Prevenzione e responsabilità

 

L’incapacità di sentire l’altro quale “altro possibile” di un dialogo

La sofferenza delle vittime può diventare un monologo,

nel quale ci si nutre di tutto ciò che ci separa dall’altro

 

Adolfo Ceretti

Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, 

Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

 

Da anni studio e pratico il campo della giustizia riparativa e della mediazione reo-vittima, ed è per questo – credo – che ho l’onore e l’onere di essere stato invitato a presiedere questi lavori. Innanzitutto voglio dire davvero grazie a Ristretti Orizzonti, a tutta la sua Redazione e, naturalmente, a Ornella Favero per avermi voluto qui con voi. Onore e onere, dicevo, ma anche gratificazione. Sono gratificato perché dagli incontri che avvengono all’interno di Ristretti Orizzonti si sono messi in moto in questi anni flussi di ragionamenti, rappresentazioni interiori, esperienze emotive che si sono poi riversati nei percorsi individuali di alcune persone coinvolte, con ruoli diversi, nella vita quotidiana della Redazione.

Qualcuno dei partecipanti ha iniziato a intravedere forse i primi passaggi di ciò che nel mio ultimo libro, scritto con Lorenzo Natali e intitolato Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, definiamo come “cambiamento drammatico di sé”.

Ornella ha citato alcuni nomi, e mi sembra che uno, in particolare, corrisponda a quello di una persona che ha iniziato un cammino di questo genere. Nel corso dell’esistenza di ognuno di noi, infatti, il nostro Sé può essere messo in discussione, riorientato e fatto slittare “drammaticamente” verso una nuova conformazione/organizzazione valoriale e simbolica. Detto altrimenti, con l’espressione “cambiamento drammatico di sé” indichiamo quei mutamenti del Sé assai simili ai processi che accadono nel corso di una “conversione” ma che, a differenza dei primi, sono “drastici e improvvisi” e non implicano una “istituzionalizzazione” del processo di trasformazione. In questi frangenti di crisi, la consapevolezza della nostra comunicazione interna tende a farsi particolarmente acuta come quando, in una situazione problematica, parliamo con noi stessi per valutare le diverse vie d’uscita. Ma ora si tratta degli snodi decisivi, i più dolorosi e “privati”, delle esperienze biografiche. Rei e vittime, talvolta, incontrano queste trasformazioni profonde.

 

Ancora: i temi che oggi affrontiamo toccano aspetti decisivi della realizzazione individuale e sociale del Sé, sia di chi prenderà la parola sia di chi è venuto qui ad ascoltare. Ciò significa che tutto il pubblico potrà costruire con chi parla un dialogo interiore su temi – quali la giustizia, l’ingiustizia, le risposte ai gesti che offendono la vita – che per ciascuno – conferenzieri e pubblico – sono costitutivi del “senso della propria vita”; le persone che sono qui per parlare aiuteranno gli ascoltatori a dialogare interiormente su questioni che sono vitali per tutte loro. Chi prenderà la parola ha probabilmente incontrato nel corso della sua vita esperienze che altri non hanno incontrato, ma i temi in oggetto fanno riferimento a simboli che toccano ciascuno di noi.

 

In apertura del Convegno desidero infine riprendere alcuni concetti dell’intervento che avevo svolto l’anno scorso, e che si intitolava “Sto imparando a non odiare”. Sono riflessioni che continuano nel tempo e che per molti di noi non si sono mai interrotte. Riprendo dunque una frase di Maurizio Puddu, che è stato presidente dell’Associazione italiana vittime del terrorismo, pronunciata in un’intervista rilasciata a Giovanni Fasanella. Puddu, nel corso dell’intervista, sosteneva: “Noi per loro eravamo politici, ci odiavano soltanto perché democristiani, eravamo dei numeri per alzare la graduatoria dell’orrore”. Quando le persone non sono “contate una per una” ma massificate non può esserci un rapporto io/tu, non può esserci giustizia, provavo a commentare. L’odio tende alla ripetizione, l’odio non ha oggetto perché nel suo darsi chi lo veicola sembra del tutto indifferente all’individualità, alla ciascunità. È come lo sguardo di Medusa: chi odia è incapace di sentire l’altro quale altro possibile di un dialogo, vive nell’impossibilità di “contare l’altro per uno” e di identificarlo come un soggetto autonomo, che vive di una vita propria. Lo riporta – e lo identifica –, invece, a un universale. Tutto ciò fa sì che chi odia rivolga questo sentimento nei confronti di “categorie di nemici” (i neri, i rossi, i rom, etc.) che precedono la possibilità di pronunciare, appunto, la parola “tu”. Oggi, nel nostro Paese, sentiamo parlare tutti i giorni di “nemici”, di “categorie di nemici”. La delega di parte della “questione sicurezza” alle ronde che verrà approvata nel prossimo pacchetto sicurezza credo sia un’estensione dei ragionamenti che stiamo facendo.

 

Vorrei svolgere anche una breve riflessione sulla “democrazia” prima di lasciare la parola ai Relatori. Gustavo Zagrebelsky ritrova totalmente lo spirito democratico solo in una concezione critica della democrazia, che non presuma di possedere “verità” e “giustizia”, ma nemmeno ne consideri insensata la ricerca, che non immagini di avere la giustizia a portata di mano e si reputi invece continuamente carente al compito comune. La democrazia vera si riconosce in questa condivisibile prospettiva, della continua strenua ricerca se non del bene, più modestamente del meglio. Simile ricerca fonda le sue radici nello spirito della possibilità, consistente nell’esortazione inquieta e mai sazia ad andare sempre oltre, a farlo sempre meglio e se necessario a riconoscere i propri errori, a rimettersi in causa, a ricominciare da capo. La ricerca è costantemente aperta al beneficio del dubbio, e per questo è decisivo l’apporto di chi dissente – sottolineo – l’apporto di chi dissente. Claudia Mazzucato ha scritto pagine importanti su questi temi.

Facendo precipitare i nostri discorsi nel pluriverso di rei e vittime, mi sembra sia importante constatare che non sia sufficiente quando si parla di questo argomento, andare alla ricerca delle cause del dolore che certi gesti altamente devianti ingenerano. La riflessione sulla giustizia deve tener conto dell’immagine che le stesse vittime e i rei hanno della propria condizione. La “democrazia” può stimolare, in una certa misura, una sorta di solidarietà morale tendente ad attenuare la gravità della condizione delle vittime e a restituire parimenti, lungo percorsi travagliati come quelli che le persone che animano la Redazione di Ristretti Orizzonti stanno facendo, dignità a chi ha commesso reati anche gravi.

 

Per chiudere le mie osservazioni ragionerò sul fatto che non tutte le sofferenze possono tradursi in una denuncia. Alcuni dolori sono indicibili, in quanto l’orizzonte dell’agire sociale è privo di appigli, di possibilità di darvi voce. In altre parole, la possibilità di denunciare pubblicamente una sofferenza è strettamente dipendente da una politica che prometta di porvi rimedio. Semplicemente, molte volte non riusciamo a costruire politiche capaci di porre rimedio a queste sofferenze. Viviamo in un Paese, è inutile ricordarlo, in cui a distanza di decenni dagli eventi non conosciamo le “verità” riguardanti passaggi decisivi della nostra storia. Tornando subito alla sofferenza delle vittime, a frenare o a bloccare la loro riparazione è il rischio che la sofferenza – soprattutto laddove non si riesca a denunciare o a far proclamare una verità processuale –, invece di essere un passaggio da una fase all’altra della vita divenga uno stato in cui inscriversi, un soliloquio depresso e costante nel quale ci si irrigidisce, del quale ci si nutre, distaccandosi sempre più dal mondo. Tutte le delusioni e le ferite accumulate nel passato rendono invivibile il presente, e noi ci aggrappiamo a questa sofferenza perché essa diviene l’unica identità rimasta di una fase della vita ormai perduta per sempre: iniziamo a ignorare o vogliamo ignorare o non possiamo che ignorare che tale stato non è necessariamente permanente, e che può diventare transitorio.

Ecco dove si concentra tutto il lavoro di chi fa mediazione, di chi fa percorsi come quelli che Ristretti Orizzonti sta promuovendo. È un lavoro che cerca di andare lungo il percorso di queste parole.

 

È venuto dunque il momento di dare la parola ai testimoni che oggi hanno accettato di essere qui assieme a noi, che cominceranno a raccontarci qualche passaggio delle loro esperienze e ci aiuteranno a riflettere sui pensieri che hanno maturato, su come è possibile andare oltre a quel rancore di cui qualcuno accennava poc’anzi.

Parleremo innanzitutto di omicidi colposi, dell’uso che i media fanno delle vittime e di come fare seriamente prevenzione.

Vi presento le persone che sono qui con noi. Sono Elena Valdini, che ha pubblicato il libro “Strage continua”, la strage delle 7.000 persone che ogni anno perdono la vita sulle strade italiane. È un massacro con molte vittime e pochi colpevoli, visto che un terzo dei “pirati della strada” non viene identificato, e per gli altri le pene sono spesso molto blande. Roberto Merli, invece, è padre di Alessandro, ucciso l’8 gennaio del 2.000, a soli 14 anni, per negligenza e guida in stato di ebbrezza da parte di un automobilista.

Roberto e Elena, dopo i loro interventi, dialogheranno con Andrea, che vuole portare una sua testimonianza sull’uso delle sostanze stupefacenti e sui comportamenti a rischio.

 

 

La risposta è la responsabilità condivisa, è il nostro senso civico

L’ignoranza che c’è in Italia sull’argomento delle vittime della strada è inaccettabile, inaccettabile perché noi siamo l’unico Paese in Europa che si nutre del principio di fatalità

 

Elena Valdini

Giornalista e autrice del libro Strage continua

 

“Io certifico il reale / Io sto attento alle parole / Non voglio sbagliarmi voglio / Sapere”

Ho scoperto questi versi (tratti da Poesia ininterrotta, di Paul Eluard) leggendo un libro molto importante, La città degli untori di Corrado Stajano.

Ho scelto di provare a fare la giornalista non perché ritenessi di avere qualche cosa da dire: io avevo qualche cosa da cercare; volevo la verità. E volevo la verità perché (come vi spiegherà molto bene Roberto Merli tra poco) quando accadono eventi di questo tipo, ti tormentano i perché; e queste domande, questi perché, hanno cominciato a tormentare la quindicenne che ero, quando ho perso i miei amici sulla strada.

Il convegno di oggi parla sia del ruolo dell’informazione che di esperienze personali, ecco: ho scelto di fare la giornalista perché la “mia storia” venne scritta male sul giornale: l’articolo, con la cronaca dello scontro, si chiudeva riportando imprecisioni (che riguardavano la vittima) che, penso, si sarebbero potute sicuramente evitare.

Lo scontro avvenne un sabato notte, seppi la notizia domenica pomeriggio e lessi il giornale davanti all’ingresso del liceo il lunedì mattina, e fu come sentire una ferita nella ferita. Avevo quindici anni e, inizialmente, mi sono rifugiata nelle parole. Avevo bisogno di precisione; ero talmente stordita che tutto quello che era superficiale e impreciso mi infastidiva. Non ho mai saputo tenere un diario, però, in quei giorni, appuntai due pensieri: rifiutavo il principio di casualità (vale a dire che fosse stato un incidente), e poi ero terrorizzata dal fatto che, col tempo, avrei imparato a soffrire sempre di meno.

Sapevo che il dolore si sarebbe trasformato, sapevo che avrei dovuto affrontare la sua elaborazione, ma se non potevo recuperare la mia storia, volevo almeno provare a raccontarne altre di simili con la maggiore attenzione possibile, e così, appena ho potuto, ho cominciato a fare questo mestiere.

Non avevo qualche cosa da dire nemmeno quando ho cominciato a scrivere “Strage continua”: in questo caso avevo molto da cercare, perché (ancora!) le imprecisioni e le inesattezze, meglio, l’ignoranza che c’è in Italia sulle vittime della strada è inaccettabile; è inaccettabile perché noi siamo l’unico Paese in Europa che ancora si nutre del principio di fatalità.

Non chiamiamoli incidenti: “incidente” è una parola che porta in sé una risposta, e infatti si dice: “È stato un incidente!”, vale a dire è stato il caso, è stata una fatalità. Non è sempre vero, e non lo è per la maggior parte dei casi: non posso considerare un incidente quello scontro in cui una persona muore perché chi guidava era ubriaco, drogato, o perché correva troppo; o perché non ha rispettato una precedenza, o ha “bruciato” un semaforo.

Chiamiamoli scontri. È più corretto parlare di scontri stradali, e ho capito che non ero completamente pazza (e sola), quando ho letto il programma d’azione europeo per la sicurezza stradale, redatto nel 2001 con l’obiettivo di dimezzare il numero delle vittime della strada in Europa entro il 2010 – “una responsabilità condivisa”, come è scritto nel suo titolo.

Ora, per me che lavoro con le parole, leggere di “una responsabilità condivisa” mi ha fatto sentire in qualche modo a casa e, soprattutto, mi ha offerto un punto di partenza per lavorare.

Non potevo scrivere di una verità assoluta, allora ho cercato di mettere in correlazione i fatti, ho tentato di costruire una “catenina di verità”, chiedendola come Auden chiede “La verità, vi prego, sull’amore”, anch’io ho cominciato a chiedere “la verità, vi prego, sulla strada”; e l’ho chiesta alle persone che ho ritenuto le più preparate, le più intelligenti, le più attente a parlare di sicurezza stradale, le più lontane dalla retorica.

In quel programma europeo è scritto che “è ora di smettere di considerare i morti e le ferite da traffico come conseguenze inevitabili dell’utilizzo delle strade: tali eventi sono prevenibili”. 

Non è un modo per prendere il discorso alla lontana: in realtà siamo noi a essere in ritardo, e quindi abbiamo la sensazione che queste siano solo chiacchiere (finendo col pensare che l’unica soluzione sia l’inasprimento delle pene). Che cosa è davvero importante? Il lavoro nelle scuole, parlo soprattutto per chi fa questo tipo di percorso e per i ragazzi che sono presenti.

La precisazione è fondamentale, e vale anche per i giornalisti. Noi dobbiamo lavorare con sobrietà e scientificità, e dobbiamo utilizzare il sentimento, l’emotività, laddove ci permette di “accorciare le distanze”; e noi abbiamo notevolmente bisogno di “accorciare le distanze”.

Non pensavo, non credevo, ma ho scoperto che il linguaggio della verità passa attraverso la testimonianza, e l’ho scoperto seguendo una delle lezioni in cui Roberto Merli (responsabile per la sede di Brescia dell’Associazione italiana familiari vittime della strada) incontra gli studenti delle scuole medie e superiori della sua provincia.

Ci sono delle parole da difendere, alcune le ho anticipate.

Sembrerà forse retorico chiudere così, ma c’è una parola che viene difesa molto poco e questa parola è “speranza”, è il diritto alla speranza: non esiste denuncia se non viene offerta composizione, non esiste denuncia se non vengono offerti gli strumenti necessari a far capire che i tempi sono maturi perché qualcosa cambi.

Nello specifico, per il tema che mi riguarda, la risposta sta in quella “responsabilità condivisa” di cui parlavamo prima: è il nostro senso civico, e richiede, in strada, un’autocritica quotidiana.

A chi sente parlare di carnefici e vittime, a chi sente parlare di reati come l’omicidio, questi sembrano discorsi distanti, lontani; si pensa capiti sempre agli altri.

Provate allora a pensarvi in strada, nella vita di tutti i giorni, e vi renderete conto, visto che tutti usiamo la strada e quasi tutti guidiamo, di quanto il confine tra carnefice e vittima sia labile. E, aggiungo, di quanto sia necessario che anche i mezzi d’informazione ci parlino di questo.

Giornali, telegiornali, radiogiornali ne parlano soprattutto in termini sensazionalistici, lacrimevoli, discontinui, senza magari pensare che la notizia, l’indomani, verrà letta dal familiare della vittima, così come dal familiare di chi ha provocato lo scontro. Ecco perché prima dicevo che noi abbiamo bisogno di precisione e di sobrietà; precisione e sobrietà con cui Roberto Merli ogni giorno parla nelle scuole.

 

 

Spero che dalla morte di mio figlio possa venire un aiuto per gli altri

Noi non andiamo a dire “dovete fare questo o quello”, assolutamente no, noi raccontiamo solo quello che è successo a noi e perché si deve cambiare, perché c’è l’obbligo di cambiare

 

Roberto Merli

Padre di Alessandro, ucciso a 14 anni in un incidente stradale

 

Sono Roberto Merli, il padre di Alessandro, un ragazzo di 14 anni che l’8 gennaio del 2.000 purtroppo ha perso la vita per colpa di un automobilista, che in stato di ebbrezza me lo ha ucciso.

Quando succedono questi incidenti mortali continui a chiederti il perché, perché si devono perdere i figli così facilmente sulle strade, perché a chi ha ucciso mio figlio, sebbene fosse ubriaco, non hanno fatto né la prova del palloncino, né gli esami del sangue, mentre a mio figlio hanno fatto l’autopsia.

Quando succedono queste cose continui a porti tanti perché, io sono andato alla ricerca di qualcuno che mi potesse dare delle risposte concrete nella mia provincia, ma non c’era nessuna associazione che mi potesse aiutare, mi hanno indirizzato ad una associazione a livello nazionale che è “L’associazione italiana famigliari vittime della Strada”, che ha sede a Roma, e lì ho fatto a loro una domanda specifica. Ho chiesto come mai Brescia, che purtroppo è una realtà drammatica a livello di incidentalità mortale, prima provincia della Lombardia con la più alta percentuale di mortalità sulle strade, non avesse nessun referente di questa associazione, dal momento che ogni anno ci sono tantissime famiglie rovinate proprio per incidenti mortali. Mi hanno risposto dicendomi che purtroppo il problema è questo, che quando succedono questi incidenti mortali la famiglia non sempre ha la voglia di mettersi a disposizione di altri, non ne ha la forza, perché fa male.

Ognuno poi elabora il lutto in modo diverso dall’altro, io, per fare un esempio, avevo bisogno di parlare per scaricare la mia tensione, così mi son fatto un esame di coscienza e ho pensato che, come io stavo cercando qualcuno che mi potesse aiutare, se mi fossi fatto portavoce di questa associazione, forse avrei potuto aiutare quelle famiglie che purtroppo si sarebbero trovate a porsi questi perché. E così nel giugno 2002 ho aperto la sede nella nostra provincia, sono diventato referente provinciale.

Il nostro primo scopo è quello di essere vicino alle famiglie, quando succedono incidenti mortali scriviamo sempre alle famiglie e offriamo loro un conforto umano, un’assistenza psicologica e legale, abbiamo una convenzione con degli psicologi e abbiamo tra l’altro aperto dei consultori permanenti, proprio per le vittime della strada. E poi dobbiamo continuare a sensibilizzare a 360 gradi, perché siamo noi che sappiamo cosa vuol dire perdere un proprio caro, quindi siamo noi per primi che dobbiamo darci da fare per far capire che cosa significa “il dopo incidente stradale”.

 

È una guerra civile con 19 morti e 54 mutilati tutti i giorni

 

L’associazione italiana famigliari vittime della strada ha più di cento sedi dislocate su tutto il territorio nazionale, ma la sede di Brescia è l’unica in Italia a fare educazione civica permanente, grazie alla provincia e all’ufficio scolastico provinciale che ci hanno dato questa opportunità, sono tre anni che noi entriamo nelle scuole costantemente. Dico la verità, non tutti i giorni, perché a me tutti i giorni fa male, però un giorno sì e un giorno no entro nelle scuole, parlo con i ragazzi, tra l’altro con un numero non altissimo, nel senso che preferisco avere 50, 60 ragazzi alla volta, proprio per mandare un messaggio e far sì che il messaggio venga recepito. Purtroppo in Italia siamo gli unici a farlo, anche quest’anno abbiamo organizzato 98 incontri dall’inizio dell’anno scolastico, parlando a più di 6.000 ragazzi e questo mi dà molta soddisfazione, nel senso che ho trasformato questa realtà purtroppo negativa in solidarietà. Io e gli altri volontari siamo convinti che tutto questo serva per prevenire: con la nostra testimonianza, abbiamo la speranza di far capire ad altri, abbiamo la speranza che altri per lo meno si godranno la vita con la loro famiglia, che saranno i figli a portare al cimitero i genitori e non i genitori a portare al cimitero i figli.

Ecco perché io spero che dalla morte di mio figlio possa venire un aiuto per gli altri, e cerco di pormi con molta umiltà, è difficile perché ha un costo anche psicologico dover raccontare sempre la storia di tuo figlio e la storia di altri ragazzi, però noi siamo convinti che sia la strada giusta, proprio perché con molta semplicità noi non andiamo a dire “dovete fare questo o quello”, assolutamente no, noi raccontiamo solo quello che è successo a noi e perché si deve cambiare, perché c’è l’obbligo di cambiare, perché, come diceva Elena, prendiamo con troppa superficialità questa realtà e invece bisogna riflettere, perché ogni anno muoiono 7.000 persone in Italia sulle strade.

E come dico ai ragazzi, per capire i numeri, cosa vuol dire 7.000, dobbiamo dividere questa cifra in giorni della settimana, dal lunedì alla domenica, e se cominciamo a dire “lunedì muoiono 19 persone, martedì muoiono 19 persone, così mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica”, tutti i giorni della settimana in Italia muoiono 19 persone da incidenti stradali, allora questa cifra assume un significato drammaticamente diverso.

E poi non è finita qui, magari fosse solo così, ci sono anche 300.000 feriti, dei quali 30.000 disabili gravi, se anche qui dividiamo 30.000 per 365 giorni all’anno, il lunedì oltre ai 19 morti dobbiamo purtroppo aggiungere 54 feriti gravi, che, se andrà bene, cammineranno con le stampelle, altrimenti saranno in carrozzina o in un letto, da cui non si muoveranno più.

In pratica è una guerra continua, ecco perché noi diciamo che è una guerra civile, perché 19 morti al giorno e 54 mutilati tutti i giorni non è altro che una guerra, però siamo noi che la creiamo e siamo noi che dobbiamo far di tutto per diminuire questi numeri. Grazie mille.

 

 

Da ragazzi si è incoscienti, non si ha una esatta percezione dei rischi

Io ricordo che quando facevo uso di sostanze, mi mettevo alla guida molto serenamente, cioè ero convinto di essere padrone delle mie azioni, di essere lucido, ero strasicuro che non mi sarebbe mai successo niente

 

Andrea Andriotto

Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Io sono Andrea, sono in carcere da 14 anni, faccio parte della Redazione di Ristretti da 12, e ho visto nascere il progetto con le scuole. Questo progetto, che ha cambiato i suoi obiettivi con il passare degli anni, mette davanti a tutto la prevenzione, e io credo che quando si parla di prevenzione bisogna guardare entrambi gli aspetti di quello che succede quando viene commesso un reato. La maggior parte delle persone – io stesso quando succede qualcosa di grave, dei reati per esempio come quelli che hanno a che fare con incidenti stradali – fa presto a mettersi nei panni delle vittime o dei parenti delle vittime.

Io credo però, per le esperienze che ho avuto, per ciò che ho capito e per le persone che ho conosciuto in tutti questi anni, che poi a commettere reati del genere sono persone normalissime, persone come lo ero io anni fa e come gran parte di voi, che magari in momenti particolari, in momenti di leggerezza o di incoscienza, non percepiscono il rischio che corrono. Io ricordo che quando facevo uso di sostanze, e ho fatto uso per diverso tempo di stupefacenti, mi mettevo alla guida molto serenamente, cioè ero convinto di essere padrone delle mie azioni, di essere lucido, ero strasicuro che non mi sarebbe mai successo niente, perché mi ritenevo in possesso di tutte le mie facoltà.

In realtà poi mi sono reso conto di quante volte ho rischiato, e quante volte tante persone, tanti ragazzi rischiano senza essere consapevoli, ecco perché appunto io credo che quando si parla di questi reati bisogna far prevenzione dicendo ai ragazzi: state attenti, perché a volte si rischia senza rendersene conto, ed è un po’ quello che alla fine è successo a me.

Quando facciamo gli incontri con i ragazzi succede sempre che ci chiedano perché siamo dentro, e dopo varie difficoltà siamo arrivati alla conclusione che per raccontare il reato bisogna anche raccontare la nostra storia, la storia di come si arriva a commettere un reato.

Quando raccontiamo le nostre storie, i ragazzi all’inizio possono essere un po’ fermi nelle loro posizioni, per cui molti sono convinti che uno deve farsi la galera fino alla fine, e che se uno commette un reato è perché lo ha voluto, e prima di sbagliare è ben consapevole dell’errore che fa.

Quando invece sentono le nostre storie e l’epilogo delle nostre storie, non so quanti cambino idea, però penso che in realtà qualche domanda in più se la facciano.

Nel mio caso quando racconto la mia storia ci metto 20, 25 minuti, perché racconto tutti i passaggi che riguardano l’uso delle sostanze, dalle prime sigarette di nascosto, alle canne, al progressivo spostamento di ogni limite, fino alla dipendenza. Noi incontriamo ragazzi dai 13, 14 anni ai 18, 19, per cui se all’inizio sono fermi sulle loro posizioni, anche perché sono condizionati da tanti fattori, e in particolare da una informazione che spinge ad essere sempre più duri e intransigenti sulle pene, poi però la reazione è quella di essere più disposti ad ascoltare, e probabilmente di riuscire a dire finalmente: sì, io posso essere vittima di un reato, ma se poi faccio un percorso di vita simile a quello che mi avete appena raccontato, probabilmente senza rendermene conto potrei arrivare anch’io ad essere autore di un reato. Credo che questo sia il risultato più importante.

 

 

Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà

 

Adolfo Ceretti

 

Riprendo un brano di Fabrizio De Andrè, perché credo sia molto pertinente con quanto è stato detto: “Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. Bene, io credo che voi siate riusciti, qui e ora, a raccontare non solo una metà del dolore, ma tutto il dolore, perché il lavoro che state facendo va nella direzione di costruire rapporti empatici con chi non ha attraversato le vostre esperienze, e può iniziare a far comprendere che cosa significa essere “dall’altra parte dell’arma”, come sottolineava in modo geniale una persona intervenuta questa mattina. Una frase straordinaria, la sua.

Ho sentito molto consonanti, ovviamente, i concetti di “responsabilità condivisa” e di “accorciare le distanze”, che sono parole che fanno parte degli universi della giustizia riparativa.

 

 

Dialogo “sui mostri” e “con i mostri”

O sono dei mostri, o sono matti

È così che si pensa quando succedono vicende come quella di Pietro Maso o di Erika e Omar, perché i contesti in cui queste storie avvengono non amano interrogarsi su questi tipi di percorsi, se non dopo che le cose sono successe, e anche quando lo fanno, prediligono la soluzione facile

 

Gianfranco Bettin

Sociologo e scrittore

 

Parto dai casi analizzati nei due testi di cui sono autore, “Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar” e “Gorgo. In fondo alla paura”. Nel primo caso, il caso appunto di Pietro Maso ma anche quello di Erika e Omar, noi abbiamo a che fare con rei che fino a un minuto prima erano considerati persone normali, perbene, ragazzi a posto, ragazzi da cui non ci si sarebbe mai aspettati qualcosa come quello che infine hanno commesso. Nell’ultimo lavoro di cui invece mi sono occupato, appunto il delitto a Gorgo il Monticano, un paese nella provincia di Treviso, in cui degli stranieri, alcuni regolari e uno no, hanno orrendamente ucciso due anziani custodi di una villa dopo averli torturati per strappare a loro la possibilità di entrare nella villa medesima, abbiamo a che fare invece con persone che sono considerate nel senso comune, in particolare sui media e quindi anche nel discorso pubblico, pericolose, se non addirittura dei mostri, e che, durante proprio il percorso successivo al delitto, sono stati progressivamente riconsiderati come persone. Quindi da persone a mostri, da mostri a persone, è un viaggio interessante, drammatico, che è necessario fare per capire il quadro in cui siamo e per affrontare il convegno di quest’anno che ci propone, in stretto collegamento con quello dell’anno scorso sull’odio, il tema della prevenzione, il tema cioè della conoscenza del quadro reale in cui ci troviamo e dentro il quale dobbiamo prevenire le storie che anche qui sono state rievocate, prevenire che si creino nuove vittime e che si creino le condizioni per cui qualcuno diventa appunto il mostro, diventa il nemico.

Il sottotitolo del convegno allude all’istigazione a delinquere, l’istigazione a delinquere che avviene a mezzo discorso pubblico per l’appunto, potremmo considerarla in modo più ambiguo, in modo più sottile all’interno di vicende come quella di Pietro Maso, di Erika e Omar. Vicende nelle quali personalità in via di formazione vengono spinte su sentieri che poi producono in quel caso, quel tipo di esiti efferati, in altri casi meno efferati, ma non per questo non preoccupanti, per chi li vive e per chi li subisce, attraverso suggestioni, attraverso l’incoraggiamento ad assumere atteggiamenti, l’acquisizione di valori o la quotidiana iniezione di questo tipo di messaggio.

Una sorta di istigazione a delinquere molto mediata, molto implicita, e che tale si rivela solo nel momento della conclusione, nessuno per l’appunto avrebbe mai immaginato che nei casi citati, che qui userei solo per esemplificazione, per risparmiarci anche per ragioni di tempo discorsi più lunghi e una casistica più complicata, nei casi per l’appunto di Pietro Maso, di Erika e Omar, ma anche altri, siamo di fronte a persone non riconoscibili come pericolose, se non dopo che hanno commesso il fatto, da chi gli stava vicino, e non riconoscibili nella loro iniezione quotidiana di disvalori e di incoraggiamenti a perseguire un certo progetto di distruzione della vita altrui, spesso anche della propria, se non appunto dopo che l’esito si è compiuto.

Questo ha a che fare con una idea di prevenzione che non riguarda in senso stretto atteggiamenti criminali o pericolosi, per capirci anche rispetto ai discorsi appena sentiti, sugli omicidi colposi per guida sotto effetto di alcol o sostanze, né Maso, né Erika e Omar alcuni per ragioni di età, altri per indole, erano persone che amavano correre rischi sulla strada o che avevano comportamenti devianti o a rischio di quel tipo. Né tantomeno erano persone pericolose in quanto erano abituate a commettere reati socialmente ritenuti pericolosi, anzi erano socialmente ritenuti dei modelli, e a loro volta avevano dei modelli socialmente riconoscibili e accettati come positivi nel loro contesto.

Al centro di tali modelli vi era comunque l’oltranza nella ricerca del massimo soddisfacimento di bisogni, a loro volta impoveriti perché ridotti al possesso del danaro, o alla realizzazione di una vita libera da ogni tipo di limitazione. L’irruzione del denaro come possibilità, come oggetto del desiderio, anche in età adolescenziale, è una delle chiavi di lettura della vicenda per esempio di Maso, l’irruzione della vita libera da ogni forma di condizionamento, da ogni forma di regolamentazione, anche all’interno dello stesso nucleo famigliare, è ciò che rivela la vicenda di Erika e Omar.

Maso uccide per avere, Erika e Omar, soprattutto lei, uccide per “voler essere”, se volessimo ridurre ad una specie di formuletta vicende che sarebbero altrimenti ben più complesse.

Il problema in questi casi è di trovare ciò che nel discorso pubblico, ciò che in senso lato nelle politiche educative, nel senso specifico, nella pratica reale educativa, può trasformare persone altrimenti normali, ragazzi e ragazze normali, in mostruosi pericoli per sé e per gli altri.

Questo è il punto che dentro a queste storie noi potremmo rintracciare, è uno dei compiti più difficili, perché i contesti in cui queste storie avvengono non amano interrogarsi, se non dopo che le cose sono successe, su questi tipi di percorsi; non amano interrogarsi e anche quando lo fanno, prediligono la soluzione facile, o sono dei mostri, o sono matti, sono casi patologici, a volte naturalmente è anche vero, o c’è anche questo, ma sono patologie che vengono scatenate da un modo normale di essere che in un contesto differente, più attento, non produrrebbe quel tipo di esiti.

Attorno a ciò si stenta a ragionare, la riflessione avviene di solito sotto lo shock del momento, ma appunto in forme che tendono a preservare e a sollevare dalle sue responsabilità la comunità e il contesto in cui tutto ciò avviene.

 

La vendetta non è mai considerabile come strumento di giustizia

 

Viceversa in un caso in cui sia protagonista qualcuno che a priori è identificato come nemico, come il mostro, abbiamo esattamente il percorso opposto, la indisponibilità a considerare quelle persone “mostrificate” come persone sulle quali lavorare, e tra l’altro questo impedisce di capire bene le dinamiche criminali e umane che portano a certi esiti e a volte persino di risolvere il problema.

Uno degli assassini di Gorgo al Monticano, esattamente nella Casa circondariale di Padova, malgrado la tutela, malgrado l’assistenza garantita si è in fine suicidato, in parte travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi, in parte dalla paura di avere rivelato il nome di un complice, forse del più pericoloso dei membri del gruppo che ha commesso il duplice delitto, che infatti è rimasto impunito, e di averlo rivelato in forme poco significative dal punto di vista giudiziario.

Aver considerato quella persona come una persona, aver imparato ad interrogarla non solo da un punto di vista giudiziario, ma a scavare dentro di lui e fare emergere tutta la dimensione umana, come abbiamo sentito nel caso della straordinaria testimonianza del detenuto albanese, che ha rivelato la potenza del perdono, superiore, ai fini di un cambiamento, rispetto a quella della vendetta, e forse rispetto anche a quello della giustizia stessa in senso tecnico, aver assunto un approccio di questo tipo, probabilmente avrebbe aiutato perfino a risolvere meglio e più compiutamente la vicenda giudiziaria. Certamente entrare di più nelle dinamiche che conducono alcuni su una strada alla fine della quale c’è il carcere o la morte, o il guasto irreparabile che abbiamo sentito rievocare qui in tante circostanze, reintrodurre la dimensione umana e la dimensione sociale di queste questioni, nel discorso pubblico, nello sguardo pubblico, ai fini della prevenzione certamente, ma anche ai fini di una comprensione più profonda della realtà, che è esattamente quella che aiuta di più, che arma di più a prevenire, è uno degli strumenti più efficaci per raggiungere l’obiettivo che questo convegno si prefigge, ma naturalmente è anche la cosa più difficile.

Prima parlavo dell’istigazione, in un certo modo subliminale, a delinquere che avviene nel caso della deformazione diseducativa, soprattutto nelle storie di giovani o giovanissimi, come nei casi di Pietro Maso, Erika e Omar, ma l’istigazione a delinquere a volte è netta, nel caso in cui si abbia a che fare con persone di questo tipo, come per esempio dopo il delitto di Gorgo al Monticano.

Prima veniva citato lo stupro della Caffarella, in questo e altri episodi di questo tipo, l’istigazione a delinquere, cioè a commettere il linciaggio, a commettere la vendetta, non viene sempre indotta come per esempio nel caso di Monticano in cui è stato senz’altro così, dai discorsi da bar, dal famoso uomo della strada, il che può anche essere in un certo modo comprensibile. Ma molto spesso il famoso uomo della strada o chi chiacchiera al bar ha di fronte un microfono ed entra nelle nostre case, a quel punto non è più la chiacchiera volatile, che sporca il momento e basta, è qualcosa che resta inciso nell’immaginario nostro, e diventa in un certo modo istituzionale, perché diventa ripetitiva negli organi di informazione e spesso nei momenti di massimo e indiscriminato ascolto.

Ma non è avvenuto solo questo, è avvenuto che autorità, esponenti delle istituzioni hanno assunto per esempio la pena di morte come proposta, ma soprattutto il linciaggio come obiettivo e pratica sul campo, e questa reintroduzione di una formula cosi arcaica, cosi brutale nel linguaggio pubblico, poi anche politicamente legittimata, è stata soprattutto legittimata dall’uso ripetuto che ne hanno fatto i media, che ormai infallibilmente ogni volta che accade un episodio di questo tipo buttano tutto ciò nel campo del discorso pubblico, e quindi imbarbariscono nuovamente il linguaggio, o meglio, lo fanno regredire a questa dimensione.

Quindi la lotta culturale, che rappresenta oggi anche una forma di battaglia politica alta attorno al tema della persona mai riducibile a mostro, della vendetta mai considerabile come strumento di giustizia, ha a che fare con condizioni molto peggiori di quelle di qualche tempo fa e lo studio ravvicinato di casi come questo lo dimostra in una maniera perfino sconfortante.

 

 

Si può arrivare al carcere anche da un percorso di vita regolare

 

Vanni Lonardi

Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Neppure mi sfiorava l’anticamera del cervello. “Finire” in carcere non appariva nella mia vita neppure nell’eventualità degli “imprevisti”, piuttosto annoveravo questa ipotesi nell’elenco degli eventi impossibili. E invece sono in carcere da quasi quattro anni.

Il verbo che si è soliti usare, cioè il “finire” in galera, mi spiegava che entrare all’interno di queste mura aliene poneva FINE alla persona stessa, sia in termini fisici che psicologici. In realtà ho sempre pensato che fosse soprattutto una questione mentale, perché in fin dei conti la storia dell’uomo ci insegna che ci si abitua presto all’ambiente circostante, sia esso bollente come il deserto o ghiacciato come il polo, sia esso ristretto come una caverna o isolato come un eremo. Il carcere è un po’ tutto questo: torrido nel periodo estivo e gelido nel periodo invernale, un concentrato di corpi umani e nello stesso tempo isolato dal resto della società.

Non ho ancora incontrato i mostri che le voci da fuori dicevano abitassero questi luoghi. Sarà, ma ogni giorno vedo per lo più gente disperata che assume farmaci tutto il tempo, persone disagiate che nella vita hanno avuto una complessità di problemi. Certo, degli individui violenti li si trova, e le sbarre sono forse il giusto strumento per il contenimento della loro rabbia, ma non sembra essere questo il fattore che accomuna chi vive parte della sua vita qui dentro. Innanzitutto ritrovo persone “normali”.

Ed è ciò che sorprende anche gli studenti nel momento in cui ci incontrano, quando ci si siedono di fronte e si chiedono quali reati si nascondano mai dietro questi volti comuni. Il progetto con le scuole è un contatto interattivo tra carcere e mondo esterno, momento di riflessione per noi detenuti e di prevenzione per i ragazzi.

Cerco di contribuire raccontando un pezzetto della mia vita, per far capire come si possa anche da un percorso regolare arrivare a superare di gran lunga il confine, commettendo un atto orrendo del quale non mi sarei mai ritenuto capace. Ma non racconto subito il reato perché rischierebbe di distogliere l’attenzione da quello che invece mi preme di far percepire, ovvero quella catena di “errori legali” che hanno portato a conseguenze disastrose. Nel lavoro ho ottenuto successo nel campo imprenditoriale conquistando in pochi anni un’ottima posizione sociale e una rendita economica molto soddisfacente. Il mio tenore di vita si era spostato di molti livelli, facendomi considerare auto di grosse cilindrate, vestiti di lusso e molto altro ancora, uno status indispensabile. Non avevo mai neppure considerato eventuali flessioni lavorative, ma il periodo di crisi è arrivato: avevo la presunzione di superare presto quel momento perciò non mi andava di modificare il mio tenore di vita, che restava molto alto e al di sopra delle nuove possibilità. Arrivato a beneficiare di molti lussi, mi sembrava non rispondente al mio status l’“accontentarmi” di cose più modeste. La corda si è rotta quando i debiti con le banche hanno superato il punto di non ritorno, quando i miei clienti più affezionati erano diventati i funzionari di banca incaricati di pressarmi da vicino.

Il problema era che, abituato ad apparire sotto una certa veste, ad essere elogiato o invidiato per la mia carriera, mi vergognavo a mostrare la realtà che si andava formando, temevo le critiche e il giudizio altrui, e così invece di cercare di farmi dare una mano da qualcuno di cui potevo fidarmi, mi sono rivolto a una terza persona per ottenere le disponibilità necessarie a chiudere i debiti bancari; solo che quella che prima era una “semplice” minaccia di farmi fallire si è trasformata presto in una serie di continue discussioni dai toni accesi, degenerate con l’omicidio che ho commesso.

È uno sforzo raccontare ogni volta il fardello che mi grava addosso, ma mi auguro che i ragazzi colgano il senso di una storia dura come la mia: che quando si ha la percezione di essere in una situazione rischiosa, bisogna smetterla di pensare di potercela fare da soli e imparare a cercare aiuto dalle persone giuste. Anche se sentirsi biasimare o riprendere brucia, è più facile agire in modo da farsi approvare. E svelare le difficoltà, le debolezze appare umiliante. È una trappola dalla quale è difficile sfuggire nella nostra società. Io ci sono cascato e mi ritrovo in carcere.

Le nostre esperienze negative possono servire come una sorta di prevenzione, noi l’abbiamo coniugato come un “allenamento a pensarci prima”.

Ma il progetto con le scuole è molto importante anche per noi detenuti. Il biasimare, il dare la colpa agli altri, è un trucco per non volersi assumere le proprie responsabilità. I primi anni di carcere ero abile a cavalcare questa strada, comoda, agevole e in discesa. In fondo sapevo che era una perdita di tempo e non cambiava la situazione che mi aveva condotto in carcere, e nemmeno la durata della pena, ma alleggeriva solamente il mio senso di colpa, o almeno quella doveva essere la parvenza. Ripensandoci adesso mi rendo conto di non aver mai ripensato seriamente ai miei comportamenti passati. Questo è ciò che mi mette a disposizione il progetto: il confronto con la società, la riflessione.

 

 

L’incapacità di elaborare “pensieri difficili” sulle tragedie

 

Adolfo Ceretti

 

Vorrei aggiungere qualcosa rispetto alla vicenda di Erika e Omar, che ho attraversato insieme a Gustavo Pietropolli Charmet, in qualità di perito del Giudice delle indagini preliminari.

Quando mi è stato chiesto, dalla stampa, dalla magistratura, di dare un nome a questa vicenda, sono ricorso a questa formula: “È una tragedia senza tragico”. In che senso? Nel senso che la potenza di questo omicidio, se la si pensa da un punto di vista astratto, è quella di una tragedia greca. Una ragazza e il suo fidanzato uccidono la madre e il fratello di lei… A che cosa rimanda, simbolicamente, questo gesto? I Greci, per elaborare individualmente e collettivamente tali eventi, avevano creato, appunto, la tragedia, e parlato di catarsi. Per noi i pensieri, le riflessioni, i discorsi pubblici confluiscono, invece, nei talk-show televisivi…

Inoltre, sono pienamente d’accordo con Gianfranco Bettin quando sostiene che tutta la questione che ruota intorno ai fatti di Novi Ligure ha a che fare con la ricerca della “libertà assoluta”. Erika e Omar cercavano la libertà assoluta.

 

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