Informazione e responsabilità

 

Indulto e “panico morale”

C’è stata una progressiva ondata di informazioni secondo cui l’indulto era un fallimento, l’indulto era criminogeno, e questo ha creato un vero e proprio stereotipo sociale, quello del fallimento dell’indulto

 

Giovanni Torrente

Docente di sociologia giuridica della Università della Valle D’Aosta,

autore, con Giuseppe Campesi e Lucia Re, del libro

“Dietro le sbarre ed oltre”, dove è contenuto lo studio “Indulto e recidiva”

 

Da dove nasce la ricerca “Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”? Noi abbiamo cercato di fare un monitoraggio sulla recidiva dei beneficiari dell’indulto, sostanzialmente perché l’indulto è diventato nel comune sentire un fallimento, già pochi giorni dopo la sua approvazione.

Oggi non si discute più su che cosa è stato l’indulto, oggi è dato per scontato nei discorsi pubblici che l’indulto sia stato un fallimento per vari motivi, uno dei quali è che le persone beneficiarie dell’indulto uscivano dal carcere e commettevano nuovi reati.

In breve tempo si è sviluppato un dibattito pubblico che dava per scontato il fatto che larga parte dei beneficiari dell’indulto fosse rientrata in carcere in breve tempo.

Come la maggior parte dei dibattiti che avvengono in Italia su temi di politiche criminali e di giustizia penale, coloro che dibattevano non si sono minimamente preoccupati di andare a verificare se fosse vero il fatto che larga parte dei cosiddetti indultati fosse rientrata in carcere. Quindi l’idea, che partì in primis da Luigi Manconi, allora sottosegretario del Ministero della Giustizia, era stata quella di andare a fare un monitoraggio sulla recidiva dei beneficiari dell’indulto. Questo come ricercatori ci interessava moltissimo, proprio perché in Italia in generale sulla recidiva si sa pochissimo, quasi niente.

È infatti abbastanza diffusa la retorica legata all’inefficacia del carcere, alla metafora del carcere come istituzione a porte girevoli, all’interno delle quali chi entra, riesce dopo breve tempo. Peraltro poco si sa sulla reale inefficacia del carcere, su quali siano i tassi di recidiva ordinaria e su questo abbiamo cercato di indagare.

La ricerca non è stata facile per una serie di motivi. Uno studio di questo tipo doveva necessariamente far riferimento ai dati ufficiali del Ministero della Giustizia, del DAP. Siamo partiti convinti che sarebbe bastato richiedere questi dati al DAP, poi abbiamo scoperto che stavamo per dire delle castronerie, perché il DAP in occasione dell’indulto, ma temo che questa sia una prassi consolidata, ha monitorato i reingressi dei beneficiari non sulla base del numero di beneficiari rientrati, ma sulla base degli eventi di reingresso.

Questo determina che in tutte le occasioni ufficiali in cui il Ministero fornisce dati sulla recidiva dei beneficiari di indulto questi sono semplicemente sbagliati, perché sovrastimano il fenomeno, non contano le persone realmente rientrate, ma contano gli eventi di reingresso.

Evidentemente questo è accaduto non per una esplicita volontà, ma semplicemente per un problema legato alle procedure informatiche di raccolta dati. Però questo la dice lunga sulla situazione del nostro Paese, sui dati relativi alla recidiva e quant’altro riguarda il sistema penitenziario.

Gli ultimi dati che abbiamo raccolto, e sono a 26 mesi e 15 giorni dalla concessione dell’indulto, aggiornati al 15 ottobre 2008, mostrano un tasso di recidiva del 26,9 per cento per le 27.607 persone che in seguito all’indulto sono state liberate dal carcere, mentre per un campione di 7.615 persone che hanno avuto l’indulto mentre erano in misura alternativa, il tasso di recidiva è stato del 18,97 per cento.

Il numero di 7615 non corrisponde al totale delle persone liberate dalla misura alternativa con l’indulto, ma al campione su cui abbiamo svolto il monitoraggio. Il totale delle persone liberate dalla misura alternativa è di 17.387, tuttavia noi abbiamo potuto compiere un monitoraggio esclusivamente sul campione, perché sugli altri il DAP non ha svolto nessuna azione di monitoraggio. Ci affideremo pertanto a future ricerche a campione per verificare la recidiva del numero totale delle persone provenienti da misura alternativa.

Ribadisco il dato: la recidiva dei provenienti dal carcere è del 26,97 per cento contro un 18,97 per cento di coloro che provengono dalle misure alternative.

Se sia una recidiva alta o bassa, è difficile dirlo, semplicemente perché nel nostro Paese si sa poco su questo fenomeno. Noi ci siamo affidati come metro di paragone ad alcuni rilevamenti che ha fatto il DAP, i quali mostrano una recidiva sui 7 anni del 68 per cento e peraltro evidenziano come larga parte dei rientri in carcere avvenga entro i primi due anni. Questi dati ci portano a valutare la recidiva dei beneficiari dell’indulto come più bassa rispetto all’ordinario.

Questo, da un lato, non dovrebbe stupire, perché le poche ricerche svolte in materia hanno sempre dimostrato che i beneficiari di provvedimenti di clemenza non hanno tassi di recidiva più elevati rispetto agli altri, anzi tendono ad averli solitamente più bassi. Nei primi anni ottanta e alla fine degli anni ottanta, sono stati svolti alcuni monitoraggi dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, i quali avevano mostrato proprio come chi beneficia di un provvedimento di clemenza, non ha tassi di recidiva più elevati rispetto alle altre persone che concludono la pena.

Dall’altro lato, questo è totalmente in contrasto rispetto al dibattito pubblico che si è sviluppato a seguito dell’indulto, dal quale invece si dovrebbe supporre che larga parte dei beneficiari è rientrata in carcere. Noi però possiamo raccontare quanto vogliamo che i dati ci danno tassi di recidiva più bassi, l’opinione pubblica non cambia. In tutti i luoghi in cui io vado a presentare i dati, l’uditorio è convinto che la recidiva sia molto più elevata. Tale fenomeno appare come lo specchio del fatto che sia entrato nel senso comune il fatto che larga parte degli indultati, quasi tutti, sono tornati in carcere. Che questo non risponda a realtà è difficile da far passare come messaggio.

 

Senza misure alternative si ha l’esplosione della popolazione carceraria

 

Il campione dei liberati dalle misure alternative ha un tasso di recidiva più basso, anche questo non deve stupire, tutte le indagini svolte sulle recidive dimostrano che chi non sconta la pena in carcere ha tassi più bassi rispetto a chi sconta per intero la pena in carcere.

Questo non deve essere esclusivamente attribuito ad una intrinseca maggior efficacia delle misure alternative, in quanto non va trascurato il fatto che ci troviamo di fronte ad un campione selezionato, in quanto si tratta di persone che di per sé hanno una prognosi di maggior affidabilità rispetto a coloro che rimangono in carcere. Tuttavia, alcuni dati che emergono dalla ricerca suggeriscono di mettere in discussione tali processi di selezione nell’ottica dell’ampliamento nell’utilizzo delle misure alternative.

Un dato significativo, a mio parere, è che, fra coloro che alle spalle non avevano nessuna precedente carcerazione, e sto parlando di circa 10.714 persone uscite dal carcere per effetto dell’indulto, soltanto il 12 per cento sono rientrate in carcere.

Questo vuol dire che per quasi 9 persone su 10 di quelle che sono uscite dal carcere essendo alla prima esperienza detentiva, l’indulto è stata l’occasione per non rientrarci più. In altre parole, il carcere non ha iniziato a produrre gli effetti negativi che solitamente provoca.

Invece il tasso di recidiva naturalmente aumenta progressivamente con l’aumentare del numero di precedenti carcerazioni. Fra coloro che hanno 11 e più precedenti esperienze detentive, ad esempio, il 53 per cento, uno su due, è rientrato in carcere.

Questo dato, coerente con tutto quello che sappiamo sulla recidiva delle persone che provengono da un percorso carcerario, si scontra peraltro con l’altro che proviene da coloro che erano in misura alternativa: fra coloro che erano in misura alternativa ed avevano 11 e oltre precedenti carcerazioni, soltanto il 39 per cento è rientrato in carcere.

Questo ci porta ad ipotizzare, ma è un’ipotesi che deve necessariamente essere verificata con ulteriori ricerche, che le misure alternative e determinati programmi specifici, riescano a limitare la recidiva anche per soggetti per i quali invece i tassi di recidiva ordinari sono molto elevati.

Quindi questo è un aspetto su cui indagare ed è un aspetto su cui possibilmente operare, qui ci sono dei margini per operare concretamente. Occorre tuttavia considerare che questa è la direzione esattamente opposta rispetto a quella verso cui è andato il carcere nel post indulto.

Oggi noi abbiamo di nuovo oltre 62.000 persone in carcere, ma l’area della pena esterna ha dei numeri molto bassi.

Le misure alternative non fanno diminuire la popolazione carceraria. In Italia, così come era all’estero là dove sono state introdotte le misure alternative, non è diminuita la popolazione carceraria, anzi si è allargata l’area del controllo penale.

Tuttavia, là dove le misure alternative non vengono più applicate, come sta succedendo oggi in Italia, dove abbiamo un numero molto basso di persone in misura alternativa, si ha l’esplosione della popolazione carceraria, da dicembre fino ad oggi la popolazione è andata aumentando di 1.000 persone al mese e questo è assolutamente devastante.

Si è parlato della faccia, dell’identikit dell’indultato. Tale identikit rappresenta quasi sempre i tratti di una persona di colore, straniera; i dati sull’indulto ci dicono invece che gli italiani rientrati provenienti dal carcere sono il 27 per cento, gli stranieri il 19,80 per cento. Tassi di recidiva quindi significativamente più bassi per gli stranieri. Questo è un dato che va preso con le pinze, ci sono stati i CPT, ci sono state le espulsioni, ci sono state le false generalità, però abbiamo otto punti percentuale di differenza, questo vuol dire che questi identikit spesso erano sbagliati.

 

 

Ma cos’è accaduto all’informazione dopo l’indulto?

 

Marco Libietti

Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Uno degli aspetti più problematici da affrontare con i ragazzi delle scuole è proprio questa questione del senso di impunità, e la convinzione che l’indulto abbia portato ad un aumento del tasso di insicurezza enorme, addirittura in alcuni casi sembra che l’abbia addirittura tolta a tutti, la sicurezza. Ora i dati che ci ha esposto Giovanni Torrente dicono esattamente l’opposto, questo ci porta ad una riflessione che facciamo spesso all’interno degli incontri, che si riferisce al ruolo dell’informazione. L’informazione, indipendentemente dal fatto che fosse a conoscenza o meno di questi dati, ha sparato a zero sull’effetto indulto e questo è stato un disastro, un disastro per tutti, innanzitutto per noi detenuti, perché questo ci sta privando e ci priverà sempre di più di qualsiasi genere di opportunità, se si va avanti con questo clima di paura e insicurezza, ma lasciamo stare questo aspetto.

Il punto è un altro, il punto è che l’informazione e la politica sparano a zero sull’indulto, poi arriva questa ricerca, che non è uscita tre giorni fa, questa ricerca ha alcuni mesi di vita. Ora io penso che addirittura all’interno di questo convegno moltissime persone non la conoscessero e tuttora non la conoscono, ne hanno avuto notizia dalla bella sintesi che ne ha fatto oggi il professor Torrente.

Il punto è: ma che cos’è accaduto all’informazione? Ora visto che nella ricerca il professor Torrente ha dato spazio a quelle che secondo lui sono le ragioni di questa deriva dell’informazione e ha tratto alcune conclusioni, vorrei che ce ne parlasse apertamente. Con gli studenti è molto complicato da parte nostra dire che non è così, che la recidiva dell’indulto non è alta, anche perché prima di leggere la sua ricerca, non lo sapevamo neppure noi, che eravamo convinti come tanti che più o meno tutti gli indultati fossero tornati dentro. Invece non è questo il punto, ma se lo diciamo noi è un conto, forse se lo dicono altre persone, soprattutto chi ha sviluppato questa ricerca, il senso è un po’ diverso.

 

 

Lo stereotipo sociale del fallimento dell’indulto

 

Giovanni Torrente

 

Si è creato, a mio parere, quello che i sociologi chiamano “panico morale”. C’è stata in tempi brevissimi una progressiva ondata di informazioni secondo cui l’indulto era un fallimento, l’indulto era criminogeno, informazioni arrivate ad una velocità davvero eccezionale.

Questo ha creato un vero e proprio stereotipo sociale, quello del fallimento dell’indulto. Gli stereotipi sociali, nel momento in cui attecchiscono, è poi difficile davvero minarli alla base.

Da questo punto di vista l’informazione è stata assolutamente univoca ad attaccare l’indulto, definendolo come fallimento. Tale convinzione del fallimento ha in breve tempo coinvolto il campo politico il quale, dopo aver votato a larga maggioranza la legge, ha progressivamente rinnegato il provvedimento definendolo come un errore, un ricatto, uno sbaglio.

Tale atteggiamento della politica appare come lo specchio di una degenerazione del sistema politico che, lungi dall’adottare scelte chiare e coerenti, insegue le spinte emozionali del momento, senza preoccuparsi della corrispondenza fra tali spinte e la realtà, ma esclusivamente inseguendo il consenso elettorale espresso dall’ultimo sondaggio di opinione.

 

 

L’incontro con le persone è quello che ti fa cambiare il punto di vista

Ma se fin dall’inizio, dagli albori delle campagne contro i migranti, i media avessero rifiutato il linguaggio, gli stereotipi, gli accostamenti che alcuni gruppi politici sono riusciti ad imporre, forse avremmo avuto una storia diversa

 

Lorenzo Guadagnucci

Giornalista, autore di “Lavavetri”

 

Sono un giornalista e quindi appartengo a una categoria che è stata più volte evocata da altri relatori per le responsabilità che ha avuto nel creare nel nostro Paese un clima di “panico morale”. Sono responsabilità che anch’io giudico molto gravi e aggiungo che i media – almeno i media cosiddetti “mainstream” – hanno dato un contributo essenziale anche all’affermazione di logiche e pratiche discriminatorie verso certe categorie di persone, che vengono, come diceva Gianfranco Bettin, pre-identificate come potenziali mostri. Nel discorso pubblico e ormai anche nel senso comune, lo sappiamo, si sta diffondendo l’idea che una certa condizione esistenziale – l’essere migranti, non avere un permesso di soggiorno (che peraltro è quasi impossibile ottenere se non tramite sanatorie) – corrisponde a una minaccia sociale, a un pericolo incombente. È la retorica sulla “sicurezza” che si è affermata in questi anni: non saremmo in questa condizione senza la complicità dei media e quindi dei giornalisti, che pure sembrano ancora lontani da un esame autocritico di questo processo.

Nel mio piccolo, e con altri colleghi, sto cercando di agire affinché la categoria affronti finalmente questo nodo: lo scorso anno abbiamo lanciato una campagna, nel pieno della “caccia ai rom e ai rumeni”, sotto l’etichetta Giornalisti contro il razzismo (www.giornalismi.info/mediarom). Chiedevamo ai colleghi di rispettare le regole deontologiche, di rifiutare di fare da cassa di risonanza delle politiche aggressive e di stampo razzista sostenute da alcune forze politiche. Abbiamo anche lanciato una campagna di responsabilizzazione, invitando i giornalisti a rifiutare l’uso di alcune parole-stereotipo come “clandestino”, “extracomunitario”, “zingaro”, “nomade”, “vu cumprà” chiaramente discriminatorie, entrate nel linguaggio corrente, in quello che Giuseppe Faso ha definito “lessico del razzismo democratico”. Con queste iniziative abbiamo ottenuto considerazione e qualche buon risultato e ci sentiamo quindi incoraggiati a proseguire nell’impegno. Per quanto mi riguarda, sul piano personale, posso ormai dire di avere assunto una doppia identità: sono e resto un giornalista, ma anche un attivista sociale e oggi rivendico questa doppia funzione, che ha trovato forma – fra l’altro – nell’esperienza nata a Firenze dopo l’ordinanza sui lavavetri dell’estate 2007 e all’origine del libro “Lavavetri” (Terre di Mezzo/Edizioni Piagge 2009), che contiene fra l’altro l’intervista con Paola Reggiani, che oggi è qui con me.

Come molti ricorderanno, a fine agosto 2007 il Comune di Firenze emise un’ordinanza che fece scalpore in tutta Italia perché una “giunta rossa” per la prima volta metteva nero su bianco un provvedimento repressivo sull’onda della retorica sulla sicurezza. Si prendeva di mira un gruppo di 40-50 persone, impegnate ad alcuni incroci cittadini, vietando l’esercizio di quella che era definita una “professione girovaga”. Il Comune sanzionava, prevedendo inizialmente anche esiti penali poi corretti, il comportamento di un certo gruppo di persone, ben identificabili: erano immigrati rom romeni, da poco arrivati in città.

A Firenze molti attivisti, semplici cittadini, si sentirono offesi da quel provvedimento, io fra questi: vi coglievamo un aspetto discriminatorio, un cedimento alla retorica sulla sicurezza, sul pericolo dell’immigrazione. Con quel gesto, ci pareva, si mettevano in discussione i principi democratici, i fondamenti della convivenza civile.

Sull’onda della protesta, che prese forma anche con uno sciopero della fame a staffetta durato quasi un mese, nacque una mobilitazione permanente, la cosiddetta Assemblea Autoconvocata (www.autoconvocata.org). Andammo a cercare i ”lavavetri”, convinti che l’incontro con le persone è ciò che ti fa cambiare il punto di vista: volevamo che i cittadini di Firenze conoscessero tutti i risvolti di una decisione che allineava l’amministrazione di centrosinistra della loro città alle posizioni storiche della destra. “Scoprimmo” i terribili “lavavetri” in un accampamento d’emergenza alla periferia della città, nello spazio di una fabbrica abbandonata: decine di persone vivevano in condizioni spaventose, ma lontano dagli occhi dei cittadini “perbene”, riparati dalla strada di scorrimento anche da un muro, che era ben tangibile ma aveva anche una valenza simbolica.

Si erano cacciati questi derelitti – bollati come pericolosi e fuorilegge – dal centro della città, per non avere la povertà sotto gli occhi. Abbiamo fatto il possibile per far emergere questa “verità”, ignorata o meglio rimossa dagli amministratori e anche dai media locali. Abbiamo fatto il possibile per mostrare i volti, le storie, che erano storie di vessazione e di ingiustizia, delle persone che erano state indicate come una minaccia per la città.

Questo percorso si è intersecato in una riflessione, e forse qui è venuto fuori il giornalista, sulla retorica della sicurezza, sulle politiche che in quel periodo si formavano a livello nazionale e in un grande numero di amministrazioni locali. L’ordinanza del Comune di Firenze contro i “lavavetri” fu a mio avviso un punto “alto” in quella logica, ma un punto molto “basso” lungo la direttrice della democrazia e della corretta informazione. Sono i temi che ho cercato di mettere a fuoco in “Lavavetri”.

La vicenda fiorentina dei lavavetri ha riguardato proprio la storia di Paola Reggiani e di sua sorella. L’omicidio di Giovanna Reggiani, sua sorella, nell’ottobre 2007 fu un picco, un punto di svolta, perché la politica e anche i media giocarono in quei giorni sulla pelle di una famiglia una partita molto sporca, che portò ad una serie di provvedimenti molto forti da parte delle autorità del tempo, con un “pacchetto sicurezza” più che discutibile, e ad una compagna politica e di stampa, che credo molti di voi ricorderanno, e che io non esito a definire discriminatoria, di stampo razzistico, verso gli immigrati romeni e in particolare contro il popolo rom.

Io credo che l’esperienza che racconta Paola sia importante, perché mette a nudo, fra le altre cose, il cinismo e l’irresponsabilità che alle volte politici e media condividono su questo tema, quando usano storie, drammi, vicende personali per altri fini, senza che questo passaggio sia percepibile da chi sta dall’altra parte, da chi ascolta ciò che diviene discorso pubblico, è riferito e amplificato da tutti e quindi sembra verità, indiscutibile e intangibile. La storia di Paola, naturalmente, è importante anche sotto un altro aspetto e cioè per l’esempio di dignità, rigore, umanità che ha contraddistinto la reazione di Paola e della sua famiglia alla tragedia che hanno dovuto affrontare. Ma di questo parlerà lei.

 

Occorre rivendicare fortemente il principio di responsabilità professionale

 

La cosa che ora voglio aggiungere e che mi riguarda in questo caso come giornalista, è che questa esperienza di attivista e di cittadino che cerca di reagire, ponendosi e ponendo ai colleghi domande stringenti a fronte di situazioni così clamorose e così gravi, dimostra che occorre rivendicare fortemente il principio di responsabilità professionale. Oggi nella nostra professione ci sono regole non scritte che in materia di immigrazione e criminalità, insomma sul cosiddetto tema della sicurezza, ci portano a “servire” il potere e ad essere complici di un’ondata di razzismo che dalle istituzioni tracima nella società. Sono le “regole” che spingono i giornali a cercare e dare enorme risalto a notizie di reati compiuti da immigrati e rom, a ricorrere ad assurdi stereotipi sui “rom che rubano i bambini” o sulla “propensione a delinquere” di questo o quel gruppo nazionale. È una catena che va spezzata.

Da queste riflessioni, come dicevo, l’anno scorso partì l’appello firmato come Giornalisti contro il razzismo. In quel momento i rom erano particolarmente nel mirino, dopo i fatti di Ponticelli a Napoli: una ragazza rom, residente in un campo della zona, fu accusata in modo molto opaco di avere tentato di rapire un bambino e partì un autentico pogrom, coi campi del quartiere dati alle fiamme e centinaia di persone costrette alla fuga. Facemmo notare, nel nostro appello, quanto il discorso che si faceva in quei giorni sui quotidiani e in tivù – con l’accostamento dei rom alla criminalità, con le leggende sui rapimenti di bambini che venivano riportate come fatti reali senza alcun approfondimento, e così via – facemmo notare, dicevo, quanto fosse affine quel modo di fare “informazione” con le campagne condotte contro gli ebrei negli anni Trenta: anche lì si faceva riferimento alla “natura criminale” di una minoranza, alla sua irriducibilità alla convivenza civile, alla sua pericolosità sociale. Quel clima, quella retorica – così scrivevamo – avevano portato alla possibilità di emanare delle leggi razziali nel nostro Paese. Credo che oggi stiamo tuttora vivendo una fase del genere.

Come accennavo prima, abbiamo fatto anche una riflessione sull’uso delle parole. Abbiamo chiesto ai nostri colleghi di smettere di usare certe parole, che sono diventate di senso comune, ma che sono discriminatorie e di stampo razzista. Prendiamo la parola più usata e più abusata, il grimaldello scelto per introdurre normative che colpiscono e discriminano gruppi di persone ben definiti, i migranti. “Clandestino” è un vocabolo che vuol dire qualcosa nella lingua italiana, indica qualcuno che si nasconde, che opera al buio, e viene utilizzato proprio in questo senso, per suscitare una sensazione di pericolo, per evocare l’immagine di fuorilegge e criminali. Ma questa parola “clandestino” è applicata a persone e situazioni che non corrispondono affatto a ciò che si vuole evocare. Quelle che vengono chiamate “clandestini” da molti politici e da tutti i maggiori media sono persone che vivono, che lavorano, che cercano lavoro alla luce del giorno; sono persone che entrano in Italia per cercare di migliorare la propria condizione di vita, come è sempre avvenuto e continuerà ad avvenire in tutto il mondo. Definire queste persone “clandestine” è prima di tutto sbagliato e poi è strumentale all’attuazione di politiche di autentica discriminazione: serve a criminalizzarle. Chi lavora nell’informazione non può ignorare ciò che sta dietro all’uso di questa parola; non può fingere di non conoscere la sua natura politica, la finalità ben identificabile che motiva l’introduzione e l’utilizzo di questo vocabolo nel lessico politico.

 

In Italia si arriva da “clandestini” e poi si viene regolarizzati

 

Un grande quotidiano pochi giorni fa, quando c’è stato l’episodio del barcone carico di migranti respinto in acque internazionali e costretto a rientrare in Libia, ha fatto questa domanda sul suo sito: chiedeva se, all’avviso dei lettori, fosse giusto che il governo italiano respingesse un barcone di clandestini in acque internazionali. A questa domanda il 65 per cento dei partecipanti al sondaggio ha risposto con un sì: i clandestini che arrivano in Italia è giusto siano respinti, oltretutto – avranno pensato i lettori – si parla di acque internazionali, il “mare di nessuno”. Ma se questa domanda più correttamente fosse stata posta così: “Un barcone di perseguitati politici, aspiranti lavoratori, donne e bambini, è stato respinto in acque internazionali, violando la normativa internazionale sui rifugiati, siete d’accordo o no?” forse il risultato sarebbe stato diverso.

Citando quel sondaggio, naturalmente, ho fatto solo un piccolo esempio. Tutti i giorni nella nostra professione, spesso senza accorgercene, siamo complici di una operazione che è tutta politica, che è tutta strumentale, che cerca di criminalizzare alcune persone, che lasciano il proprio Paese alla ricerca di migliori condizioni di vita per sé e per la propria famiglia. Chi cerca di conquistare o mantenere il potere facendo leva sulla paura, spinge per creare una categoria di migranti pericolosi, i cosiddetti “clandestini” appunto, da affiancare e contrapporre a quella dei “regolari”, che sarebbero i migranti “buoni”, quelli che a certe condizioni possono restare. Questa operazione è condotta su molti piani: da quello legislativo a quello culturale e soprattutto a livello di immaginario collettivo. L’informazione, evidentemente, svolge un ruolo decisivo in quest’operazione, che rende possibile il varo di normative ad hoc contro i “clandestini”, che nel nostro Paese stanno diventando “criminali” per il solo fatto di entrare in Italia o di rimanervi alla scadenza del permesso di soggiorno, senza considerare i 6-700 mila che già vi risiedono senza avere appunto il permesso di soggiorno. Questa distinzione è fasulla, mistificatoria, perché omette un “piccolo” dettaglio, e cioè che oggi non è possibile entrare o restare in Italia alla scadenza del visto turistico (per chi può ottenerlo) se non da “clandestini”. Non esistono reali vie d’accesso “legale”. La storia dell’immigrazione in Italia è questa: si arriva da “clandestini” e poi si viene regolarizzati. Questa è la realtà, da anni ed anni, tutto il resto è ipocrisia e falsificazione. I politici che lucrano elettoralmente sulla distinzione “clandestini”/regolari lo sanno bene e agiscono scientemente in questa direzione. Ma perché i giornalisti accettano questa logica, questa mistificazione?.

Pensiamo a come sarebbero diversi l’informazione, la politica, il senso comune se fosse accettata una proposta molto semplice come questa: voi dite che i “clandestini” sono una minaccia, un pericolo, e allora perché non regolarizziamo tutti, perché non diamo a chi vuole venire in Italia un permesso d’ingresso per ricerca di lavoro, e un vero permesso di soggiorno a chi già vive e lavora in Italia ma non può accedere ai documenti legali perché la legge prevede quote per nazionalità che sono assolutamente insufficienti? In questo modo sparirebbero i “clandestini”, non potremmo più usare questa parola, non potremmo più nemmeno fare questa fittizia distinzione fra “clandestini” e regolari: il teorema di chi ci sta governando facendo leva sulla paura, sarebbe automaticamente smontato, svanirebbe nel nulla.

 

Poco fa ho citato l’esempio del sondaggio sulla deportazione in Libia dei migranti intercettati in acque internazionali, ma molti, troppi altri potremmo citarne pescando nelle cronache dei mesi scorsi. È inevitabile pensare che se fin dall’inizio, dagli albori delle campagne contro i migranti, i media avessero rifiutato il linguaggio, gli stereotipi, gli accostamenti che alcuni gruppi politici sono riusciti ad imporre, forse avremmo avuto una storia diversa. Forse saremmo riusciti ad affrontare il fenomeno migratorio per quello che è, con il suo carico di umanità e gli innumerevoli risvolti sociali, psicologici, culturali. Forse avremmo evitato di radicare nella nostra società l’equazione immigrato uguale criminale, immigrato uguale pericolo, rom uguale minaccia. Forse avremmo neutralizzato sul nascere questa malapianta che oggi produce razzismo istituzionale e leggi che prevedono il reato di “clandestinità”, le ronde e così via. Avremmo anche fatto un giornalismo migliore.

 

 

Serve rispetto della dignità e del dolore

Chi fa informazione deve raccontare con precisione, evitando la superficialità, e la strumentalizzazione

 

Paola Reggiani

Sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma

il 30 ottobre 2007 e deceduta pochi giorni dopo

 

Per anni ho lavorato in una casa di riposo, e ho imparato che la morte fa parte della vita, che a volte era un vero atto d’amore. Come credente ritengo che possa essere un vero e proprio atto d’amore per chiudere un periodo di lunga sofferenza. Sono ancora convinta di questo, quello che mi ferisce è il modo in cui la morte ha preso mia sorella, perché quello non è stato un atto d’amore.

Nell’intervista rilasciata a Lorenzo Guadagnucci, e che è stata pubblicata nel libro “Lavavetri”, ho espresso il mio disagio su come la cosa è stata raccontata dai media, perché in fondo è stata una delle cose che più mi ha ferito.

Prima di tutto c’era il desiderio di poter vivere come persona e come famiglia il proprio dolore, e il desiderio e la volontà di poterlo fare senza doversi giustificare. Non so nemmeno io come descriverla questa cosa, perché non credo che nelle interviste ci venga chiesta una giustificazione, ma non avevo voglia di andare a raccontare niente a nessuno, e anche come famiglia non avevamo voglia di andare a raccontare niente. Punto.

Quindi la difficoltà di dover in qualche modo arginare l’intervento dei media, per un lungo periodo, perché non è stato un periodo breve, è stata una delle cose più difficili da fare. Non so come spiegare, ma la domanda che mi è venuta spontanea è stata: sono tutte persone laureate, che dovrebbero comprendere che cosa significa “no”. Invece era difficile per loro, eppure è un parolina così semplice che diventava incomprensibile. Da qui nasce la mia rabbia, e diventa ancora più forte per le imprecisioni con cui venivano raccontate determinate notizie.

Ringrazio tantissimo la signora Valdini, perché ha parlato appunto di raccontare con precisione, evitando la superficialità, il qualunquismo, e io direi anche la strumentalizzazione, perché comunque quello di mia sorella è stato un caso abbastanza strumentalizzato, non soltanto dai media, ma anche dalle istituzioni pubbliche.

Il giorno successivo all’aggressione, i media hanno dato la notizia nei notiziari, con nome cognome, alcuni di questi hanno detto che era morta. I miei fratelli sono partiti per Roma e solo nel primo pomeriggio abbiamo saputo con certezza quello che era accaduto.

Le emozioni sono state tante, ma una delle preoccupazioni più grandi è stata come impedire ai nostri genitori di sapere la notizia, da estranei, oltre tutto sbagliata. Questo ferisce.

Ferisce tanto quanto l’aggressione a mia sorella, nei mesi successivi sono state dette anche delle cose che non erano vere, come ad esempio che mia sorella era stata vittima di uno stupro, grazie a Dio non è successo.

Quindi quello che mi piacerebbe mettere in evidenza e sottolineare, rispetto a quanto ho raccontato, è la necessità del rispetto delle persone coinvolte, del rispetto nel raccontare le cose che devono essere vere e documentate, si deve avere rispetto della dignità e del dolore. Il giorno del funerale, il quattro novembre, subito prima nella chiesa è stato celebrato un altro funerale, ai familiari della signora defunta è stato detto dal sacerdote: “Scusate dobbiamo fare una liturgia più breve, perché dopo c’è l’altro funerale che ha bisogno di spazio”. Anche questa è mancanza di rispetto del dolore, davanti alla morte, perché quella morte non era diversa dalla morte di mia sorella, e il dolore che provavano quelle persone era in quel momento un grande dolore.

 

 

Ho toccato con mano una cosa che avevo letto, ma rispetto a cui ero scettica

Ho visto davvero che la vittima può trarre un giovamento dall’entrare in contatto con i pensieri, le domande, i sentimenti di persone che hanno compiuto atti violenti, simili a quelli che la vittima, che io avevo subito

 

Benedetta Tobagi

Figlia di Walter Tobagi, giornalista

ucciso da un commando di terroristi

 

Prima di tutto vorrei fare una piccola premessa: ero stata invitata anche a partecipare al convegno di Ristretti dell’anno scorso, “Sto imparando a non odiare”, ed ero stata molto onorata di quell’invito, però avevo detto ad Ornella che, per quanto mi sembrasse una cosa bellissima, io non me la sentivo.

Avevo già parlato spesso anche in pubblico della storia di mio padre, di terrorismo, degli anni settanta, però non me la sentivo di venire davanti ad una platea così ampia a parlare della mia esperienza come vittima.

Se io sono qui adesso è perché avevo promesso ad Ornella che sarei comunque venuta ad incontrare i detenuti di Ristretti, e ho accettato perché mi aveva spiegato che facevano questi percorsi di “mediazione penale indiretta” e per me è stata un’esperienza molto forte. Ogni tanto si incontra qualcosa che ti apre proprio una finestra nella testa, l’esperienza nella redazione di Ristretti ha avuto questo effetto: ho capito che, se la mediazione diretta, attraverso l’incontro con gli assassini di mio padre, era qualcosa che non sarei stata pronta ad affrontare, ero attratta invece da questa mediazione indiretta perché conteneva l’idea che l’incontro con la sofferenza di una vittima possa incidere molto nel percorso di rielaborazione, di riabilitazione e quindi di quella rie­ducazione che la Costituzione prescrive per i detenuti.

Questo si legava con un pensiero, che avevo sempre avuto, più che un pensiero in realtà erano una serie di fantasmi: mio padre è stato ucciso, per cui al di là delle sofferenze collegate al fatto stesso, specialmente se ti capita una cosa di questo genere quando sei così piccola, c’è una devastazione che è una distruzione di senso. Io sono cresciuta avendo questo pensiero, questo fantasma ossessivo: che è possibile che un essere umano, non un mostro, proprio una persona normale, che ha degli affetti, una famiglia, ha anche una vita di benessere, uccida oppure danneggi atrocemente un’altra persona.

E poi più ci pensavo e più mi rendevo conto che questo discorso non poteva limitarsi solo ai reati contro la persona: mi chiedo per esempio come possa guardarsi allo specchio alla mattina una persona che compie un reato finanziario e getta sul lastrico migliaia di persone.

Ecco, non solo esiste questa possibilità, ma oltre tutto può accadere che le persone che fanno questo non passino attraverso il cambiamento drammatico di sé di cui parla Adolfo Ceretti, un cambiamento che è precondizione di una trasformazione intima della persona, cioè non si rendano pienamente conto, non solo di quello che hanno fatto, della sua gravità, ma anche dell’impatto che questo ha sulla vita degli altri.

Questa circostanza per me sottraeva senso a che cosa è l’essere umano e gettava un’ombra molto buia sul tipo di mondo in cui viviamo. Questa “mediazione indiretta” mi sembrava invece una forma di educazione all’empatia e mi è sembrato un miracolo che si potesse fare qualcosa in questa direzione. Allora per me è stato importante pensare che potevo anch’io fare un pezzettino, piccolo, piccolo, che poteva servire a spezzare la catena del male, e appositamente ho usato la parola “male” al posto di odio. L’odio è un sentimento che non è automatico provare – il soggetto può reagire in modi diversi alla violenza subita – mentre qui ci si muove sul piano oggettivo, credo sia più opportuno parlare proprio di male, ma non un Male archetipico con la emme maiuscola, bensì il male che c’è dentro a tutti noi e che “circola” nella vita quotidiana.

Così ho pensato “Vado in questa redazione e ci vado al posto di una donna sconosciuta, che probabilmente come me non se la sente di incontrare direttamente le persone che hanno portato la distruzione nella sua vita, però ci vado perché questo magari può avere una utilità”.

Quindi l’ho fatto così, con una specie di spirito, non lo so, spero che capiate se dico che forse contrastava anche una sensazione di impotenza, che credo accomuni le esperienze di tante vittime, e a proposito di questo ho riflettuto su una frase che ha detto di recente il Cardinal Martini: “Se ti siedi davanti alla televisione e guardi tutto quello che succede nel mondo ti senti sopraffatto, se invece cominci a fare qualcosa allora ti senti una persona utile”.

Però francamente, lo dico perché è importante, io non mi aspettavo niente per me, mi dicevo solo: “Mi sento sufficientemente bene in questo periodo, per caricarmi anche di questo mattone”. Vivevo fondamentalmente quest’incontro come un servizio, ma anche un peso.

 

Ho trovato un ascolto rispettoso

 

Invece voglio veramente ringraziare i redattori di Ristretti, perché è grazie al percorso per cui mi hanno condotto che io sono qui e ho toccato con mano una cosa che avevo solo letto, ma rispetto a cui ero scettica: cioè che la vittima può trarre un giovamento dall’entrare in contatto con i pensieri, le domande, i sentimenti di persone che hanno compiuto atti violenti, simili a quelli che la vittima, che io, avevo subito. 

Ecco, per me è stata veramente una scoperta, perché io sono andata a raccontare loro che cosa significa per me “essere vittima” e mi sono resa conto che di questo non parlavo neanche con gli amici cari, e non perché gli amici cari non siano sensibili, ma perché è una cosa di cui ti vergogni quasi a parlare, perché comunque è molto difficile, veramente è una costellazione di sentimenti che sarebbe troppo lungo spiegare. Con loro ne ho parlato perché il discorso aveva una finalità precisa, cioè c’era il disegno di un percorso. La cosa che mi ha impressionata è stato il rispetto e l’attenzione con cui mi hanno ascoltato. Ho parlato in totale libertà e quindi ho mostrato dei sentimenti che avevo dentro. Perché dentro una persona adulta ci può essere un bambino ferito che ha bisogno di essere ascoltato ed eventualmente piangere, ed è questo che ho trovato a Ristretti.

È stato un ascolto rispettoso, che era totalmente diverso, sia dalla pietà che dalla curiosità morbosa di certi giornalisti su cui Paola Reggiani ha detto delle parole importanti, sono molto emozionata anche perché io mi sono riconosciuta in moltissime cose che lei ha detto.

Ho ricevuto molto, poi ho letto l’articolo che loro hanno fatto sulla discussione che abbiamo fatto in redazione e uno dei detenuti diceva “Benedetta aveva un gran bisogno di parlare, di comunicare”. E io allora ho pensato: “Caspita! Un detenuto ha capito una cosa che veramente un sacco di persone non avevano neanche immaginato, non avevano capito, non avevano intuito o avevano frainteso”.

Quindi oltre a quanto ho ricevuto e che mi ha portato a tornare in redazione, a fare altre cose e ad essere qui oggi, io sono entrata in contatto con “l’altro”: sapevo che c’erano anche degli assassini, delle persone condannate per omicidio, una realtà che è lontana mille miglia da quelle che conosco e in cui vivo abitualmente, anche questa è una esperienza dirompente, perché ti rendi conto di tante cose che non ti hanno neanche mai sfiorato. Ripeto, c’è questo fantasma, per cui ti domandi: “Ma come fanno a fare certe cose, che cosa provano dopo?”, e incontri delle persone, che hanno commesso reati gravi contro la persona, in cui il passaggio doloroso del “riconoscimento” e il “cambiamento dirompente” ci sono stati, ed è molto consolante, io veramente non trovo altre parole: è un farmaco. La catena del male si può interrompere.

Tutto questo ha innescato una serie di considerazioni che ricostruiscono senso, oltretutto in uno spazio che è quello comunque di un carcere, uno spazio pubblico nel senso che appartiene alla sfera della società, e al tempo stesso uno spazio che questa società nasconde e marginalizza.

Si immagina che le vittime, o così i media ci vogliono far credere, siano possedute soprattutto da un grande desiderio di vendetta, dall’odio e dalla rabbia, ora non è sempre così. Per me la parola chiave è complessità. Le cose sono molto più complesse, per esempio per me entrare in questo mondo della mediazione indiretta, entrare in contatto con queste persone, mi ha aiutata a mettere ordine in mezzo a dei sentimenti molto confusi e contrastanti, che io avevo rispetto alle persone che avevano colpito mio padre.

Perché vedete tante volte il reo non è una persona sola, un simbolo, un tipo. Mio padre è stato colpito da una banda di sei persone, che poi si sono comportate in maniera molto diversa, ed io in proposito prendo in prestito un bellissimo titolo di Primo Levi: “I sommersi e i salvati”.

 

Spezzare qualche anello della catena del male

 

Non faccio i nomi perché qui non è il caso, però voglio dirvi quanto diverse possano essere le tipologie dei comportamenti e delle reazioni e poi in che genere di tempesta ti trovi tu vittima, sballottata tra sentimenti fortemente contrastanti.

Io mi sono resa conto molto presto che le emozioni violente non sono coerenti e ci metti molto tempo a capirle. Vediamo per esempio due dei salvati, diversissimi, uno un killer, viene arrestato e collabora immediatamente con la giustizia, per cui usufruisce di grandissimi benefici di pena, quindi uno dei due killer di mio padre esce dal carcere meno di tre anni dopo la cattura. Questo scatena un conflitto tra il rispetto della legge e un senso di impunità che tu percepisci e che è molto faticoso da accettare, ma ancora più difficile da accettare è il fatto che questa persona poi ostenta platealmente una conversione religiosa, fa un ricco matrimonio, si costruisce una vita pubblica, in parte anche di grande successo e di grande affermazione.

Ora io nei gesti pubblici, perché poi il cuore dell’uomo lo conosce soltanto l’interessato, e per chi ci crede Dio, però nei gesti e nelle parole pubbliche di questa persona io – e molti altri – non ho visto quel cambiamento drammatico dell’animo di cui si parlava, ho visto un grande opportunismo.

L’altro “salvato” invece è stato in carcere un sacco di anni perché non ha collaborato con la giustizia. Questo ha generato in me un altro conflitto, perché la pena soddisfaceva, diciamo così, il mio senso di retribuzione, però urtava il mio senso di cittadinanza, perché comunque lui è stato in carcere perché non voleva denunciare dei compagni assassini, scusate la brutalità. Tuttavia quest’uomo ha fatto un percorso importante, ha usufruito dei benefici della legge Gozzini, perché è diventato un volontario con i tossicodipendenti, si è sposato e ha avuto una figlia, questo è molto bello. Voleva però incontrarci, essere perdonato e questo mi ha creato un altro conflitto, perché io non volevo, non mi sentivo di farlo, pensavo “Sono contenta che questa persona si sia riabilitata, ma io non so se ce la faccio a dargli anche la mia benedizione, a che può servire?”. Il perdono è un di più.

I sommersi invece. Uno risultava morto in carcere per un aneurisma nel 1984, invece poco tempo fa ho scoperto, da un giudice istruttore che me lo ha detto con una freddezza impressionante, “No, noi avevano cambiato la scheda, si è impiccato me lo ricordo benissimo”.

Ora questa notizia mi ha sconvolto, mi ha sconvolto sapere che c’era un dato, scusate l’ingenuità, di questa gravità, alterato con dei documenti pubblici, e poi soprattutto pensare che dall’omicidio di mio padre era venuto fuori un suicidio non mi ha dato nessun tipo di sollievo, e non perché sono buona, ma perché crea un’ulteriore distruzione di senso, ancora più male.

L’altro killer che ha collaborato con la giustizia, e dopo poco è uscito, non ha avuto una vita di gratificazione materiale, ha avuto una vita infame e veramente infelice, per cui oggi è un uomo distrutto, in crisi. Anche l’incontro con la disperazione, il senso del fallimento di quest’uomo non ha fatto che accrescere il mio senso di dolore.

Ecco, ho raccontato queste cose per farvi capire quanto essere qui questa mattina, ascoltare tutta questa galassia di discorsi, che raccontano di piccole cose concrete che si possono fare contro ogni forma di male, le testimonianze di percorsi e vie di uscita reali dalla trappola del male agito e subìto, che sono molto sentite, molto faticose, per me ha grande valore.

Ho visto anche qualcuno di Ristretti che si è commosso nel raccontare la propria esperienza, so che ha fatto fatica a raccontare.

Questo riduce un po’ il mio imbarazzo di essermi messa a piangere.

Ecco sono proprio queste le immagini concrete di percorsi attraverso cui si può spezzare qualche anello della catena del male, che da sola non produce altro che un’iterazione di sofferenze e di traumi a cascata, potenzialmente all’infinito.

Per finire, visto che si parla del peso dell’informazione nella costruzione del “mostro”, io volevo portare come contributo un pezzo di una poesia, secondo me splendida, che viene dall’antologia di Spoon river, Aner Clute:

“Più e più volte mi chiesero,

mentre mi pagavano birra o vino,

prima a Peoria e poi a Chicago,

Denver, Frisco, New York, dove vissi,

perché mai divenni una ragazza di vita,

e come avessi cominciato,

Bene, dicevo, per un abito da sera,

e la promessa di matrimonio d’un ricco signore 

(era Lucius Atherton).

Ma le cose non stavano così.

Immaginate che un ragazzo rubi una mela

dal cesto del droghiere,

e tutti incomincino a chiamarlo ladro,

il giornalista, il prete, il giudice e tutta la gente

“ladro”, “ladro”, “ladro”, dovunque vada.

E non può avere un lavoro, né procurarsi il pane

se non rubando, perciò, quel ragazzo ruberà.

È come la gente considera il furto della mela

che rende il ragazzo quello che è.

 

 

Ascoltando Silvia Giralucci, mi sembrava di vedere la bambina della mia vittima

 

Salvatore Allia

Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Ho partecipato al convegno dell’anno scorso, “Sto imparando a non odiare”. Parlare di quello che è il nostro reato, specialmente in casi come il mio, uno dei reati più gravi che è l’omicidio, sicuramente non è facile già se lo affronti con una sola persona, farlo di fronte a centinaia di persone diventa ancora più complicato. Poi se prima di me ha parlato Benedetta Tobagi e dopo parlerà Silvia Giralucci è ancora peggio.

Io purtroppo mi rispecchio in chi ha fatto del male a loro, perche quando ho commesso il mio reato, la persona che oggi non c’è più aveva una bambina di tre anni, esattamente l’età che avevano loro quando gli è stato ucciso il padre.

L’anno scorso ascoltando Silvia Giralucci, mi sembrava di vedere la bambina della mia vittima, che mi diceva direttamente quello che sta soffrendo, quello che ha sofferto, quello che non avrà mai più.

Non dimenticherò mai le parole che Silvia ha detto riferendosi a noi detenuti, che a volte ci lamentiamo perché facciamo i colloqui in spazi stretti e vediamo poche ore al mese i nostri figli. Lei suo padre non può più vederlo.

Io invece domani finirò la mia pena, potrò riabbracciare i miei figli, mia madre, potrò riavere una vita. Io mi sento come se fossi quello che ha creato il dolore alle persone, che oggi sono qui perché hanno cercato di spezzare la catena del male. E questo l’ho capito solo perché loro me ne hanno dato la possibilità.

Finisco, perché non riesco ad andare oltre, dicendo che porterò per sempre nel mio cuore, anche dopo la pena che presto o tardi finirà, le parole di Silvia Giralucci dell’anno scorso, e la ringrazio per questo.

 

 

Solo chi ti ha fatto del male può dirti qualcosa di significante per trasformare la tua sofferenza

 

Adolfo Ceretti

 

Quando nel 1995, assieme a Federica Brunelli e a tante altre persone di Torino, Bari e Milano abbiamo iniziato in Italia a parlare di mediazione tra rei e vittime ci guardavano quasi tutti con sospetto – e lo continuano a fare anche ora, se è solo per questo. Una cosa noi sostenevamo e continuiamo a sostenere. Forse, anzi senz’altro, si tratta di un paradosso: sostanzialmente, reputiamo che l’unica persona che possa dirti qualcosa di significante per trasformare radicalmente la tua sofferenza è esattamente chi ti ha fatto del male. Da questo paradosso è difficile saltare fuori…

Proposta in questi termini, tale affermazione può sembrare estremamente brutale. La sua genealogia aiuta però a stemperarne i toni. La provenienza di questa consapevolezza ha a che fare, infatti, con l’esperienza della “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” sudafricana, che è stata ed è la più grande esperienza di giustizia riparativa che sia mai stata portata a termine.

In Sudafrica vittime e carnefici hanno costruito – con la sapiente regia della Commissione – quella che Nelson Mandela ha poi ri-battezzato come “società arcobaleno”, un arcobaleno apparso all’orizzonte dopo 60 anni di Apartheid. Pur senza idea­lizzare quell’esperienza siamo convinti che tenendo conto di quanto è accaduto in Sudafrica i “perpetratori”, in determinate condizioni, possono divenire gli “interlocutori” più importanti per l’elaborazione del dolore delle vittime.

 

 

Chi ha creato dolore deve misurarsi proprio con il dolore degli altri

Le vittime dirette spesso non è possibile, non è opportuno incontrarle, ma comunque questa opportunità, e cioè vedersi sbattere in faccia il dolore degli altri, è una bella prova

 

Marino Occhipinti

 

Sarò breve perché dopo aver ascoltato Paola Reggiani mi è salito un nodo qui, e non vuole più scendere, e dopo aver ascoltato Benedetta sono proprio paralizzato.

Io credo che per chi ha creato dolore, per chi ha commesso reati che hanno veramente creato sofferenze come nel mio caso, sia a volte necessario misurarsi proprio con il dolore degli altri, perché stare solamente chiusi in una cella non so quanto sia utile.

Allora Ornella ha detto che il convegno dell’anno scorso ci ha fatto un grande regalo, il regalo di portarci Silvia come volontaria in redazione, e io mi stavo chiedendo se Silvia sia stata davvero un regalo, perché io Silvia la vedo ogni settimana, e parliamo tanto, ma quando parlo con lei guardo da un’altra parte, per cui non so quale sia il colore degli occhi di Silvia, e neanche quale sia il colore degli occhi di Benedetta, perché non riesco proprio a guardarle negli occhi.

Quindi questo è un grande regalo, e cioè che una persona che ha avuto il padre ucciso abbia la forza e il coraggio di fare volontariato in una redazione al cui interno ci sono anche molte persone che hanno ucciso, per me è qualcosa di assolutamente straordinario. Però, allo stesso tempo, è anche qualcosa che mi mette veramente in ginocchio, mi mette in ginocchio e mi rendo conto che faccio davvero fatica ad avere un rapporto alla pari con Silvia.

Parlo di Silvia perché ci vediamo molto più spesso, mentre con Benedetta ci siamo visti due volte, oggi è la terza, quindi io e Silvia parliamo ma mi sento sempre a disagio, faccio proprio fatica, mi rendo conto che c’è ancora uno scoglio, qualcosa che ci divide, magari in senso positivo e non necessariamente in senso negativo, ma il fatto che lei sia una vittima mi mette in enorme difficoltà.

Però voglio dire e ribadire che nonostante questa difficoltà bisogna necessariamente misurarsi con lo strazio che si è procurato, anche se lo strazio, il dolore e la devastazione li abbiamo procurati non direttamente a loro ma ad altre persone. Perché a volte le vittime dirette non è possibile, non è opportuno e forse non è neanche bene incontrarle, ma comunque questa opportunità, e cioè vedersi sbattere in faccia il dolore degli altri, è una bella prova, è una cosa che io non so bene cosa dia a loro, a Silvia e Benedetta, ma a noi dà tantissimo ed è davvero fondamentale.

 

 

Leggere la realtà “con gli occhi del nemico”

Ascoltare le storie e vivere l’umanità di questi detenuti ha risvegliato in me il desiderio di leggere sempre l’animo umano, anche quello che può apparirci più abietto, sotto diversi punti di vista

 

Silvia Giralucci

oggi volontaria della redazione di Ristretti Orizzonti,

aveva tre anni quando, nel 1974, le Brigate Rosse le uccisero il padre

 

Marino Occhipinti è la persona che ha scardinato le mie certezze. La sua umanità e la sua sofferenza profonda, senza tentativi autoassolutori, mi hanno messo di fronte a un personaggio per me inedito: l’assassino che ha compiuto un reale percorso di revisione critica del suo passato e porta ogni giorno sulle spalle il peso del male inflitto alle vittime e alla sua famiglia. L’incontro con lui ha scalfito anche quella che per me è sempre stata una granitica certezza: il non volere nessun contatto in nessun modo con gli assassini di mio padre. Non è che io oggi abbia il desiderio di incontrarli, ma mi sono chiesta perché conoscere Marino e altri detenuti condannati per omicidio abbia mutato il mio atteggiamento.

Tra le risposte che mi sono data c’è il fatto che crescere in situazioni disgraziate come sono state quelle mia e di Benedetta, significa diventare contratti, fisicamente e mentalmente, sempre sul chivalà, sempre pronti e tesi al prossimo dolore… Alla lunga si diventa paurosi a porsi in modo pieno e lucido davanti al prossimo, poco disponibili ad esporsi alla natura composita delle persone.

Quel che ho trovato in questa redazione – e mai in altre – è un ascolto attento e un rispetto dell’altro che esercitati con costanza possono dar vita a una capacità di cambiare la prospettiva in cui si è bloccati.

Le vittime sono spesso impiegate per orientare politiche penali conservatrici. Usate ed esibite come rappresentazione “in carne ed ossa” del problema sicurezza, utilizzate per creare consenso su un inasprimento delle pene con un impiego più esteso della detenzione e un minor investimento nei programmi di riabilitazione per gli autori di reato. In questa visione la sensibilità verso le vittime significa automaticamente essere inflessibili con gli autori di reato. E la richiesta di riconoscimento della vittima di reato, quando non viene disattesa e delusa, viene strumentalizzata. Una mediazione indiretta come quella che è avvenuta all’interno di Ristretti Orizzonti ha consentito a me di tramutare il soffrire in agire, di scacciare la nebbia che da sempre staziona nella mia testa, per incominciare un percorso di riappropriazione dell’incontro con l’altro.

In questa redazione Ornella è riuscita a far vivere insieme storie antitetiche di persone diverse e a contaminarle. Ascoltare le storie e vivere l’umanità di questi detenuti ha risvegliato in me il desiderio di leggere sempre l’animo umano, anche quello che può apparirci più abietto, sotto diversi punti di vista.

Se proviamo a conoscere l’altro dall’interno – anche se l’altro in questione è o assomiglia al nostro nemico – non possiamo più essere completamente indifferenti a lui, siamo costretti a riconoscerne il diritto all’esistenza, alla storia, alla sofferenza e alle speranze.

Pensare all’individualità delle persone che ho conosciuto qui dentro non significa in alcun modo giustificarle. L’ho detto lo scorso anno, e continuo a essere convinta che un assassino, anche quando ha finito di scontare la sua pena, dovrebbe portare dentro di sé un peso almeno pari a quello che porta la vittima. Considero ancora offensiva la visibilità cercata e trovata da diversi ex terroristi.

Cercare di comprendere le persone che ho conosciuto qui dentro significa invece tentare di capire la loro visione del mondo, la storia che narrano a loro stessi. Cercare di leggere, per usare il titolo di un bel saggio di David Grossman, la realtà “Con gli occhi del nemico”.

E quando riusciamo a leggere il testo della realtà con gli occhi del nemico, allora quella realtà in cui noi e il nostro nemico viviamo diventa improvvisamente più complessa e realistica, possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo.

Sul cartellino che indosso quando entro qui dentro c’è scritto “volontario”, una parola che ha una connotazione di altruismo, ma sono sicura che qui è più quel che ho ricevuto che quel che ho dato.

 

 

La responsabilità la costruiamo incrociando lo sguardo e il volto degli altri

 

Adolfo Ceretti

 

A Marino Occhipinti desidero far osservare che quando ha interloquito con Silvia e Benedetta non è riuscito, se non di sfuggita, a guardarle negli occhi. Ciò che Marino ha sollevato, con il suo non-sguardo, è un tema di riflessione filosofica, affrontato magistralmente da Emmanuel Levinas. Levinas insegna che la responsabilità la si costruisce incrociando lo sguardo e il volto degli altri. Marino sta provando a imboccare questo sentiero, importantissimo per il suo percorso, e ci ha appena comunicato il punto del suo cammino a cui è arrivato.

 

Ora interverrà Antonella Mascali. Antonella ha mosso i primi passi nel giornalismo quando era ancora studentessa al Ginnasio, nella redazione del mensile “I Siciliani”, fondato da Pippo Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984 a Catania. Antonella si è poi trasferita a Milano, dove ha studiato all’Università. Si è laureata con Nando Dalla Chiesa ed è poi diventata giornalista. 

Come inviata di Radio popolare ha seguito a Palermo i fatti più tragici degli anni 90: l’omicidio di Libero Grassi e le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Per introdurre il suo intervento, che racconta le esperienze di Nisida, dove le vittime fanno prevenzione con gli autori di reato, vorrei leggere una brevissima frase, tratta dall’intervista che Nando Dalla Chiesa le ha rilasciato per il suo libro “Lotta civile”: “Chi subisce la violenza non trova grande accoglienza nella società, spesso conduce una lotta solitaria. Mentre fa questa battaglia si interroga su quale sia l’etica del Paese, si interroga sul perché, invece di essere aiutato, si trovi ostacolato, ma va avanti lo stesso come fanno molti famigliari”.

 

 

Le testimonianze dei familiari delle vittime di mafia

“Un giornalismo fatto di verità frena la violenza e la criminalità”

Questa frase di Pippo Fava io l’ho scolpita in testa, dovrebbe essere questo a muovere tutti i giornalisti

 

Antonella Mascali

Giornalista di cronaca giudiziaria di Radio Popolare, autrice di “Lotta civile”

Ascoltando quelli che mi hanno preceduto con delle testimonianze così importanti, ho pensato che se questo fosse un Paese normale, il dibattito che c’è stato finora doveva essere almeno trasmesso dalla TV pubblica in prima serata, invece non ci sarà mai una trasmissione così. Lo dico perché c’è stata una dimostrazione di senso civico di chi vive qui dentro e di chi viene qui dentro, una disponibilità ad avere uno scambio, un confronto difficilissimo, che servirebbe perché non ci fosse in questo momento nel nostro Paese l’ondata di giustizialismo e di caccia allo straniero che invece c’è, con un forte richiamo a tutti gli istinti più bassi, che fanno parte purtroppo della natura umana.

Ho ascoltato anche con molta attenzione le critiche alla categoria a cui appartengo, che è quella dei giornalisti, sono critiche che condivido, perché ci vogliono rispetto e professionalità per raccontare le cose come stanno.

Il professor Ceretti ha citato Pippo Fava, ucciso nell’’84 a Catania, io non l’ho potuto conoscere personalmente perché ero troppo piccola, ma siccome ero già fissata con il giornalismo è stato per me un esempio. Pippo Fava diceva: “Io ho un concetto etico del giornalismo, un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità”.

Questa frase io l’ho scolpita in testa, ogni volta che scrivo qualcosa o qualcosa va in onda, perché lavoro a Radio popolare, dovrebbe essere questo a muovere tutti i giornalisti, perché abbiamo una grossa responsabilità, che è quella di concorrere alla formazione dell’opinione pubblica.

Ho scritto il libro”Lotta civile”e ci tengo a dire che la prefazione è di Luigi Ciotti, presidente di Libera, perché volevo far capire che cosa significa vivere in questo Paese, con la presenza della criminalità organizzata, che si chiami cosa nostra, ndrangheta, criminalità pugliese, camorra, poco importa. Volevo farlo capire perché fino a quando ci saranno la criminalità organizzata e il sistema mafioso in questo Paese, noi non saremo un Paese con una democrazia compiuta.

Per cercare di far capire questo a più persone possibile mi sono detta che la cosa migliore fosse ascoltare chi è vittima in prima persona di questa realtà tutta italiana nel mondo occidentale.

Quindi ho scelto di far parlare chi non ha mai la parola, e sono i famigliari delle vittime di tutte le mafie, che sono anch’esse stesse vittime, perché hanno le vite distrutte eppure hanno questa forza straordinaria di trasformare il loro lutto, il loro trauma, il loro dolore, in impegno civile. Hanno la mia ammirazione personale e sconfinata, perché io ho toccato con mano, stando molto con loro, che cosa vuol dire avere un trauma di quel genere.

Daniela Marcone, la figlia del direttore dell’ufficio registro, ucciso a Foggia a metà degli anni novanta, mi ha detto: “Mio padre non è morto per un incidente, non è morto per una malattia, è stato ucciso da un altro essere umano, lui che era un filantropo, e questo non riesco ad accettarlo.”

Molti famigliari di vittime di mafia non hanno avuto neanche giustizia, penso a Mauro Rostagno, ucciso vicino a Trapani nell’’88, non c’è stato uno straccio di processo neanche per gli esecutori materiali, sua figlia Maddalena Rostagno, che ho intervistato, mi ha detto, “Per me lo Stato è stata la polizia che è andata ad arrestare mia madre con l’accusa di favoreggiamento nell’omicidio di mio padre, oppure la polizia che viene a casa mia per perquisirla”, lei era una ragazzina allora.

Un grande problema anche dei famigliari delle vittime di mafia è la solitudine che hanno subito in questi anni, rispetto alle istituzioni, perché, come mi dicono tanti di loro, dopo i primi due giorni spariscono tutti.

Se non ci fosse stato quello che viene definito un sacerdote di frontiera, secondo me semplicemente una persona straordinaria come Luigi Ciotti, in questo Paese i famigliari di vittime di mafia non avrebbero avuto neppure un sostegno anche psicologico, che manca del tutto.

Volevo approfittare, nel senso buono del termine, della presenza in questa giornata di Benedetta Tobagi e Silvia Giralucci per parlare di una cosa che sta molto a cuore ai famigliari delle vittime della criminalità organizzata, che è il riconoscimento da parte dello Stato dell’uguaglianza delle vittime del terrorismo e delle vittime di mafia, così come dei famigliari delle vittime di terrorismo e di mafia, perché non ci debbano mai più essere vittime di serie A e di serie B.

Tutte queste persone sono state uccise perché hanno fatto il loro lavoro e sono state uccise anche per ciascuno di noi.

Ma vorrei molto che ci fosse, oltre alla giornata per ricordare le vittime del terrorismo, anche la giornata delle vittime di mafia e dei loro famigliari che vogliono questo riconoscimento da parte dello Stato.

Questo chiaramente non è sufficiente per combattere la mafia, però penso sia un segnale importante. Mi ha detto Stefania Grasso, figlia di Vincenzo Grasso, ucciso a Locri, perché commerciante che si è rifiutato di pagare il pizzo: “Una delle cose che più ferisce noi famigliari delle vittime di mafia è che lo Stato fa differenza tra le sue vittime e la criminalità organizzata per le sue vittime non fa differenza, e questo è inconcepibile”.

 

I famigliari delle vittime della criminalità organizzata credono molto nel recupero dei giovani

 

Passando ora alle testimonianze dei famigliari delle vittime della criminalità organizzata che vanno in carcere, volevo prima di tutto dire quanto sia difficile per loro, solitamente vanno nelle carceri dove ci sono detenuti minori, perché per loro è più “semplice”, cioè credono molto nel recupero dei giovani, degli adulti meno, però c’è una specificità in questo caso, vorrei che la capissero soprattutto gli ospiti detenuti: i detenuti per associazione mafiosa, sono Totò Riina, Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, per citare quelli più conosciuti, Schiavone detto Sandokan, e sperare in un loro recupero, lo dico qui senza ipocrisia, perché questa è una giornata in cui ci si dice le cose in faccia, è veramente impossibile, per questo i famigliari che racconto in questo libro credono molto di più nel lavoro con i giovani, per toglierli dalla strada e far sì che non siano la manovalanza della criminalità organizzata.

E tutto questo lo fanno nonostante la rabbia e il dolore, per esempio Elena Fava, la figlia maggiore di Pippo Fava, mi dice: “Io sono madre e dico che la cosa peggiore che possa capitare ad una persona è subire la perdita di un figlio, se in più il figlio viene ucciso, la sua scomparsa ti fa impazzire, se penso al dolore sordo di mia nonna e di mio nonno, se ricordo mio nonno piegato in due da un pianto irrefrenabile ai funerali di papà, per un momento penso che vorrei fare del male a Santapaola e a Ercolano, in tutti questi anni ho lavorato su me stessa per non odiare, ma la rabbia c’è e non la puoi cancellare, la puoi solo trasformare in positivo, in lotta per cambiare la realtà”.

E poi Dario Montana, che è il fratello del commissario Beppe Montana, capo dalla squadra catturandi di Palermo ucciso nel 1985, lo scorso luglio in occasione dell’anniversario dell’uccisione del commissario Montana, Dario e Gigi Montana sono entrambi fratelli del commissario ucciso, si ritrovano davanti una delle persone che è stata condannata per favoreggiamento per l’omicidio di Beppe Montana, che vuole parlare con loro, e Dario non gli dà un pugno, non gli sputa in un occhio o lo caccia via, lo ascolta, questo mi ha molto colpito.

E gli ho chiesto allora, non per pruderie, per curiosità morbosa, ma perché volevo capire, com’è che ha avuto la forza di trovarsi di fronte a uno dei carnefici di suo fratello e di ascoltarlo, mi ha risposto così: “So la differenza che c’è tra un Toto Riina e un Antonio Orlando (che è il signore in questione), le persone spesso non possono scegliere quando vivono gomito a gomito con la mafia, ciò non toglie che sia stata sacrosanta la condanna per favoreggiamento, l’averlo ascoltato non ha nulla a che fare con il perdono, io non perdono nessuno, ma sono differente da loro. Aver ascoltato Orlando non è stato più doloroso che sentire colleghi di mio fratello, magari diventati questore o prefetto, che mi hanno detto “glielo dicevo a Beppe che doveva stare più calmo” e io penso che gente come loro abbia contribuito all’uccisione di mio fratello”.

Il problema della lotta alla mafia, il fatto che io abbia voluto intitolare questo libro “Lotta civile”, vuol dire che ancora siamo in una fase di lotta, perché se il terrorismo nella sua sostanza, nella sua quasi totalità, per fortuna è stato sconfitto, questo è avvenuto perché lo Stato ha voluto sconfiggerlo, perché c’è stata la volontà politica e la consapevolezza e la maturità della società civile.

Per quanto riguarda la lotta a tutti i tipi di mafia, questa volontà politica e istituzionale c’è a fasi alterne, solo quando c’è un morto ammazzato, “eccellente” all’anno, come diceva purtroppo Giovanni Falcone, e poi perché ci sono le connivenze di settori della politica, del mondo economico con chi fa parte della criminalità organizzata, e ancora perché c’è una società civile, che solo in una parte ancora minore vuole davvero la sconfitta della criminalità organizzata, quindi la cosa è più complessa in questo senso, ecco il perché delle parole di Dario Montana.

Tra l’altro Dario Montana è uno dei famigliari di vittime di criminalità organizzata che fa volontariato nel Carcere di Catania con i ragazzi e a questo proposito volevo dire che ne ho conosciuto uno a Napoli, alla giornata della memoria e dell’impegno organizzata dall’associazione Libera, userò un nome di fantasia, Giovanni. Giovanni, che ha un passato di rapinatore, uno zio all’ergastolo, un altro zio che deve scontare una condanna per omicidio, ha avuto proprio una trasformazione straordinaria, da quando ha partecipato anche a questa giornata a Napoli, intanto è diventato amico del figlio di una vittima della criminalità organizzata e questa la trovo una cosa straordinaria.

A un certo punto ha preso il pass di Libera, se lo è messo al collo e ha cominciato a fare volontariato anche lui, voleva partecipare attivamente per organizzare, non so portare le sedie dove c’era bisogno, distribuire pasti e cose del genere, poi ha voluto leggere il libro che ho scritto, per capire. In tutto questo non mi ha mai rivolto la parola per giorni interi, mi mandava solo dei messaggi per interposta persona. Ad un certo punto invece me lo sono ritrovato ad una presentazione del libro, si è portato dietro un suo amico, diciamo del suo ambiente di origine, ed è una delle cose che più mi ha commosso in assoluto.

Quando è tornato nella sua città la prima cosa che ha fatto è stata cominciare a cercarsi un lavoro, appena finisce la pena alternativa dovrebbe fare l’elettricista, nel frattempo è seguito da Dario e dagli altri. Questo lo dico perché è giusto che si dicano anche le cose positive ed è giusto far capire che se ognuno di noi fa, nel proprio piccolo, secondo le proprie possibilità, il proprio ruolo, la propria parte, le cose possono cambiare, anche se ci vuole tanto tempo, però come diceva Giovanni Falcone: bisogna fare le cose perché è giusto farle.

Volevo poi leggervi anche una frase di una lettera di Viktor che era detenuto nel carcere di Nisida, a Napoli, adesso lavora in una cooperativa del nord, ma prima di trasferirsi ha voluto partecipare alla manifestazione nazionale antimafia, ci teneva: “Alla fine della cerimonia (si riferisce alla cerimonia in cui ogni anno grazie a Libera viene scandito l’elenco delle vittime di tutte le mafie), è venuto il signor Lorenzo Clemente che mi ha stretto e mi ha riempito di pugni nello stomaco, all’inizio io non capivo, e pensavo che lui credesse che fossi stato io ad uccidergli la moglie.

Quando poi mi ha abbracciato forte con le lacrime agli occhi e mi ha detto che avevo letto il nome della moglie e che adesso avevo una grossa responsabilità, allora mi sono accorto che avevo sbagliato a capire.

Anche il fratello di Roberto Antiochia, il signor Alessandro ci ha detto delle belle parole ed è rimasto contento che noi abbiamo adottato suo fratello come vittima della mafia, siamo rimasti anche noi contenti quando ci ha detto che anche lui ha adottato noi.

Anche le altre persone che erano lì e avevano perso i loro cari, avevano negli occhi tanto dolore ed io mi sono sentito tanto vicino a loro”.

Uno dei progetti di legalità di Libera è quello di fare adottare una vittima di mafia ai ragazzini detenuti, poi alcuni hanno il permesso, in base a quello che dispone il direttore o la direttrice dell’istituto penitenziario, di venire a delle manifestazioni.

Fra i volontari c’è anche Lorenzo Clemente, il marito di Silvia Ruotolo che è stata uccisa negli anni 90 a Napoli durante una sparatoria tra camorristi, è stata colpita da un proiettile, sotto gli occhi dei suoi figli. Francesco che teneva per mano ed aveva 5 anni, ha dovuto fare tanta terapia psicologica fino all’anno scorso, adesso ha smesso, ha 18 anni ed è un ragazzone meraviglioso. Alessandra, che aveva 10 anni e ha scritto un tema incredibile pochi giorni dopo l’uccisione di sua madre durante l’esame di quinta elementare, adesso sta studiando giurisprudenza, ha 22 anni e vuole diventare magistrato.

È anche lei impegnata in prima persona per la legalità, soprattutto con i ragazzi, e ha fatto un discorso in piazza del Plebiscito a Napoli quest’anno il 21 marzo, che è un esempio straordinario di questo percorso duro, faticoso di chi è famigliare di vittima, percorso straordinario veramente in grado di segnare e cambiare persone anche con un passato duro, come quello di chi vive qui dentro.

Per esempio Alessandro Antiochia, che è fratello di Roberto Antiochia ucciso insieme al commissario Cassarà a Palermo nell’’85, va pure lui in carcere a fare volontariato e mi dice: “Questi ragazzi si sono resi conto che hanno sbagliato e che il carcere è terribile, adesso studiano lavorano all’orto e con la ceramica, imparano un mestiere, vogliono lasciare la droga, la malavita e i soldi sporchi. Non è facile cancellare un passato fatto di rapine, spaccio e perfino omicidi, perché dopo gli incontri con noi tornano in cella, fianco a fianco con chi è camorrista e non ha alcuna intenzione di andare dalla parte giusta; vengono sottoposti ad un lavaggio del cervello, ogni volta noi dobbiamo verificare a che punto è il loro percorso di legalità, a volte fanno passi indietro, ma recuperano. Per noi, anche se togliamo dalla strada soltanto uno di loro, è una grande vittoria”.

Concludo dicendo che questi famigliari, con cui sono in contatto, fanno tutti i giorni una battaglia per la legalità e la giustizia vera in questo Paese, che vuol dire anche giustizia sociale, perché se non c’è la giustizia sociale la mafia non potrà mai essere debellata.

Anche se non hanno avuto la giustizia, quella con i processi e le condanne, oppure l’hanno avuta ma solo in parte, perché i mandanti non sono stati scoperti tutti, per loro la cosa più importante è che si creino le condizioni in questo Paese perché non accada più a nessuno quello che è accaduto ai loro cari e a loro stessi.

 

 

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