Le nostre parole

 

Parole: quanto pesano

La difficoltà di raccontare una storia

che unisce i pezzi più brutti della mia vita

Le parole sono importanti e il confronto con i ragazzi

mi ha insegnato a scegliere con cura le parole che uso

 

Elton Kalica

 

Questo è il quinto anno del progetto con le scuole e pensandoci bene mi accorgo di non aver perso nemmeno un incontro. Tuttavia, a parlare di fronte a migliaia di studenti, ancora oggi faccio molta fatica, non tanto per la mia balbuzie – che si alimenta delle mie emozioni spesso ostacolando i miei racconti – quanto invece per la difficoltà che trovo nel raccontare una storia che unisce i pezzi più brutti della mia vita. Narrare pezzi di vita può essere perfino piacevole, ma testimoniare i propri errori e molto spesso i propri orrori, è uno sforzo non da poco.

Ma se mettere la mia disgrazia a disposizione dei ragazzi è una fatica, quello di saperlo fare in modo giusto è un obbligo. Le parole sono importanti e il confronto con i ragazzi mi ha insegnato in questi anni a scegliere con cura le parole che uso. Loro sembrano magari distratti, ma in realtà ascoltano e assimilano in fretta le informazioni, il che mi costringe ad essere sempre attento.

Noi raccontiamo la nostra storia con l’obiettivo che i ragazzi si riconoscano in certi comportamenti a rischio e capiscano che, se intraprendono una certa strada, è possibile che finiscano dove siamo noi oggi. Ma se io descrivo i comportamenti che mi hanno portato in carcere calcando la mano, amplificandoli o addirittura “idealizzandoli” nella loro negatività, produco un effetto contrario, e cioè do la scusa ai ragazzi per dire: tanto a me non potrà succedere mai, tanto, se rimango nel mio piccolo posso farla franca.

Ad esempio, c’è un modo di dire in italiano su cui abbiamo a lungo riflettuto e che riteniamo davvero sbagliato, ed è questo: “È nata una colluttazione e c’è scappato il morto”. È sbagliato perché non c’è nessuna casualità se vai a scuola con il coltello in tasca e in una rissa lo tiri fuori, non puoi dire “c’è scappato il morto”. Qui ci sono persone che si sono trovate in mezzo a risse tra bande e il giorno dopo hanno saputo dai telegiornali di aver ucciso qualcuno. Ma a loro non “è scappato” il morto.

C’è chi dice anche che in uno scontro con un altro ragazzo “c’è stata una colluttazione e sfortunatamente l’altro è morto”. Invece la “fortuna” non c’entra molto, e si commette un grave errore se questo tipo di omicidio si fa passare per un “incidente”, perché allora i ragazzi si potrebbero sentire legittimati a portare il coltello in tasca o a risolvere i conflitti con la violenza, convinti di non essere abbastanza “sfortunati” da uccidere. Mentre si fa davvero prevenzione se si arriva a convincere i ragazzi che certi comportamenti portano chiunque a fare male, non solo gli “sfortunati”.

Nell’ultimo numero di Ristretti ho scritto un articolo sulla cattiva abitudine che c’è in Italia di chiamare “bella vita” una vita che in realtà porta le persone a fare cose da “mala vita”; nel numero precedente avevo scritto un articolo in cui ragionavo sulla tendenza che i giornali hanno a usare la parola “mostro” nei titoli, incuranti del fatto che a fare cose “mostruose” sono spesso persone che cinque minuti prima del fatto erano persone “normali”. Sembrerà strano, ma ragionando sulle espressioni “pericolose” che ci sono in italiano, ho imparato questa lingua a tal punto che mi sembra sia diventata più della mia seconda lingua: non so se sarei in grado di fare in albanese certi ragionamenti, ma per il momento reputo importante farli in modo efficace in italiano, per aiutare i giovani a ragionare su quanto sia facile oggi finire in galera.

 

 

Le parole dei detenuti: reato

Perché sei in carcere, per quale reato, ma non potevi pensarci prima?

Agli studenti, ai loro insegnanti e ai loro genitori, perché a volte entrano anche i genitori, non racconto i “dettagli” della mia storia, ma piuttosto cosa le mie scelte hanno comportato: la distruzione e la devastazione nelle persone a me vicine, nei miei cari, in altre persone e in altre famiglie…

 

Marino Occhipinti

 

Cinque anni fa, quando abbiamo cominciato quest’avventura del progetto con le scuole, ero assolutamente convinto che agli studenti dovevamo limitarci a raccontare il carcere, evitando accuratamente di parlare dei nostri reati. Ora, a ragion veduta, ammetto che questa mia convinzione era dettata dal timore dell’idea che gli studenti si sarebbero fatti di me: ebbene sì, ero spaventato dalla reazione e dal conseguente giudizio dei ragazzi davanti alle parole “omicidio ed ergastolo”, e temevo che rivelando la ragione della mia detenzione non avrebbero più visto in me una persona, ma solo i reati che ho commesso.

Poi però ho capito che il silenzio sui nostri reati, oltre a sembrare una mancanza di fiducia e di apertura verso chi aveva accettato di venirci ad ascoltare, lasciava il progetto quasi incompiuto, come un bel puzzle senza un tassello fondamentale. Ho quindi preso coraggio e man mano che gli incontri proseguivano sono finalmente riuscito a dire – seppur con molto disagio – che sono condannato alla pena più severa, l’ergastolo, per aver commesso il reato peggiore che esista, l’omicidio.

E, almeno per me è così, è estremamente difficile fare i conti con i miei reati, e cioè ammettere di cosa sono responsabile, davanti a persone che con la galera e con la mia quotidianità non hanno nulla a che fare – in questo caso intere scolaresche che ti schiacciano alle responsabilità e che in quanto a domande non fanno tanti complimenti: perché sei in carcere, per quale reato, ma non potevi pensarci prima?

Proprio questo compito mi ha però aiutato a prendere una sempre maggior consapevolezza di ciò che ho fatto, tenendo anche conto che nelle sezioni del carcere di tutto si parla, meno che delle questioni personali e del perché si è detenuti.

Il progetto con le scuole mi ha poi obbligato ad affrontare anche altre questioni legate al rea­to, infatti agli studenti, ai loro insegnanti e ai loro genitori, perché a volte entrano anche i genitori, non racconto i “dettagli” della mia storia – che potrebbero solamente soddisfare la morbosità e null’altro – ma piuttosto cosa le mie scelte hanno comportato: la distruzione e la devastazione nelle persone a me vicine, nei miei cari, in altre persone e in altre famiglie…

Racconto cosa vuol dire aver seriamente compromesso l’esistenza delle mie figlie, spiego come ci si sente ad aver miseramente fallito come padre e nella vita, e quanto difficile sia convivere col peso della mia coscienza, e a forza di ripetermelo sono arrivato, pian piano, a provare davvero orrore per quel che ho fatto.

 

 

Le parole dei detenuti: violenza

Droga e coltelli ti trascinano inevitabilmente a fare una brutta fine

Ho deciso di raccontare la mia storia ai ragazzi, perché vorrei che capissero quanto sono pericolosi certi comportamenti

 

Kamel Said

 

Per me è la prima volta che partecipo a un convegno in carcere, e posso dire che è una giornata molto emozionante. Soprattutto per il fatto di incontrare tante persone che vengono da fuori. Sono in galera da 12 anni e, ad eccezione dei pochi volontari che lavorano qui, non avevo visto prima d’ora così tante persone “libere”, e questo mi fa sentire a mia volta una persona libera.

Sono tunisino e quando sono venuto in Italia pensavo davvero di migliorare la mia vita. Ma ho incontrato molte difficoltà nel cercare un lavoro, perché sono arrivato ovviamente come clandestino. Girare per l’Italia mi ha fatto conoscere dei compaesani che facevano una vita onesta, ma non potevano aiutarmi a trovare lavoro, e però ho conosciuto anche delle compagnie sbagliate. Loro si occupavano di notte di spacciare droga in un parco e mi hanno proposto di unirmi a loro in quel commercio. Cosa che, molto alla leggera, ho accettato di fare, senza pensare tanto alle conseguenze. Loro avevano una casa, tanti soldi, vestivano sempre bene, mentre io non avevo proprio nulla.

Eravamo tutti giovani, dell’età di 23, 25 anni, e anch’io, oltre a preparare le dosi e venderle, ho imparato come loro a portare con me sempre un coltello, come usano oggi quei ragazzi che fanno i disastri a scuola e che vediamo alla televisione. Però un giorno è successo che per questioni di spaccio, un mio amico è stato aggredito e colpito con una coltellata che lo ha sfregiato. Ovviamente la ferita ha fatto arrabbiare tutti, soprattutto la persona sfregiata che voleva vendicarsi, così abbiamo deciso di andare a vendicare il nostro amico.

Siamo partiti tutti insieme con l’intenzione di trovare quei ragazzi che lo avevano colpito e restituirgli il male fatto. Quindi, appena ci siamo incontrati è scoppiata una rissa: abbiamo tirato fuori i coltelli e, accecati dall’odio e dalla paura, abbiamo cominciato a tirare pugni e coltellate senza nessun controllo, ed è successo un disastro. A un certo punto ci siamo messi a scappare, io ero anche ferito, ma solo l’indomani abbiamo appreso dalla televisione che un ragazzo dell’altro gruppo era rimasto per terra, che avevamo ucciso una persona. Ho cercato di fuggire, di nascondermi, ma non è durata molto. Ci hanno arrestati e ci hanno portati in carcere e condannati a una pena di 21 anni.

Ora sono 12 anni che sono in carcere. In tutto questo tempo ho riflettuto tantissimo, ho capito il dolore della famiglia della vittima, e anche quello della mia famiglia, e mi sento male solo a pensare a quanto eravamo stupidi a fare le cose che facevamo. Ecco perché ho deciso di raccontare questa storia ai ragazzi, perché vorrei che capissero che se si entra in certi ambienti legati alla droga poi si finisce facilmente a portare un coltello in tasca, e tutto questo ti trascina in situazioni che all’inizio forse possono essere viste come circostanze in cui mostrare coraggio, ma che in realtà nella maggior parte dei casi finiscono male e fanno fare una brutta fine a tutti: la morte o la galera.

Di solito quando facciamo gli incontri con le classi di studenti, mi sento in difficoltà a raccontare la mia storia, però mi faccio coraggio e vado avanti. Non è una cosa facile riuscire a partire con il racconto, perché ho sempre il timore di dire qualcosa di sbagliato, ma poi ripenso a quanto questo potrebbe essere importante per gli altri e trovo le parole giuste. Adesso spero solo che questa storia torni utile a qualche ragazzo e lo faccia riflettere.

 

 

Costruire consapevolezza è stato il nostro obiettivo

Una doppia consapevolezza, per gli studenti quella che li può aiutare a mantenere una condotta socialmente accettabile, e per i detenuti una consapevolezza nuova, la cui conquista passa per una assunzione chiara di responsabilità rispetto al proprio passato

 

Antonio Bincoletto

Insegnante di Lettere del Liceo Marchesi-Fusinato

 

Vorrei partire da una constatazione: nella società, e quindi anche nelle scuole ovviamente, c’è una diffusa paura e un senso di insicurezza generalizzata, a cui si risponde con l’idea che le pene sono troppo morbide, che bisogna inasprirle, che le politiche devono essere più dure e repressive.

Questo è il punto di partenza per il nostro lavoro ed è un punto molto forte e molto presente: la logica vendicativa della pena, che trascura completamente l’idea della pena come strumento per prevenire e rieducare.

Allora noi partiamo da questo punto per cercare di costruire consapevolezza. La consapevolezza nei ragazzi è il filo conduttore per ottenere alcuni obiettivi importanti, come quello di prevenire i comportamenti devianti, di conoscere in modo profondo e critico la realtà in cui viviamo, e magari di fare un’azione che abbia una utilità sociale.

Ecco allora che questa esperienza del progetto scuole-carcere alla fine si rivela straordinaria, e potrebbe essere portata a modello per le ore di educazione civica, che dall’anno prossimo saranno curricolari e presenti quindi in tutte le scuole, e si chiameranno di “Cittadinanza e Costituzione”.

Su cosa si basa questa consapevolezza che cerchiamo di costruire? Su delle conoscenze disciplinari, perché noi facciamo dei percorsi di approfondimento che coinvolgono materie come Lettere, Storia, materie giuridiche, sociologiche, ma il passaggio essenziale è proprio il confronto diretto con le esperienze di vita. E qui il progetto carcere diventa straordinariamente importante: attraverso questo confronto con detenuti, ma anche con operatori, con chi questa realtà la conosce e la frequenta tutti i giorni, cerchiamo di arrivare ad una consapevolezza molto più ampia, molto più critica di quello che è il problema della legalità, dei comportamenti a rischio, della violazione delle regole.

Dobbiamo costruire una forma di cittadinanza attiva e consapevole e cerchiamo di raggiungere questo obiettivo facendo acquisire ai ragazzi una visione corretta della realtà della devianza, di come si arriva a compiere determinati reati, da cui purtroppo nessuno può sentirsi al riparo, e cerchiamo di dare una visione altrettanto corretta di quello che è il nostro dettato costituzionale, di quell’articolo 27, che dice che lo scopo della pena non è solo quello di punire, ma anche quello di rieducare.

Noi il progetto l’abbiamo chiamato “A scuola di libertà”, ed è un progetto che ha due versanti, uno rivolto verso gli studenti e uno rivolto verso i detenuti, cioè noi in un certo senso cerchiamo di insegnare la libertà agli studenti, la via per mantenere la libertà, e la via per riconquistarla a chi non ce l’ha più. Quindi cerchiamo di creare una doppia consapevolezza, da parte degli studenti quella che li può aiutare ad evitare di commettere reati e a mantenere una condotta socialmente accettabile, e per i detenuti una consapevolezza nuova, la cui conquista passa per una assunzione chiara di responsabilità rispetto al proprio passato.

 

 

Un progetto che “produce” responsabilità

Del rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in banca, non riesco a ricordare molto, ma in quel detenuto che ho incontrato nel “progetto carcere” ho avvertito il desiderio quasi di scusarsi, lui per qualcun altro, per quello che mi era successo

 

Elena Baccarin

Insegnante di Inglese del Liceo scientifico Rogazionisti

 

Quando insieme ad altri due colleghi abbiamo deciso di iniziare quello che nella nostra scuola tutti conoscono come il “Progetto Carcere”, avevamo una vaga idea di quanto potesse offrirci e offrire ai nostri ragazzi.

Io insegno inglese in un liceo scientifico ed inizialmente è stato un po’ difficile trovare collegamenti, dei link che sostenessero la mia partecipazione e il coinvolgimento della mia materia nel progetto al di là del mio interesse e della mia curiosità personale. Poi, in realtà, dopo la prima esperienza, di collegamenti ne ho trovati tantissimi. In fondo anche la letteratura inglese che io insegno ai miei ragazzi, presenta uomini e donne divisi tra il bene e il male, personaggi “cattivi”, imbroglioni, truffatori personaggi che sono diventati più credibili, vivi, reali fuori dalla pagina del libro dopo l’incontro con i detenuti della redazione di Ristretti. Come dire: esistono davvero persone con esperienze di vita al di là del confine di una vita cosiddetta “regolare”, non è solo “fiction”, finzione, ciò che raccontano i libri.

E rompere la monotona routine dei programmi rende moltissimo a scuola. È molto importante portare in classe la vita reale, esperienze come questa che hanno un grande senso perché possono contribuire a prevenire il crimine e a recuperare chi ha sbagliato infondendogli il senso di responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.

È all’interno di uno di questi incontri a scuola che trova posto la mia esperienza personale, quella che mi ha portato qui adesso. Era una mattina come le altre a scuola il 17 febbraio 2008, solita routine tranne che quella mattina aspettavamo i detenuti della rivista Ristretti che venivano a presentare la loro esperienza. Gli studenti un po’ emozionati, un po’ curiosi si preparavano le domande da fare. Io ero molto tranquilla, non come la prima volta che avevo affrontato questo incontro. Avevo già visto di persona che i detenuti sono persone normali e sapevo che dalla porta della classe non sarebbe entrato nessun alieno.

Durante il primo racconto infatti ero un po’ assente, pensavo alle mille cose da fare finché uno dei detenuti disse di essere stato un rapinatore. E da quel momento è iniziata una forte agitazione e il mio pensiero è andato a qualche anno prima, quando io stessa ero stato usata come ostaggio in una rapina ad una banca. Un ricordo che credevo oramai messo da parte. Invece, non era così. Mi prese una forte tensione, mi mancava quasi il respiro, volevo uscire dalla stanza mentre sentivo il racconto di quello che succedeva durante una rapina “tipo” ad una banca. Non ci vedevo quasi, poi ho capito che l’unico modo per riprendermi era proprio approfittare di quella occasione che la vita mi aveva offerto in modo così inatteso, proprio quando mi sembrava che non ce ne fosse più bisogno. Sono convinta che la vita attraverso i suoi incomprensibili giri ci ponga sempre di fronte a quello che non abbiamo superato, a quello che ci fa paura ma che, con ostinazione, cerchiamo di mettere a lato, rimandando ad un altro momento. Ecco il momento era arrivato. Chi ha subìto un reato e chi lo ha commesso erano di fronte, ma più che vittima e colpevole c’erano due persone qualsiasi: io e Nicola.

Del rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in banca, non riesco a ricordare molto, forse solamente gli strattoni che mi ha dato, le sue imprecazioni urlate al cassiere, il piccolo cerchio gelido della sua pistola puntata sulla mia nuca. Questa, di tutte, è la sensazione di cui ho fatto più fatica a liberarmi. Ma guardando Nicola così mite non mi riusciva di vederlo sotto quella veste del rapinatore. È stato un momento intenso, fatto di rabbia repressa e di forte emozione. Potevo finalmente chiedere alcune cose, per cercare di capire cosa passa nella testa di chi, in quei momenti, a sangue freddo, afferra la prima persona che gli capita davanti e le punta una pistola addosso. Allora nella mia testa si alternavano due pensieri a ritmo intermittente: “Adesso mi spara se non gli aprono” e “Non si sente mai che nelle rapine uccidano gli ostaggi”. Una consolazione, forse anche se in quei momenti non c’è il tempo di riflettere: il tempo si dilata e sembra tutto un sogno e si vorrebbe credere che non sta capitando proprio a noi. Ma il confronto con Nicola è stato rincuorante. Ricordo che anche Nicola mi sembrava stupito ed emozionato da questo scambio inaspettato. E alla fine dell’incontro c’è stato un momento molto emozionante, perché nell’abbraccio che Nicola mi ha dato mi sembrava di avvertire il desiderio quasi di scusarsi, lui per qualcun altro, per quello che mi era successo. È stato l’incontro di due estranei che, senza saperlo, avevano in comune qualcosa.

Ho creduto molto nell’importanza di questa esperienza tra il carcere e la scuola per il mio desiderio di conoscere, di sapere quello che c’è oltre al meccanismo della perfetta vita quotidiana che non trova spazio per reati, vittime e colpevoli. Di solito queste cose riguardano sempre qualcun altro e ne sentiamo parlare alla tv e sui giornali.

Andare in visita in carcere è un’esperienza forte che molti dovrebbero fare. Il mio primo ricordo è fissato sul rumore delle porte che si chiudono man mano che si procede all’interno. È la sensazione più intensa che mi è rimasta. E ora, quando mi capita di passare in auto nei pressi del carcere di Padova, mi soffermo sempre a pensare che dentro a quel blocco ci sono tante persone che vivono. Anche in altri momenti, mentre sto per uscire o per fare altre cose mi capita di pensare alla routine del carcere. Prima, non l’avrei fatto. E le persone che ho incontrato lì dentro sono solo persone come le altre che vedo all’esterno: è molto facile guardare negli occhi di questi uomini e trovarci l’umanità, la fragilità, la stessa pasta di cui siamo fatti tutti. E un po’ mi spaventa il fatto che i miei studenti siano così fermamente convinti che a loro non accadrà mai di commettere un reato. Ma poi, riflettendo, penso che, forse, alla loro età la pensavo anche io così perché a 18 anni, in genere, non si sono ancora vissute quelle esperienze che ci portano al fondo di noi stessi e che, in un attimo, potrebbero farci compiere qualcosa di drammatico.

Il Progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere” è un’esperienza molto significativa, per molti motivi. Per me personalmente è stata doppiamente utile perché mi ha aiutato a superare un trauma che credevo rimosso e anche ad avere una visione “oggettiva” e realistica del carcere e delle persone che lo abitano. Credo che tutti quelli che stanno fuori dovrebbero venire e vedere per poter esprimere, solo dopo, la loro opinione, perché spesso c’è una visione distorta o romanzata del carcere da fuori. E infine, se la mia esperienza è servita da spunto per una riflessione anche a che si trova dentro al carcere, ne sono felice.

 

 

Le parole dei detenuti: responsabilità

Ho immaginato di stare “dall’altra parte” di un’arma

Ringrazio la professoressa che, nonostante la sua esperienza traumatica, che avrei potuto anche essere stato io a causarle, ha voluto confrontarsi con il lato oscuro del suo trauma

 

Sandro Calderoni

 

Cinque anni fa, quando è iniziato il progetto con le scuole, l’intento era quello di far conoscere agli studenti il carcere e chi ci sta dentro, cercando di dare delle informazioni che permettessero loro di considerarlo senza quei luoghi comuni che giornali, film, trasmissioni televisive tendono a diffondere. E man mano che questo progetto andava avanti, anche il mio atteggiamento è mutato, perché la curiosità e la voglia di conoscere dei ragazzi mi hanno portato a confrontarmi con il mio passato, e a farmi accorgere che anch’io avevo i miei luoghi comuni, le mie convinzioni e i miei falsi idoli, e avevo bisogno di una prospettiva che andasse oltre il senso egoistico e opportunistico della mia visione della vita.

Questo pensiero si è concretizzato quando ho letto la lettera della professoressa, il racconto della sua esperienza come vittima di una rapina, il suo stato d’animo, i pensieri che le passavano per la testa mentre era in ostaggio e la paura di morire… e ho provato timore nel pensare di essere dall’altra parte di un’arma.

Mi sono reso conto come sia tremendo che persone tranquille, che conducono una vita normale, vengano a trovarsi in situazioni totalmente al di fuori dei loro schemi, situazioni in cui si trovano in balia di altre persone che per raggiungere uno scopo non esitano a terrorizzarle.

Prima non vedevo questo, ero un rapinatore, in particolare un rapinatore di banche, e nonostante la gravità del reato in sé, ero convinto che nel prelevare denaro, seppur con violenza, non recavo un particolare danno psicologico alle persone che vi assistevano, ero anche convinto, con una certa presunzione, che non avrei fatto del male a nessuno.

Ora non sono più certo di questo, ora capisco che solo per il fatto di avere avuto un’arma avrei potuto anche usarla, proprio per quella leggerezza e indifferenza con cui consideravo il valore delle persone.

Ora mi rendo conto quanto sia dirompente subire passivamente un episodio violento e quanto questo possa condizionare una persona per sempre. Ho capito il significato della paura, del terrore che può causare un episodio del genere, quella sensazione che può togliere il respiro e rimanere nel tempo, anche se sopita, ed esplodere improvvisamente e far fare cose inconsapevoli.

Ringrazio la professoressa che, nonostante la sua esperienza traumatica, un episodio che avrei potuto anche essere stato io a causarle, ha voluto confrontarsi con il lato oscuro del suo trauma, dandomi la possibilità di vedere oltre le apparenze, di guardare al di là delle mie convinzioni: in un attimo mi sono passati nella mente tutti quei volti, figure confuse, alle quali concretamente avevo causato le stesse traumatiche sensazioni.

Al di là di ogni ragionamento retorico, al di là dell’emozione, della commozione che irrompe in ogni parola e silenzio, questo convegno, e la preparazione che c’è stata, il progetto stesso con le scuole, mi hanno dato molto, e mi hanno tolto tanto.

Ora non ho più tutte quelle certezze che inconsapevolmente davo per scontate; ora ho molti dubbi, anzi ora mi sono crollati tutti quei luoghi comuni, che mi avevano portato a delle scelte per cui mi sentivo bene solo per il fatto che prendevo ai ricchi, quando in realtà non ci sono eroi tra chi commette reati, ma solo uomini che hanno scelto di vivere fuori dalla legge.

Se adesso ripenso a come ero cinque anni fa quando il progetto con le scuole è iniziato, capisco quante cose sono cambiate attraverso il confronto con gli studenti, con vittime di reati, attraverso le discussioni accanite in redazione, in cui le parole acquistano un significato più profondo e si prende consapevolezza del proprio vissuto e si ascoltano anche i diversi punti di vista. Mi rendo conto allora di quanto possa essere importante il dialogo con le persone esterne, cittadini comuni e autori di reati che si confrontano riconoscendosi a vicenda, gli uni nel vedere non solo il reato, ma anche la persona che c’è dietro, gli altri nel rivedere attraverso i loro atti, i disastri che hanno fatto, e mi accorgo così di quanto tutto questo abbia inciso sui miei comportamenti, e abbia dato un significato alla mia pena.

Allora mi chiedo: perché invece di cercare di allontanare sempre più il carcere dalla città non si cerca di aprirlo al cittadini, alle persone che sono fuori, in modo da creare sempre più spesso e con maggior intensità questi confronti?

 

 

Le parole dei detenuti: responsabilità

Sono proprio le paure degli altri che spingono alla responsabilità

E la prima responsabilità di un rapinatore è il fatto che se porti addosso un’arma, e hai la fortuna di non usarla, puoi solo dichiarare a te stesso che sei un mancato omicida

 

Maurizio Bertani

 

Sono in carcere da parecchio tempo per una serie di rapine in banca. Per cui mi collego all’intervento della professoressa Elena Baccarin, che ci ha fatto il suo racconto di quanto sia stata dura la sua esperienza di vittima di una rapina, e di quanta paura ha avuto nel sentirsi puntare un’arma addosso. E poi mi riallaccio anche a quello che ha detto Sandro Calderoni: in pratica chi commette questo tipo di reati, neanche ipotizza che possa avere delle vittime, perché lo scopo è tutt’altro. Però il dialogo con l’altro, cioè con quello che ha subito il reato, ti porta a confrontarti, e di conseguenza a prendere consapevolezza delle tue responsabilità. E la prima responsabilità di un rapinatore è il fatto che se porti addosso un’arma, per esempio, e hai la fortuna di non usarla, puoi solo dichiarare a te stesso che sei un mancato omicida, perché con un’arma addosso è evidente che tutto può succedere.

Ma sono proprio le paure degli altri che spingono alla responsabilità. Abbiamo per esempio sentito anche il racconto di una ragazza delle scuole che ci ha detto che lei, nel rientrare a casa la sera, ha trovato i ladri, e questo in pratica ha significato che quella ragazza, nel suo ambiente più naturale e protettivo, non riesce più neanche a vivere normalmente.

Tutti questi concetti, questi discorsi portano a pensare che il confronto all’interno di una redazione di un giornale dentro un carcere, fatto con l’altro, fatto con chi ha subito i reati, porta le persone a prendere consapevolezza delle proprie responsabilità, e questo secondo me è un bene, è un bene perché uno non ragiona più esclusivamente con una visione egoistica della vita, ma ragiona su se stesso e soprattutto sul suo rapporto con gli altri.

Per cui alla fine voglio dire: l’unico rimpianto qual è? È che queste attività sono poche, ce ne vorrebbero molte di più, perché più si allarga la cerchia del confronto, del confronto con l’altro, e anche con chi ha subito il reato, e più si acquisisce la responsabilità di quello che si è fatto.

 

 

Le parole dei detenuti: vendetta

Una faida interrotta dal coraggio del perdono

Di fronte a una classe ho immaginato che in mezzo a loro ci fosse mia figlia e ho raccontato la mia storia, i miei comportamenti, la mia mentalità di un tempo, e tutto ciò che mi ha portato a commettere quel reato

 

Dritan Iberisha

 

Mi chiamo Dritan, sono in carcere da oltre 15 anni per omicidio, da quasi tre anni mi trovo nel carcere di Padova, e da oltre due anni sono inserito nel gruppo della redazione di Ristretti Orizzonti.

In questa redazione si tengono tutti i pomeriggi riunioni in cui si discute di tutti i temi che hanno a che fare con la giustizia e il carcere. Si discute di responsabilità, si discute di presa di coscienza e del riconoscimento delle vittime, del male che hanno subito, e quindi del male che noi come autori di reato abbiamo commesso.

Quest’anno il convegno è stato dedicato alla attività di prevenzione che la redazione svolge con il progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Si tratta di un continuo dialogo con gli studenti, dove ci si pone in un confronto faticoso ma necessario per fornire loro una conoscenza diretta delle conseguenze di certi comportamenti, e degli strumenti che a volte la società non ti dà, mentre il racconto di chi ha trasformato dei semplici comportamenti a rischio in veri e propri reati gravi, può far capire molto.

Allora la fatica trova gratificazione anche nel semplice pensare che forse il tuo vissuto sbagliato possa servire a qualcuno per dargli quella motivazione e quell’input a fermarsi prima, cioè il riuscire a “pensarci prima”, come ci viene detto spesso dai ragazzi.

Due anni fa, sentendo altri detenuti parlare, discutere dei reati, portare le loro testimonianze personali, dicevo a me stesso: “Io come faccio?”. Il punto era che io non avevo mai confessato davvero il mio reato, e non avevo alcuna voglia di farlo. Finché mi sono domandato: ma se mia figlia mi chiedesse “Perché sei finito in carcere?”, cosa le risponderei? Sarei capace di raccontare la verità, o mi nasconderei dietro a delle bugie?

Allora un po’ alla volta ho preso coraggio. Di fronte ad una classe ho immaginato che in mezzo a loro ci fosse mia figlia e ho raccontato la mia storia, i miei comportamenti, la mia mentalità di un tempo, e tutto ciò che mi ha portato a commettere quel reato.

Oggi penso che questo sia stato più utile a me che a loro, perché con loro e tramite loro sono riuscito ad uscire da un inutile stato di autodifesa e di non accettazione, e ancora a riconoscere ed accettare le mie responsabilità, per il male fatto, prima di tutto ad altre persone, che non ci sono più e le famiglie di queste persone che per le mie colpe hanno sofferto. Così come ora stanno soffrendo anche i miei famigliari, sempre per colpa mia.

Il mio reato, pur non essendo avvenuto in Albania, è da collocare all’interno di quello che in Italia, soprattutto al sud è meglio conosciuto con il temine di “faida”. I miei omicidi nascono come risposta ad una serie di omicidi che hanno visto come vittime dei miei famigliari. Quindi il desiderio di vendetta unito ad un modo di pensare secondo cui il dolore legittimava tutto, hanno fatto sì che uccidessi i due responsabili. Non c’è stata razionalità, non c’è stato il minimo ripensamento, non mi ha sfiorato neppure il pensiero della possibilità del perdono, c’era solo e unicamente un gran desiderio di vendetta. Con questo stato psicologico tutto è avvenuto abbastanza in fretta e quando fui arrestato e portato in carcere, ancora pensavo che quello che era successo in fondo era giusto, e che comunque era fisiologicamente inevitabile. Quello che provavo era un semplice sollievo, come se mi fossi liberato di un peso.

 

Quella famiglia ha deciso di chiudere la faida

 

Dopo quattro anni che mi trovavo in carcere, mi giunse la notizia dall’Albania che i famigliari di una delle persone da me uccise mi avevano perdonato. Il perdono nella nostra cultura significa che quella famiglia aveva deciso di chiudere la faida, ossia di non volere più vendicarsi, e quindi avrei dovuto essere felice, esultare. Invece la cosa mi ha sconvolto, perché in quel momento ho immaginato il dolore e lo sforzo che aveva fatto il padre di questo ragazzo per perdonare l’assassino di suo figlio. Questo ha svuotato ogni senso di giustificazione che mi ero creato nel commettere quegli omicidi. Mi sentivo male e facevo fatica ad accettarlo. Non ero preparato a tutto questo, e mi sono accorto che fino ad allora io non avevo mai pensato di liberarmi dell’odio e perdonare chi mi aveva fatto del male, mentre quel padre l’aveva fatto obbligandomi a riconoscere che l’unico ad essersi comportato da uomo era proprio il padre di quella persona che io avevo ucciso.

Ecco, adesso ogni volta che viene una classe di studenti, raccolgo le forze e racconto questa mia storia immaginando di avere un dialogo diretto con mia figlia e mi piace pensare che dal mio racconto distruttivo e fallimentare, loro riescano a percepire che i comportamenti sbagliati possono portare a qualcosa di molto più grave, e che il “pensarci prima” è difficilmente ipotizzabile se non consideri che i comportamenti fuori dalle righe possono essere già un passo verso qualcosa di più grave.

Ma se mi sento un po’ cambiato oggi, è merito di quel padre e dei ragionamenti che si riescono a fare all’interno della nostra redazione, e poi incontrare alcune vittime di reati, sentire direttamente il loro dolore ha finito per farmi ragionare ancora di più sul male e sul dolore e sulla violenza. Adesso spero solo di riuscire a mantenere a lungo questa nuova visione della vita.

 

 

Le parole dei detenuti: figli

Capire cosa poteva passare nella testa a mia figlia finché io ero in carcere

E così mia figlia ha intuito che forse un poco di quello che avrei dovuto dare a lei, lo sto dando ad altri ragazzi, e questo ha fatto sì che lei si sia riavvicinata a me, e ora mi veda con occhi diversi

 

Paola Marchetti

 

Vorrei iniziare leggendo dei pezzi di una lettera che una ragazza di terza media mi ha mandato, una ragazzina di 14 anni che ha l’età di mia figlia, o meglio che mia figlia aveva quando mi hanno arrestata.

“Siamo tutti abituati a sentire parlare di ragazzi o uomini, italiani o stranieri che finiscono in carcere, ma molto raramente di donne. Sentire la testimonianza di una che è finita in carcere per spaccio, forse non è così avvincente come sentire la storia di un pazzo omicida, ma forse è la cosa migliore che carcerati o ex carcerati come voi possano fare nei nostri confronti, perché a questa età ben pochi di noi uccidono, ma molti di noi si mettono sulla cattiva strada del fumo e della droga. Se fossi stata in carcere non sarei stata in grado di mettermi a nudo come avete fatto voi, l’ultima cosa che avrei fatto, sarebbe stata quella di parlare della mia esperienza, e una volta uscita da lì avrei cercato solo di dimenticare. Penso che se tutto ciò fosse successo a mia madre, io l’avrei proprio presa molto peggio di come l’ha presa tua figlia, perché io con mia madre non ho proprio un bel rapporto. Ma anch’io se mi fossi trovata nella tua situazione, forse avrei fatto come te, considerando che io mi arrendo facilmente e sarei caduta nella trappola prima di te”.

Ecco io vorrei partire da questa lettera, per fare due considerazioni, che riguardano proprio il rapporto con i figli. È chiaro che un figlio che ha una madre che finisce in carcere, non perdona facilmente, e così è stato per me nel mio rapporto con mia figlia. Questo progetto, questa esperienza con le scuole, mi ha dato modo di capire cosa poteva passare nella testa a mia figlia finché io ero in carcere, cioè il confronto con i ragazzi dell’età che aveva Giulia quando io sono stata dentro, mi fa comprendere, mi fa anche un po’ rivivere delle cose che non ho potuto vivere nei miei rapporti con lei, oltre ad essere una esperienza di crescita continua, e di esame di coscienza, e di presa di coscienza. Però questa cosa alla fine ha avuto un risvolto positivo anche nel mio rapporto con Giulia, e infatti grazie a questa esperienza e ad alcune cose che mia figlia ha letto, considerazioni mie su questo progetto, ci siamo riavvicinate. Perché il rapporto con i figli, cioè la mancanza del rapporto con i figli, purtroppo, per uno che è in carcere è la cosa più lacerante. Ma mia figlia ha capito che forse un pochino di quello che avrei dovuto dare a lei, lo sto dando ad altri ragazzi, e questo ha fatto sì che lei si sia riavvicinata a me, e ora mi vede con occhi diversi.

 

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