Carcere e scuola

 

Accettare un confronto leale con gli studenti

non è né semplice né scontato

Ma vale la pena farlo per un progetto che è delicato, complesso,

che non ci permette mai di distrarci e “abbassare la guardia”

 

Abbiamo scelto di pubblicare due lettere molto “severe” scritte da due giovanissimi, di una terza media, a Daniele, il detenuto della redazione che ha passato molti dei suoi permessi premio a incontrare gli studenti delle scuole nell’ambito del progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Le lettere e le riflessioni che abbiamo ricevuto sono tante, e ce ne sono senz’altro di ragazzi più “generosi” nei confronti delle persone detenute, ma è importante rispondere a questi, perché esprimono una forte, e pericolosa illusione: che cioè sia facile “pensarci prima”, e che a loro probabilmente non capiterà mai nulla di male perché, appunto, sono capaci di “pensarci prima”. E invece no, non è così semplice né così scontato, e tutto il nostro percorso con le scuole è appunto un modo per aiutare i ragazzi, anche attraverso il racconto di esperienze pesantemente negative, ad allenarsi a pensarci prima.

 

Bisogna pensarci, prima di rovinare la vita propria e quella dei propri cari

 

Caro e sconosciuto signor Daniele, come sta in quel posto orribile dove l’hanno sbattuta? Sinceramente mi dispiace e le auguro buona fortuna per i suoi prossimi e ultimi tre anni da scontare. Come sta la sua anima, evidentemente triste e pentita, in mezzo a tutte quelle altre di sicuro anche loro disperate?

Nell’ascoltarla venerdì scorso, ho avuto una, due, infinite sensazioni strane le quali vorrei provare a chiarire. Ascoltando la sua storia e quella della signora Paola ho provato sensazioni che non saprei spiegare, ma so che erano tristi e sorprese. Da piccolo ho sempre pensato che la droga fosse solo in posti lontani come l’America o l’Asia, ma crescendo ho capito tutto. Durante l’incontro mi è sembrato che lei non volesse raccontare la storia prima del suo arresto; per farle un esempio, la signora Paola ci ha messo molto più tempo di lei a raccontare tutto l’accaduto. Comunque lei ha tutto il diritto di fare come crede. Inoltre volevo chiederle di spiegarmi meglio, attraverso una lettera di risposta, come sono stati i rapporti con i suoi famigliari nei suoi confronti, dopo l’arresto.

Comunque, se posso dire la mia, è solo colpa sua se lei si ritrova dentro perché avrebbe dovuto pensarci, prima di rovinare la sua e la vita di tutti coloro che ha coinvolto nel suo giro di droga. Secondo me bisogna essere poco educati, poco responsabili e poco altruisti per compiere azioni come queste. Scusi per il linguaggio un po’ crudo, ma quando c’è qualcosa da dire, la si dice, punto e basta. Per piacere, mi potrebbe rispondere esponendo i suoi pensieri, i suoi sentimenti e come pensa di essere quando uscirà di galera se Dio vorrà?

Adesso io la saluto e le auguro di nuovo buona fortuna per i prossimi anni.

Cordiali saluti

Anis H., 3a B Scuola media Levi Civita

 

 

Carissimo Daniele, ascoltare la tua storia mi ha fatto pensare che la prigione non è un luogo dove ti trattano male, anzi il contrario, perché ti portano da mangiare, da vestire e ti fanno parlare con i tuoi familiari e i tuoi amici e ti cercano anche un lavoro per poter pagare la prigione, certo però che per te è stato difficile perché ti hanno portato in cella d’isolamento, e quindi non potevi né vedere né parlare con le altre persone, eri chiuso fuori dal mondo. Perché hai fatto questo alle persone che ti volevano bene? Forse ci dovevi pensare cento volte prima di accettare il lavoro che ti dovevano dare quei poco di buono. Come si saranno sentiti i tuoi familiari e i tuoi amici? Prova a pensarci un po’ sopra, comunque la vita è tua, ciò che hai fatto è fatto e non puoi più tornare indietro. Ci dovevi pensare prima e ora stai pagando per una grave colpa tua e di quelli che ti hanno trascinato in quel tunnel. Ci vorranno anni prima di uscirne completamente, mi dispiace per te e per i tuoi amici e familiari, ma te lo sei meritato.

Nicola B., 3a B Scuola media Levi Civita

 

Non è facile raccontare ai ragazzi storie di fallimenti

 

di Daniele Barosco

 

Accettare un confronto leale con gli studenti non è né semplice né scontato per qualsiasi detenuto. Il progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, gestito ormai da parecchi anni dalla redazione di Ristretti Orizzonti, mi ha permesso questo doppio confronto con gli studenti, nelle classi e poi in carcere. Incontrarli prima fuori e poi dentro è sempre una sorpresa, una sfida che ho accettato come altri miei compagni di galera.

Il progetto non è un pacchetto precostituito, un percorso di educazione alla legalità uguale per tutti, ma è pensato e ripensato come un vestito sartoriale, cucito su misura e sulla taglia della classe o delle classi che andiamo ad incontrare.

Testimoniare di fronte ai ragazzi storie fatte di una serie di fallimenti, di dolore, di impotenza non è mai facile. Ognuno di noi ci prova a modo suo con genuinità e sincerità. Credo che sia proprio questa sincerità, che si percepisce dal fatto che le nostre storie non sono mai abbellite, ma sempre rese con attenzione a non cercare giustificazioni, ad essere molto apprezzata da tutti, a partire dagli insegnanti ma anche dai genitori e dagli studenti, che hanno così la possibilità di incontrare noi detenuti, dialogare con noi, esporci i loro dubbi, le critiche spesso giustamente impietose, ed anche qualche emozione forte ma genuina.

I toni e le parole sono importanti, e con Ornella e le altre volontarie che coordinano il progetto il confronto è sempre critico su questo punto, come è giusto che sia in un progetto così delicato, in cui ci impegniamo a dare il meglio di noi stessi, facendo un racconto preciso, vero, sobrio della nostra esperienza di vita che ci ha portato in carcere.

Qualche studente mi ha rivolto domande o lettere molto crude, molto critiche, qualche volta anche provocatorie. Ne aveva la facoltà in quanto io ho volontariamente accettato di confrontarmi con lui senza veli o ipocrisie da subcultura carceraria o finte questioni di riservatezza.

Denudarsi del proprio egoismo e del protagonismo negativo che ha caratterizzato le nostre condotte devianti nel passato rappresenta un alto punto di riconciliazione con noi stessi, e con gli altri, intesi come quelli di cui prima ci servivamo e che oggi abbiamo deciso volontariamente di servire con le nostre dure, ma credo utili testimonianze di vita.

Io non mi sento messo in discussione come persona quando un ragazzo o una ragazza di terza media mi ricorda più volte il fatto di “non averci pensato prima”. Non aver pensato al dolore provocato alla famiglia, agli amici agli affetti in generale, alle nostre vittime dirette o indirette, mi impone oggi di avviare una riflessione seria ed un confronto sui miei comportamenti sbagliati del passato. Ci ragiono e ne traggo le ovvie conclusioni, sapendo coerentemente quali sono le conseguenze delle scelte fatte e il prezzo pagato e da pagare.

Quando molti di questi ragazzi ci scrivono e ci ringraziano per le nostre testimonianze e per la sincerità che hanno percepito, io penso che “il servizio” che forniamo è stato utile e questo rende la mia pena meno inutile e il duro lavoro dei volontari più soddisfacente e stimolante.

Dare un senso “civico” ad una pena è forse un’utopia nel carcere di oggi, ma a me pare che noi a fatica ci siamo riusciti. Ci riusciamo perché tutti i giorni la redazione si incontra e discute sul progetto in cui siamo impegnati, e questo significa non avere più la sensazione di stare buttando il tempo qui dentro, ma al contrario sentirsi parte attiva di un progetto. Contribuire, dal carcere, a costruire una idea di sicurezza condivisa non è di certo facile, come non è facile aiutare a prevenire le condotte devianti dei giovani, soprattutto oggi con i modelli sociali proposti dai media, più intenti a costruire veline che persone responsabili e solidali.

 

La sofferenza di raccontare esperienze di vita che non vorremmo mai dover ripercorrere

 

Quello con le scuole è sicuramente il progetto più impegnativo, il più delicato ed anche quello che ci ripaga di più in termini di crescita sociale.

Nulla è dato per scontato e ogni volta che ci confrontiamo con insegnanti, genitori ed esperti per cercare di migliorarci e di migliorarlo è una fatica, a volte anche una sofferenza fisica che siamo disposti a fare, in quanto ci crediamo profondamente.

Questa sofferenza della mente e del corpo, che nasce soprattutto dal raccontare esperienze di vita che non vorremmo mai dover ripercorrere, se non fosse per aiutare qualcuno a non ripeterle, è anche un modo per crescere insieme, per condividere fatica e successo di un progetto delicato, complesso, che non è mai scontato e non ci permette mai di distrarci e “abbassare la guardia”.

Riallacciare i rapporti con la società attraverso un’esperienza come questa è utile a tutti, credo quindi che replicare il nostro progetto o progetti analoghi in altre realtà mature per farlo possa dare molto sia alle persone detenute che al territorio in cui questo progetto sarà proposto.

L’importante è che per noi detenuti tutto nasca dal cuore, senza nessun desiderio di essere protagonisti dando una immagine di noi un po’ più “accettabile”, un po’ meno negativa. No, io credo che noi dobbiamo costruire con gli studenti un rapporto chiaro attraverso l’umiltà di metterci in gioco tutti, con sincerità e genuinità, e questo è già un ottimo punto di partenza.

Per raggiungere però obiettivi duraturi di prevenzione, l’impegno, la fatica e la volontà di confrontarsi e crescere insieme devono essere il catalizzatore di un’esperienza che deve essere continuamente rivista, approfondita, messa in discussione, e solo così credo possa essere utile a tutti, come lo è stata per me.

 

 

L’illegalità fa progressi mentre la responsabilità regredisce a livelli primitivi

È questa la realtà in cui viviamo in cui vivono le giovani generazioni con le quali cerchiamo di ragionare sui reati e sui comportamenti a rischio. Sentendoci finalmente parte di un progetto collettivo di prevenzione

 

di Elton Kalica

 

Se dovessi spiegare in una frase la Giornata di studi che la nostra redazione organizza ogni anno, direi che è una specie di grande tavola rotonda ideale intorno alla quale, insieme ai lettori di Ristretti, approfondiamo un argomento che riteniamo particolarmente importante. La consuetudine vuole che nel corso dell’anno, mentre discutiamo per preparare gli articoli per il nostro giornale, valutiamo continuamente quale potrebbe essere il tema centrale per la Giornata di studi, e poi, quando questo viene deciso, comincia un lavoro faticoso, si stabiliscono dei contatti, si fanno interviste, si invitano in redazione persone che potrebbero essere coinvolte e così, documentandoci e ragionando insieme, arriviamo alla selezione dei relatori.

Approfondire il tema della prevenzione dei comportamenti a rischio e dei reati delle giovani generazioni è stata quest’anno un po’ la nostra sfida, perché è certo un tema che conosciamo a fondo, sul quale lavoriamo sistematicamente con le scuole da cinque anni, ma è anche vero che parlare di prevenzione oggi sembra un anacronismo, visto che ormai ad ogni problema si preferisce semplicemente rispondere con la galera. Se poi a parlare di prevenzione sono proprio persone che in carcere ci sono finite davvero, questa attività potrebbe assumere anche dei tratti surreali, “quelli che si fanno la galera e aiutano chi sta fuori a evitarla”, ma invece è un’esperienza realissima e ci sono davvero dei detenuti che per qualche ora si “liberano dalle catene” e vanno nelle scuole per parlare con gli studenti.

In tutti i nostri convegni abbiamo lasciato che degli esperti spiegassero i loro studi e le loro ricerche sul tema che avevamo scelto di approfondire, ma questa volta abbiamo voluto esserci anche noi detenuti affianco a loro per spiegare il nostro modo di fare prevenzione. Certo, non abbiamo alle spalle ricerche scientifiche e nemmeno titoli di studio adeguati, ma possiamo sfoggiare la “ricchezza” delle nostre complicate vite che, con i loro disastri e dolori, hanno almeno la magia di fare ragionare chi ascolta. Ecco allora che in questa Giornata di studi “Prevenire è meglio che imprigionare” abbiamo spiegato noi stessi il metodo con cui da cinque anni cerchiamo di far ragionare i ragazzi più giovani sui comportamenti a rischio, affinché non debbano fare le nostre drammatiche esperienze, e far capire che, se non imparano a vivere nella legalità, ogni altra strada, ogni desiderio di trasgredire, ogni leggerezza nell’accettare dei comportamenti a rischio potrebbe portarli in galera.

 

L’emozione di toccare con mano la gratitudine della gente

 

Chi conosce come si lavora a Ristretti sa che nel corso di questa Giornata sulla prevenzione non abbiamo detto niente di nuovo rispetto a quello che diciamo nelle nostre riunioni di redazione, pertanto potrebbe descrivere questo convegno come una riunione di redazione allargata a tutti gli insegnanti, i genitori, gli studenti che ci conoscono. Ma non è esattamente così.

Parlare di fronte ad una classe di ragazzi è sempre faticoso, ma di fronte ad una platea di cinquecento ospiti, le idee si offuscano e le corde vocali non rispondono più ai comandi. Se è vero che siamo delle persone sopravvissute alla galera, e che in qualche modo ci siamo costruiti una corazza per superare anche prove più difficili di queste, è altrettanto vero che alla fine del convegno ricevere i complimenti e i ringraziamenti degli invitati mi ha scosso così tanto che ho dovuto mordermi la lingua per distrarmi e trattenere le lacrime.

Ho sempre immaginato che il nostro lavoro con le scuole fosse importante, ma trovarmi in mezzo a decine di insegnanti che sono venuti a stringerci la mano e ringraziarci per l’aiuto che le nostre storie danno al loro lavoro di educatori, mi ha permesso di toccare con mano la gratitudine che la nostra azione suscita nella gente.

Anche il resto degli ospiti, fatto di giornalisti, di ricercatori, di operatori carcerari e di studenti universitari, ci ha voluto dire quanto sia importante per i loro figli, i loro fratelli, i loro allievi ascoltare le nostre storie, ma quello che è più importante è stata la sincerità e la chiarezza con cui alcuni giornalisti hanno analizzato i danni che certa informazione continua a causare nella società di oggi, e soprattutto nei giovani che rischiano di trovarsi circondati da una realtà dove a fare progressi è l’illegalità, mentre la responsabilità regredisce a livelli primitivi. Una realtà che spaventa anche qualcuno qui in galera, perché nonostante tutto sappiamo che, se non c’è giustizia fuori per i cittadini liberi, tanto meno ci può essere giustizia qui dentro per noi che siamo l’ultima classe della società.

 

Sentirsi uguali in dignità

 

Se questo convegno ci ha dato da un lato la conferma di aver intrapreso la strada giusta con le scuole, ci ha anche fatto capire una cosa che forse non avremmo mai immaginato possibile, e cioè come questo lavoro ci stia dando un forte riconoscimento tra la gente, e dico proprio “gente” e non addetti ai lavori. Mi vengono in mente tutti quei lunghi applausi con cui gli ospiti ci hanno accompagnati, e ci accompagnano spesso anche tante classi, e non posso non essere felice del fatto che ci stavano applaudendo per le cose che abbiamo detto e fatto, ed è importante per me vedere come le nostre idee e i messaggi che le nostre testimonianze trasmettono ricevano un così forte riconoscimento. Ma l’aspetto più toccante era il fatto che applaudivano noi, il che non mi ha emozionato perché ci facevano apparire come persone importanti, quanto invece perché ci consideravano semplicemente persone. E questo non è poco per chi vive in un periodo in cui le carceri si stanno trasformando in luoghi di umiliazione e basta. Per un attimo ci siamo dimenticati del nostro passato e ci siamo sentiti parte di un progetto collettivo, dove ognuno di noi aveva avuto un ruolo, indipendentemente dall’estrazione sociale, dal reato commesso o dalla nazione di appartenenza. Quel giorno ci siamo sentiti vicini alle centinaia di persone che ci guardavano e ci parlavano con ritrovata fiducia. Era chiaro che gli ospiti apprezzavano lo spirito di unità e consapevolezza intorno ad un obiettivo comune del nostro gruppo, e siccome quello di responsabilizzare i giovani per migliorare il resto della collettività è anche il desiderio che ci accomuna in tanti, forse gli applausi erano un modo per abbracciarci tutti insieme, da uomini meritevoli dello stesso rispetto; forse in quel momento, per una volta anche noi stranieri siamo stati considerati uguali in dignità e rispetto a tutti gli altri, e questa è stata la soddisfazione più grande della giornata.

Non importa se finito il convegno siamo tornati ad essere dei clandestini, che a fine pena saremo tutti espulsi, fondamentale è stato dimostrare che anche qui dentro ci sono persone che cercano di conservare la dignità e la capacità di credere nelle forme più alte dell’esistenza umana, che sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fiducia nel prossimo.

 

 

Il progetto con le scuole ci porta a ragionare su un terreno in cui siamo credibili

E questo forse ci spinge ancora di più a mantenere intatta la credibilità faticosamente conquistata, impegnandoci a dimostrare maturità anche nei nostri comportamenti in carcere

 

di Elvin Pupi

 

Parlare di rieducazione in carcere non è facile. A volte le istituzioni reputano rieducato chi ha una buona condotta, e cioè chi non litiga con gli altri detenuti e non viola le regole. Sembra facile seguire queste regole minime, ma questa si rivela una cosa molto complessa e spesso a rischio, per esempio quando, magari per un momento, perdi la testa e finisci per litigare con qualcuno. Se la questione degenera e si arriva alle mani, tutto quello che di buono uno ha costruito per anni, può essere distrutto in un attimo. La questione diventa così grave che non si risolve solo con qualche settimana di isolamento e la negazione dei quarantacinque giorni a semestre di sconto di pena per buona condotta, ma quell’unico episodio può essere riportato nella relazione dell’equipe trattamentale, cioè degli operatori che si occupano di te e del tuo percorso di reinserimento, e se l’equipe dice che non sei rieducato, ti taglia fuori da ogni misura alternativa al carcere. E allora, quando in questo gioco verso la libertà ti ritrovi a tornare indietro di dieci caselle anche per qualche cosa non così grave, uno si domanda cosa significa davvero essere rieducati.

Tuttavia non tutto quello che io ho fatto fino ad ora è così precario. Almeno il progetto con le scuole mi ha sempre dato la sensazione che noi detenuti facciamo delle cose che possono essere apprezzate non solo in quel momento, ma anche in modo più duraturo. I nostri racconti di storie sbagliate sono apprezzati dagli insegnanti proprio perché servono agli studenti per fare attenzione a certi comportamenti, e quindi le testimonianze che riusciamo a dare sono valide per le cose che esprimono, e non per dimostrare se noi siamo delle persone rieducate o meno.

Certo, non tutti sono disposti a mettere in discussione le proprie vite e le proprie scelte, quindi chi lo fa, per lo meno ha la buona volontà di maturare prima di tutto un senso critico verso se stesso. Ma se poi, magari vinto dallo stress della vita da galera, perde la ragione e finisce per fare a pugni con un compagno di cella provocatore, oppure per rivolgersi in malo modo all’agente perché non gli apre il cancello per andare in doccia, questo non significa che la sua testimonianza non sia più credibile. Ma proprio perché tutto ciò che di buono uno ha dato durante gli incontri, per i ragazzi rimane tale, nonostante la galera, e nonostante i nostri caratteri difficili, questo è anche un potente stimolo a ripensare continuamente ai nostri comportamenti.

Il giorno del convegno ho sentito molti apprezzamenti non solo da parte di insegnanti, ma anche dei giornalisti e dei vari esperti che sono intervenuti, e devo confessare che il cuore mi si è riempito di gioia perché c’erano delle persone che riconoscevano l’utilità dei nostri sforzi, senza volere per forza stabilire a che punto è il nostro ravvedimento o la nostra rieducazione. A differenza degli agenti, degli educatori, degli psicologi e dei giudici che guardano con la dovuta diffidenza le cose che diciamo e che facciamo, i ragazzi ci ascoltano con la massima attenzione e con l’aiuto degli insegnanti cercano di trarre delle lezioni, piuttosto che giudicare le nostre scelte e i nostri disastri. Ed è proprio questo il messaggio che io ho percepito dal convegno: il progetto con le scuole ci ha portati a ragionare su un terreno in cui siamo credibili, e questo forse ci spinge ancora di più a essere coerenti e a mantenere intatta la nostra credibilità anche impegnandoci a dimostrare maturità nei nostri comportamenti in carcere. In fondo poi però è interessante che quando siamo seduti di fronte agli studenti non siamo solo noi a dover essere rieducati, ma sono anche loro a dover arricchire la loro educazione.

 

 

Un impegno massiccio di energie e di umanità

È quello che richiede un serio programma di prevenzione, che ha poco a che fare con i pacchetti sicurezza e la galera come soluzione ad ogni problema

 

di Morena Marsilio

Insegnante di Lettere del liceo scientifico Galilei di Caselle di Selvazzano

 

Anche in questi torridi giorni d’estate si continua a parlare di carcere e di sicurezza: mentre si sono svolte su tutto il territorio nazionale le visite di esponenti politici ai vari istituti di pena per constatare di persona le condizioni dei carcerati, da alcune parti del mondo politico si “rassicura” l’opinione pubblica promettendo la costruzione di nuove carceri. Di fronte a tutto ciò, pur avendo il realismo necessario per capire che una realtà sociale senza carcere è un’utopia, si ha davvero l’impressione che parole come “prevenzione” e “misure alternative” siano sconosciute (o volutamente taciute?) a chi ci governa.

Forse non è un caso, quindi, che il convegno che si è tenuto a maggio presso il carcere Due Palazzi sul tema “Prevenire è meglio che imprigionare” si sia svolto senza presentare, nel novero degli interlocutori, una “parata” di rappresentanti del mondo politico (qualche volto era presente tra il pubblico); la parola è stata data, invece, a studiosi di sociologia e di psicologia, a criminologi, a giornalisti, a persone che hanno vissuto e ancora subiscono l’incancellabile condizione di vittime di un grave reato che le ha private degli affetti più grandi e a coloro che vivono quotidianamente la realtà carceraria, come detenuti o come volontari che a questi si affiancano nella delicata opera di recupero che il carcere dovrebbe perseguire.

Quella che ne è uscita è stata senza dubbio una giornata di studi dedicata ad un tema assai delicato e altrettanto trascurato, ma più ancora è stata una giornata di grande CIVILTà, in cui il confronto tra “i teorici” della questione e “gli artefici dei misfatti” è sempre stato costruttivo e incoraggiante, in cui l’ascolto delle idee, dei dati raccolti e studiati si è coniugato con le testimonianze di chi il carcere lo vive ogni giorno per scontare errori a volte irrimediabili, di cui solo la riflessione e la rielaborazione hanno fatto loro capire la gravità.

Ripensando ai ragionamenti, alle riflessioni, al frutto delle ricerche statistiche, alle esperienze vissute da familiari particolarmente noti all’opinione pubblica per la risonanza che la morte dei loro cari ha suscitato (basti pensare alle figlie rispettivamente di Walter Tobagi e di Graziano Giralucci, ma anche, per pescare nei fatti recenti, alla sorella di Giovanna Reggiani), ai resoconti presentati da tutti gli intervenuti mi rendo conto come essi abbiano toccato molti punti nodali della questione, primo fra tutti quello della responsabilità che molta stampa ha nello spingere il Paese, la gente comune verso atteggiamenti giustizialisti e definitori, secondo i quali non ci dovrebbe essere prova d’appello alcuna per chi ha sbagliato.

Trovarsi di fronte una giovane donna il cui padre è stato ucciso da un gruppo di terroristi e sentirla pronunciare parole “di pacificazione” e non di vendetta ha mosso dentro di me un’emozione così forte che trovo davvero difficile poterla descrivere: soprattutto ho capito che nessun dolore inflitto ai carnefici di suo padre dalla giustizia o patito dalla inesorabilità della vita ha lenito il suo, di dolore, e che, nel contempo, la sofferenza altrui non le ha dato “soddisfazione” . Benedetta Tobagi non ha parlato di perdono, ma neppure di vendetta, mettendo a nudo un’umanità dolente e complessa che non dimenticherò.

Così l’ammissione di Silvia Giralucci, che come Benedetta ha perso il padre quando era in tenera età, di aver ricevuto umanamente tanto da quando frequenta come volontaria la redazione di Ristretti Orizzonti, mi ha permesso di capire che davvero avevo davanti “vittime non vittimistiche”, animate non solo dal desiderio di “capire” il punto di vista altrui, ma anche dalla capacità di aprire la propria vita, che è stata “disastrata”, a chi ha deragliato. E non è comodo, per alcuni detenuti, avere queste presenze volontarie davanti agli occhi, che si ritraggono vergognosi per il loro cupo passato.

 

Imparare a leggere i comportamenti altrimenti incomprensibili di “adolescenti estremi”

 

Ancora due parole per altri interlocutori che mi hanno particolarmente colpita per motivi diversi: il moderatore della giornata, il criminologo Adolfo Ceretti, che ha “cucito” i vari interventi con grande pacatezza e rispetto, con una competenza e una preparazione mai fredde e distaccate: quando ripenso alle sue parole, ho la certezza di avere sentito qualcuno che parlava in modo “avveduto”, non avventato; saggio e ponderato, non “buonista” (il termine non piace a molti, lo so) e superficiale.

Don Gino Rigoldi che, con la sua testimonianza appassionata e vibrante, ha dato davvero l’idea di cosa significhi stare accanto “agli ultimi” senza pregiudizi e con grande cuore, Mauro Grimoldi, un giovane psicologo e Gianfranco Bettin, sociologo, ci hanno avvicinato in modi differenti ma ugualmente interessanti a cercare di leggere i comportamenti altrimenti incomprensibili di “adolescenze estreme” (come si intitola lo stesso libro di Grimoldi), ma anche a vedere l’uso, spesso distorto, che i media fanno di notizie che confinano con l’horror, più che con la cronaca nera.

L’intensa e dolorosa testimonianza di Paola Reggiani, doppiamente ferita dalla perdita drammatica della sorella e dall’uso distorto e pilotato che certa stampa ha fatto del delitto per “utilizzarlo” in una campagna contro i Rom.

La forza contagiosa di Antonella Mascali, giornalista siciliana che in un appassionato libro racconta come il dolore immedicabile di tante vittime di mafia che hanno perduto i loro cari stia diventando forza di resistere, di opporsi, di denunciare, anche di aiutare laddove alcuni familiari si affiancano ai giovani del carcere minorile di Nisida per recuperarli alla società civile.

Le riflessioni fatte da alcuni detenuti della redazione su alcune parole chiave: paura, responsabilità, violenza.

Una volta tornata a casa, ho avuto bisogno di qualche giorno per calibrarmi nuovamente sull’onda di frequenza quotidiana: uscire con una marea di idee nelle quali mettere ordine e di cui si è percepita la bontà e ritrovarsi a sentire i soliti stereotipi sul rapporto delitto-pena, sulla malvagità della natura umana, sull’assurdità della parola “rieducazione” ti fa sentire come sdoppiata e ti impone di chiederti dove sta la “Verità”, ammesso che esista in modo univoco, certo e assoluto. Anche a distanza di qualche mese dal convegno conservo comunque la convinzione che quella Verità non sta nelle tasche di chi fabbrica pacchetti sicurezza e punta a nuove galere evitando quell’impegno massiccio di energie e di umanità che un serio programma di prevenzione richiederebbe.

 

 

Il carcere può diventare uno spazio di confronto

Aprire spazi di comunicazione con chi rappresenta identità altre

È quello che riusciamo a fare grazie al progetto “A scuola di libertà”

 

di Antonio Bincoletto

Insegnante di Lettere del liceo delle Scienze sociali Marchesi-Fusinato

 

C’è qualcosa che funziona male nella società dell’immagine e dell’iperstimolazione sensoriale in cui ci troviamo a vivere: si perde la capacità di concentrazione, di ragionamento e di confronto, e le elaborazioni complesse lasciano il posto alle semplici reazioni primitive. Un’altra conseguenza, paradossale in tempi di globalizzazione, è la diffusa tendenza a rivendicare identità sempre più circoscritte e a chiudere gli spazi di comunicazione con chi rappresenta identità altre. In questo senso l’evoluzione sociale cui assistiamo negli ultimi decenni comporta anche una forma di perdita, di regressione antropologica.

Di ciò sono particolarmente consapevoli gli insegnanti che da anni si confrontano con le diverse generazioni di giovani studenti, verificandone i cambiamenti e le disposizioni. Sicuramente la scuola rappresenta uno dei pochi baluardi di possibile resistenza a tali processi di depauperamento intellettuale, ma non si tratta certamente di un compito facile né di una missione che l’istituzione scolastica possa compiere da sola, in controtendenza rispetto a quanto accade nel mondo. Fondamentali, a questo livello, risultano le sinergie che si creano fra istituzioni diverse, che collaborino e producano aperture.

Questa premessa mi serve ad introdurre una semplice considerazione, maturata in un quinquennio di collaborazione del mio istituto con associazioni esterne nella realizzazione del progetto di confronto tra la scuola e il carcere che noi abbiamo chiamato “A scuola di libertà”.

Il lavoro svolto dalla rivista “Ristretti Orizzonti” e dall’associazione “Granello di senape” è molto importante perché crea una rete di contatti e un originale terreno di confronto fra istituzioni diverse (scuole, giornali, carcere, magistratura…) e fra individui che altrimenti non troverebbero modo di comunicare (detenuti, studenti, giornalisti, colpevoli di reati e vittime degli stessi). Ciò facendo si crea uno spazio di riflessione, e questo è proprio ciò di cui c’è bisogno oggi: dialogare, confrontarsi, ragionare su dati, non semplicemente rea­gire a stimoli. È il confronto autentico fra e con persone e vissuti diversi che porta a comprendere veramente la complessità, a non ridurre tutto a cliché e stereotipi, a uscire da visioni basate solo su pregiudizi. Quello che manca spesso è una comunicazione effettiva; quello che serve sono spazi per comunicare e far dialogare in maniera reale gli individui e le istituzioni.

Le associazioni citate (le persone che le hanno create e le sostengono) stanno facendo, senza alcun fine di lucro, un grande lavoro in tal senso e di questo ogni cittadino che abbia a cuore la buona convivenza sociale dovrebbe esser loro grato!

 

 

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