruolo decisivo nella costruzione di percorsi realmente educativi per entrambe le parti in gioco. Sì, perché ogni incontro nella Redazione di Ristretti, e in questi Convegni annuali, sono sempre momenti preziosi e irripetibili di una maturazione collettiva e di crescita personale in termini di accresciuta responsabilità civica da condividere nei propri luoghi di vita.

Per finire, mi stavo chiedendo con alcuni colleghi a cosa può essere utile un Progetto carcere-scuola. Sono giunto alla conclusione che tale progetto ha attivato molteplici percorsi virtuosi che si sono insinuati negli interstizi dei limiti e dei desideri necessari tra le relazioni e nelle relazioni. Questi itinerari educativi scuola-carcere, relativamente alla mia esperienza di educatore, hanno avuto la valenza di insinuarsi in interstizi molto personali, molto interiori, molto particolari e che hanno dietro a volte delle realtà dolorose, di separazioni e di divorzi di genitori, di carenze affettive, di situazioni comportamentali già al valore soglia di una devianza incipiente e di violenze consumate in famiglia. Se qualcosa è andato a scardinare dei collanti, che impedivano la liberazione di alcune energie positive, va bene, proseguiamo così. L’ascolto delle esperienze dei detenuti, il porre domande, il riflettere a scuola, il riportare in famiglia quanto interiorizzato problematicamente, è sicuramente servito a porsi in discussione e a guardare con occhi disincantati realtà ritenute ingombranti, imbarazzanti e lontane anni luce dai propri vissuti.

Come insegnanti non possiamo ignorare il respiro della società nella quale convivono le contraddizioni di una umanità talvolta disorientata da troppe provocazioni di proposte del “tutto e subito”. Una scuola che non guarda fuori dalle proprie finestre non educa, al massimo trasmette e appiccica nozioni. Le finestre della mia scuola sono tutte aperte e ci sono ottocento studenti affacciati con occhi sgranati pieni di desideri e di tanta voglia di futuro. Il prossimo anno l’Istituto comprensivo statale “Giovanni XXIII” sarà ancora presente.

 

 

In carcere si può imparare ad ascoltare

È vedere la sofferenza provocata che inchioda alle proprie responsabilità

Quando le vittime hanno la forza di entrare in carcere, la pena acquista improvvisamente senso

 

di Ornella Favero

 

Voglio parlare del rapporto tra vittime e autori di reato partendo a ritroso, da oggi, da quello che significa, per tutti noi di Ristretti Orizzonti, la presenza in redazione, come volontaria e non più come “ospite”, di Silvia Giralucci. È semplicemente straordinario, straordinariamente difficile ma anche “rivoluzionario” discutere di carcere, pene, reinserimento assieme a una persona che è stata vittima di un reato come l’omicidio, una che, quando aveva tre anni, ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse. Per spiegare però devo fare un esempio, e poi raccontare anche di una “strana” accusa di buonismo. Partiamo dall’esempio: un giorno stavamo discutendo in redazione di un appello da lanciare per denunciare il sovraffollamento delle carceri e chiedere il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, noi tutti convinti che servirebbe un altro indulto, e pronti a dimostrare, dati alla mano, che la recidiva dell’indulto non è stata affatto altissima come ha fatto credere tanta cattiva informazione, quando Silvia ci ha di colpo inchiodato alla responsabilità di imparare a comunicare a partire dai bisogni e dai sentimenti veri delle persone a cui ci rivolgiamo, che non sono affatto gli addetti ai lavori, ma gli studenti, i loro genitori, i cittadini comuni. E ci ha inchiodato con una constatazione, priva però di qualsiasi astio: “Ma una persona che ha subito un reato e vede l’autore punito, magari, con tre anni di detenzione, non può serenamente accettare che quella persona grazie all’indulto non entri nemmeno in carcere!”. È vero, forse non può, e anche noi, volontari e detenuti, che il carcere non lo augureremmo a nessuno, dobbiamo fare i conti con un bisogno di giustizia che si accompagna al legittimo desiderio di vedere che chi ti ha procurato del male, e non ha fatto i conti con la tua sofferenza, una qualche dose di sofferenza la deve provare comunque sulla sua pelle.

Ma attenzione, io non credo affatto che quello che ha detto Silvia lo accetteremmo da chiunque, perché in realtà tra noi volontari, i detenuti e lei c’è una continua mediazione e un imparare reciproco, che nulla ha a che fare né con l’uso spregiudicato e massiccio delle vittime che fanno televisioni e giornali, né con le semplificazioni “democratiche” di chi fa delle sacrosante battaglie per la tutela dei diritti delle persone detenute, senza però nemmeno ricordarsi che esistono le vittime. No, noi prima di tutto ci ascoltiamo a vicenda, e questo è davvero quasi rivoluzionario, e poi consideriamo le ragioni di tutti, e ci sperimentiamo continuamente nel cercare soluzioni che siano diverse dalle pene solo punitive, ma anche da quelle così inefficaci, che lasciano l’amaro in bocca a chi ha subito un reato. Silvia ci ha suggerito per esempio che sarebbe meglio poter parlare di “detenzione alternativa” e non di misure alternative, per spiegare che chi lavora in semilibertà è tutt’altro che libero, e nello stesso tempo per far accettare che quella misura può davvero rendere più sicuri tutti, perché abitua gradualmente le persone che hanno commesso reati a rispettare le regole, a rispettare gli altri, a conviverci, e nello stesso tempo le controlla con severità e rigore.

E l’accusa di “buonismo”? Detesto questa parola, e non mi piace vivere in una società che pensa che la bontà fa schifo, ma la trovo addirittura ridicola se qualcuno, come è capitato, la rivolge a una vittima, accusandola, appunto, di non essere una vittima “autentica”, perché la vittima autentica non può mai essere “buona” con i delinquenti. A Silvia comunque ho detto: se qualcuno parla di buonismo per te, dimostra di non aver capito nulla. Perché in carcere tu sei stata qualche volta cattivissima, capace di far vergognare anche tante persone detenute, e questo è un passaggio fondamentale per il cambiamento.

Mi viene in mente quello che ho sentito dire a uno di loro, Marino Occhipinti: bisogna arrivare a provare orrore per il proprio reato. E non è la galera che ha questo effetto, è vedere la sofferenza provocata che inchioda alle proprie responsabilità. Penso anche al racconto di Dritan, che ha ucciso per vendetta, ha accettato la galera senza nessun cedimento, e poi però gli è successo qualcosa di veramente sconvolgente: “Mi sono sentito davvero male quando il padre del ragazzo che ho ucciso mi ha fatto sapere di avermi perdonato”. Sono sicura che lo schiaffo morale più grande che uno possa prendere è vedere che l’altro non vuole scendere al suo livello, quindi non vuole il suo male. Sarà buonismo, ma è una bella sfida, a cui Silvia sta dando un apporto fondamentale, con quel giusto impasto di “cattiveria”, attenzione, capacità di guardare il mondo “con gli occhi del nemico” che ci costringe a rimetterci continuamente e spietatamente in discussione e a non dare niente per scontato.

 

La mediazione pone chi ha fatto del male davanti agli esiti delle proprie scelte

 

Ma voglio anche rifare il percorso che, a partire dalla giornata di studi del 23 maggio 2008, “Sto imparando a non odiare”, ha portato al nostro incontro con Silvia e a un modo di riflettere sui reati “diverso”, diverso per molti detenuti e anche per molti volontari. Tutto è cominciato con un messaggio che abbiamo ricevuto quando ancora stavamo preparando quella giornata, e avevamo invitato a partecipare tante vittime del terrorismo, come Olga D’Antona, Manlio Milani, Andrea Casalegno, ma non lei, non la persona che abita a due passi dal carcere di Padova. Segno anche questo che la nostra attenzione, la nostra memoria, la nostra conoscenza delle vittime del terrorismo erano abbastanza scarse.

Silvia, a cui proprio a Padova hanno ucciso il padre (ho appena scritto “ha perso il padre” e poi mi sono accorta che le parole spesso sono sbagliate, perché in realtà gliel’hanno ucciso, non c’è nessuna perdita, c’è uno strappo, una ferita, una lacerazione IRREPARABILE) allora ci scrisse: “Non si diventa un ex assassino. Semplicemente perché io non divento un’ex-orfana, perché il mio papà non torna. Piacerebbe anche a me che questa realtà fosse reversibile, ma non lo è. E anche chi ha saldato il proprio debito con la giustizia, dovrebbe tener conto che rimane comunque per sempre una responsabilità verso le vittime”. Lei mi hai costretta in questo anno a riflettere molto seriamente, e ad abbandonare ogni certezza. Prima pensavo semplicemente che molti ex terroristi come quelli che hanno ucciso suo padre, non sono mostri, e non è neppure vero che non si siano pentiti di niente, che vogliano solo esibirsi, sono anzi spesso persone che fanno un duro lavoro in ambito sociale con tossicodipendenti, malati di AIDS, soggetti con problemi psichici. Questo era il mio pensiero prima, e probabilmente non è neppure sbagliato, ma adesso credo di capire qual è spesso il “peccato originale” che una vittima non può perdonare a chi commette un omicidio: è il protagonismo la brutta bestia, un protagonismo assoluto e negativo, che ha portato queste persone in passato a credere che le loro idee potessero essere applicate anche passando sopra la vita degli altri, e oggi che sono impegnate nell’ambito sociale è un protagonismo forse anche positivo, ma sempre protagonismo, sempre desiderio di vedersi riconosciuti i propri meriti attuali con un ruolo di primo piano. È questo che è imperdonabile, il non capire che se hai un passato come il loro devi accettare di avere un presente oscuro, un presente di secondo o terzo o quarto o decimo piano.

Alla giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, Silvia ha affermato che chi ha ucciso qualcuno dovrebbe “camminare a testa bassa”, e quella frase è stata secondo me un po’ la fotografia della complessità che deve esserci nella mediazione tra vittime e autori di reato: lei ci ha infatti costretto a pensare che il reinserimento forse deve passare anche attraverso parole “fuori moda” come umiltà, l’umiltà di capire che si può rientrare nella società in punta di piedi.

Dal 23 maggio 2008 la nostra redazione non è più stata la stessa, ma forse anche per lei qualcosa è cambiato. Penso a quello che ha scritto Marino Occhipinti, e mi pare di vedere nelle sue parole tutto il senso di questo difficile “cammino di pace” che può vedere fianco a fianco vittime e autori di reato: “Quando Silvia ci ha detto che lei ha sempre addosso il suo cappotto di dolore e che quindi un peso simile lo deve portare anche chi ha ucciso il suo papà, le ho risposto che la mediazione, anziché liberare quelle persone del loro fardello, potrebbe costringerle a indossare un cappotto ancora più pesante, proprio perché la mediazione non è e non deve essere intesa come un momento in cui fare la pace per “dimenticare” e mettere da parte quel che è accaduto, che forse è ciò che più “spaventa” le vittime, ma anzi ha lo scopo, senza alcun intento vendicativo, di porre chi ha fatto del male davanti agli esiti delle proprie scelte.

E chi, meglio delle vittime, può narrare il dolore e la devastazione che quelle scelte hanno lasciato?

 

 

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