Le leggi emergenziali

 

Leggi emergenziali e carcerizzazione dei soggetti più deboli

Non è tollerabile che si legiferi sulla spinta di emergenze

È necessario riportare l’emergenza entro confini ben determinati

e soprattutto entro limiti cronologici

 

di Laura Cesaris

ricercatrice di Procedura penale dell’Università di Pavia

professore a contratto di Diritto e Procedura penale

dell’Università Bocconi di Milano

 

Parlare di leggi emergenziali può forse apparire fuori tema, essendo la discussione focalizzata sulle proposte di riforma del Codice penale e dell’Ordinamento penitenziario. Ma viene spontaneo affermare che il carcere soffre di emergenze sue proprie e riflette quelle esterne: basti pensare, per fare qualche esempio, alla carenza di risorse finanziarie e conseguentemente di mezzi e persone, al problema della salvaguardia della salute, e connesso a questo il problema dei suicidi, o al sovraffollamento. Per risolvere quest’ultimo problema (e indirettamente anche altri) si è varato in tutta fretta con la legge 31 luglio 2006, n. 241 un provvedimento di indulto, che dichiaratamente mira a porre rimedio ad una situazione insostenibile, ai limiti della legalità, e si colloca fra gli interventi emergenziali. Ma un tale provvedimento non fa altro che confermare una impostazione carcerocentrica, dato che non ha inciso sulle cause che determinano il sovraffollamento. Se è pur vero che il quantum condonato è ampio e che per converso è limitato il novero delle esclusioni, tuttavia è facilmente prevedibile che nel medio periodo i numeri torneranno a salire se non si interverrà sul diritto penale sostanziale e sul sistema delle misure alternative, giacché non si può ignorare che più del 50% delle condanne a pena detentiva non sospese condizionalmente sono già espiate in regime di misura alternativa alla detenzione (affidamento e detenzione domiciliare) e che quindi maggiore è il numero degli ammessi all’area esterna rispetto a quello dei condannati detenuti. Da questi dati bisognava prendere le mosse per rendere più efficace ed efficiente il sistema della cosiddetta area penale esecutiva esterna, investendo più risorse economiche (e conseguentemente destinando maggiori persone e mezzi).

Questa considerazione porta con sé l’inevitabile constatazione che qualunque ipotesi di riforma dell’Ordinamento penitenziario ha necessariamente come punto di partenza il tessuto normativo oggi vigente, che è tale per effetto di una serie di interventi spesso emergenziali, di aggiustamento di questa o quella disciplina, senza che spesso purtroppo vi sia stato un disegno organico a guidare e coordinare quegli interventi. Per questo mi pare metodologicamente scorretto, per non dire sbagliato, pensare ad una riforma dell’Ordinamento penitenziario sganciata, avulsa dalle contestuali riforme del sistema sanzionatorio e del processo penale. Una simile operazione si tradurrebbe nella risoluzione di problemi contingenti, non di quelli di fondo, sarebbe un’operazione di facciata, diretta a risolvere le conseguenze più visibili e più pesanti dei problemi che affliggono il sistema penitenziario.

Il settore penalprocessualistico, più di altri, è stato oggetto di numerosi interventi, indipendentemente dal colore del governo e del parlamento in carica: accentrare l’attenzione su quelli che hanno direttamente investito l’esecuzione penale sarebbe a mio avviso fuorviante, posto che si va in carcere anche e spesso a titolo di custodia cautelare, come confermano le recenti statistiche del Dap, secondo cui al 31 dicembre 2006, anche a causa dell’indulto, il numero degli imputati detenuti è pari al 57% della popolazione reclusa, nettamente superiore a quello dei condannati (40% circa). Basterà in proposito citare una norma per tutte, l’art. 275 comma 3° del Codice di procedura penale, le cui modifiche sono sintomatiche delle diverse esigenze che di volta in volta sono state ritenute meritevoli di attenzione. E ancora si può ricordare che si è intervenuti sul fronte dell’immigrazione e della criminalità di strada, si sono rese fattispecie autonome il furto in appartamento e il furto con strappo (prima previste come aggravanti) con la conseguenza di un inasprimento sanzionatorio e della operatività dell’arresto obbligatorio in flagranza: la conseguenza è la carcerizzazione dei soggetti più deboli, senza che si siano varate politiche di sostegno verso tali soggetti. Una analisi condotta dunque solo in stretta relazione con il sistema dell’esecuzione sarebbe parziale e produrrebbe un risultato incompleto e lacunoso.

Mi pare opportuno premettere alcune considerazioni di carattere generale, perché le espressioni «leggi emergenziali» ed «emergenza», sono state usate troppo e a sproposito: basti pensare che sono state etichettate come «leggi emergenziali» anche alcune delle leggi varate nella scorsa legislatura quando in realtà si trattava di leggi ad personas, a meno di non ritenere che con il termine usato si intendesse dire che tali leggi avevano risolto le emergenze di taluni.

Con il termine «leggi emergenziali» si è indicata per moltissimi anni, sino a che è diventato sinonimo, la legislazione prodotta negli anni 80 per combattere il terrorismo, un tema che ha suscitato periodicamente intensi dibattiti: basti pensare ad esempio che alla fine degli anni 90 si discuteva di come chiudere il periodo degli anni di piombo e a quali condizioni, ed il dibattito prendeva avvio dalle leggi emergenziali varate per combattere il terrorismo. Gli anni di piombo erano superati storicamente e socialmente, dato che il terrorismo pareva un fenomeno risolto, oggi una discussione sulle leggi emergenziali ha basi diverse perché si assiste ad un rigurgito di terrorismo rosso e a operazioni di terrorismo internazionale.

 

Provvedimenti mossi dall’emotività del momento

 

Alla fine degli anni 90 coloro che erano stati condannati sulla base delle leggi emergenziali a pesanti condanne avevano quasi interamente scontata la pena: il problema era soprattutto politico e sociale, ovvero chiudere un periodo di grandi tragedie, che ci hanno segnato profondamente. Ma l’errore commesso allora (e si ripropone tuttora) è quello di aver avuto più attenzione per coloro che si erano macchiati di gravissimi delitti che non per le vittime. Il problema era di contemperare un bisogno di memoria con quello di libertà.

Superata l’emergenza della lotta armata, degli anni di piombo, in realtà è rimasta l’emergenza da un lato contro i diversi, i tossicodipendenti, gli extracomunitari, dall’altro contro le organizzazioni mafiose e la criminalità organizzata in genere.

Oggi dopo l’11 settembre 2001 una nuova emergenza investe non solo l’Italia e viene ad incidere pesantemente sui diritti umani. Si pensi al fenomeno dei voli segreti e delle prigioni segrete esistenti in vari Paresi europei, come ha accertato una Commissione d’inchiesta voluta dall’Assemblea parlamentare europea, avviata nel 2005 e conclusa recentemente con una Risoluzione che accerta appunto l’esistenza di tali prigioni e stigmatizza la prassi instauratasi .

Ho introdotto una nuova espressione «emergenza», che assume un duplice significato, quello di circostanza, di difficoltà imprevista, di situazione critica ed in quest’ultima accezione si associa spesso ad altri termini: emergenza mafia, emergenza violenza negli stadi, emergenza rifiuti, emergenza siccità… e si potrebbe continuare; ma non mi risulta che sia mai usata per un fenomeno di una gravità inaudita, quello delle morti sul lavoro o comunque degli incidenti sul lavoro, che ha raggiunto dimensioni che non sono tollerabili in un paese civile – o che si proclama tale – e soprattutto non mi pare che sia stato mai adottato alcun provvedimento. Il termine «emergenza» ha anche il significato di ciò che emerge, che si segnala, che si pone all’attenzione e quando un problema si pone all’attenzione con maggior frequenza, con maggior virulenza o con modalità più evidenti, si assiste al proliferare di provvedimenti adottati con decretazione d’urgenza, spesso non riconducibili ad un disegno unitario razionale e logico, ma mossi dall’emotività del momento.

Se si analizzano le leggi emergenziali succedutesi in questi 30 anni in ambito penal-processualistico si può constatare come si tratti di interventi che sono stati reiterati: il che porta alla conclusione che queste leggi sono lo standard. Ma allora sorge spontanea la domanda in merito a quale sia lo stato ordinario.

Un’indicazione può ricavarsi dall’art. 15 Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), che consente agli Stati contraenti di derogare alle obbligazioni assunte a tutela dei diritti fondamentali sanciti nella Cedu in presenza di circostanze eccezionali. Si tratta di una norma fondamentale, di una norma – chiave del sistema, diretta ad impedire che la sospensione dei diritti e delle garanzie riconosciuti dalla Cedu sia usata in maniera impropria per aggirare il sistema. Le circostanze eccezionali, in presenza delle quali opera l’art. 15, sono la guerra e un «altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione». Per quanto concerne la guerra non vi sono problemi interpretativi: è intesa nelle sue diverse forme compresa quella civile, forse oggi si userebbe l’espressione “conflitto armato”. La nozione di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» è di più difficile determinazione: non vi è dubbio che debba trattarsi di un pericolo di gravità pari a quello della guerra, come risulta dall’aggettivo «altro» preposto al termine pericolo, e dunque di una gravità eccezionale, posto che la stessa Cedu prevede restrizioni ad alcuni diritti in caso di pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza (nell’art. 8, riguardante il diritto al rispetto della vita privata e familiare e nell’art. 11, relativo alla libertà di riunione e associazione), differenziando queste ipotesi da quelle dell’art. 15 Cedu, che comporta non semplici restrizioni bensì deroghe alle disposizioni. Si noti che vi sono diritti garantiti in modo assoluto (il cosiddetto nocciolo duro), che non possono in alcun modo subire limitazioni: il diritto alla vita (art. 2), il divieto di tortura (art. 3), il divieto di schiavitù e servitù (art. 4), l’irretroattività della legge penale (art. 7), cui vanno aggiunti il divieto di deroghe espresso nell’art. 3 Protocollo n. 6 relativo alla pena di morte, e il divieto di un secondo giudizio sancito nell’ art. 4 Protocollo n. 7.

Il provvedimento di deroga deve riguardare tutta la popolazione, non una parte di essa o del territorio, e non può avere finalità preventiva, cioè per evitare l’aggravarsi della situazione. Irrilevante è l’origine del pericolo: ad es. le deroghe sono state motivate con l’esigenza di contrastare le minacce che venivano da gruppi terroristici (come nel caso della Gran Bretagna per combattere l’Ira), ma anche eventi naturali potrebbero giustificare il ricorso all’art. 15. Si può allora dedurre che il meccanismo delineato nell’art. 15 riguardi Stati caratterizzati da processi economici, sociali e politici stabili, così che le situazioni di emergenza sono residuali e limitate nel tempo, cioè veramente eccezionali. L’art. 15 segna lo spartiacque fra situazioni di normalità e situazioni emergenziali che giustificano la deroga, la quale dunque deve essere circoscritta nel tempo e deve rappresentare l’extrema ratio, cui ricorrere quando gli altri provvedimenti non hanno raggiunto lo scopo.

Sennonché questa linea tratteggiata nell’art. 15 non è sempre rispettata, dato che gli Stati potrebbero fare ricorso alla deroga reiteratamente e dunque vanificare la garanzia (come è accaduto negli anni 80 in Turchia); per converso non è neppure accettabile che uno Stato eviti il controllo ignorando la previsione dell’art. 15: il che è avvenuto, a mio avviso proprio nel nostro Paese negli anni 70 in relazione a provvedimentI adottati per combattere il terrorismo e ancora negli anni 90 in relazione al decreto ministeriale sospensivo delle regole trattamentali ex art. 41-bis Ordinamento penitenziario. Quest’ultima previsione è l’esempio calzante di emergenza fisiologica, essendo stata introdotta “a tempo”, ma è parimenti esempio di emergenza patologica perché la sua vigenza è stata reiterata, fino a che è stata incistata nel corpo penitenziario.

 

L’aggravamento delle sanzioni per i reati forieri di maggior allarme sociale

 

Se dunque si fa riferimento all’art. 15 Cedu, in realtà se ne deduce che si è fatto ricorso a provvedimenti cosiddetti emergenziali laddove non esistevano i presupposti di cui all’art. 15, ma incidendo profondamente sui diritti de libertate del cittadino. Allora è necessario riportare l’emergenza entro confini ben determinati e soprattutto entro limiti cronologici.

Se si analizzano le leggi emergenziali in ambito penalprocessualistico si constata altresì che si tratta di interventi che introducono o modificano norme dirette a perseguire i reati secondo degli schemi che si sono consolidati e che presentano le seguenti caratteristiche:

  1. Si è determinato un aggravamento della sanzione per taluni reati, ovvero per quelli di volta in volta forieri di maggior allarme sociale, con creazione di nuove figure criminali (terroristi, tossicodipendenti, immigrati, disturbati mentali, no global). A ciò ha corrisposto una attenuazione, se non addirittura la cancellazione, delle norme penali volte a reprimere la criminalità dei colletti bianchi. L’esperienza di Tangentopoli è lontana, se ne è persa memoria, tanto che se si usa questa espressione molti giovani non sanno assolutamente a cosa si riferisca, e soprattutto non ha insegnato pressoché nulla, dato che si sono riscritte le regole del falso in bilancio, di fatto eliminandolo.

  2. Le leggi emergenziali si accompagnano a politiche dell’ordine pubblico che procurano o fingono di procurare nuove risorse materiali, ma soprattutto elevano la soglia di attenzione delle forze di polizia verso certi comportamenti (che non necessariamente costituiscono reati). Si pensi, per fare un esempio recentissimo, al patto per la sicurezza siglato tra i sindaci delle maggiori città ed il Ministro degli Interni, che comporta la promessa di più mezzi, di più uomini, di più risorse. La conseguenza assai pericolosa è che viene meno in tal modo la distinzione fondamentale tra comportamenti penalmente rilevanti e comportamenti solo antisociali.

  3. Queste leggi danno corpo alle esigenze di sicurezza e giustizia presenti nella società attraverso un linguaggio, che è sempre più ricorrente nei discorsi dei politici, e che spesso si riduce a meri slogans (uno per tutti, tolleranza zero) facilmente comprensibili dall’opinione pubblica ed anzi di facile presa, con l’intento evidente di raccogliere consensi. Questo fenomeno è molto diffuso anche in altri Paesi, e con effetti ben più gravi: si pensi ad esempio alla Francia, dove le campagne presidenziali del 2002 e del 2007 sono state caratterizzate proprio dal tema della sicurezza e del contrasto alla delinquenza, ed hanno portato alla emanazione di leggi particolarmente dure e repressive, specie nei confronti della devianza minorile. Il nemico è sempre più o meno lo stesso (tossicodipendenti, emarginati, immigrati non necessariamente senza permesso di soggiorno, terroristi). La gestione del conflitto sociale diventa una questione di ordine pubblico, gli interventi per affrontare e cercare di risolvere il disagio sociale si tramutano in questioni di ordine pubblico.

 

Una nuova attenzione alla questione penitenziaria in chiave tutta restrittiva

 

Se si passa ad esaminare gli interventi normativi riguardanti l’ambito più strettamente penitenziario, si può subito rilevare che la riforma del 1986 è il risultato di una legge approvata in Parlamento a seguito di un regolare iter caratterizzato da un intenso dibattito parlamentare, mentre gli interventi successivi sono stati adottati con decreto legge sotto la spinta di avvenimenti contingenti. Nel giro di poco tempo viene a mutare il quadro che aveva portato alla approvazione della novella del 1986: innanzitutto a causa dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura penale e della contestuale introduzione di riti speciali, quali l’abbreviato e il patteggiamento, i quali – comportando una riduzione (consistente) di pena – hanno come effetto immediato di eliminare la proporzionalità fra reato commesso e pena e di eliminare il presupposto oggettivo (il quantum di pena richiesto) per l’ammissione a taluni benefici penitenziari. Ciò si traduce nella percezione da parte dell’opinione pubblica, e non solo, di una premialità eccessiva correlata altresì al fenomeno delle decarcerizzazioni operate attraverso permessi premio e misure alternative.

A questi elementi si aggiunge il problema della criminalità organizzata, che in quegli anni acquista una dimensione sempre più preoccupante non solo sotto il profilo quantitativo ma anche sotto quello qualitativo (omicidio del giudice Livatino, attentati ad altri giudici, omicidio di alcuni imprenditori, lotte intestine per il predominio). Non solo, ma alcuni condannati ammessi a misure alternative, avevano approfittato proprio di queste misure per commettere altri gravi reati o per rendersi irreperibili. Questi episodi accentrano l’attenzione sulla questione penitenziaria, tanto che con la legge 19 marzo 1990, n. 55 si restringe l’ambito di applicabilità dei permessi premio: è il primo di una lunga serie di interventi diretti a imprimere una svolta in chiave restrittiva e a dedicare attenzione alla criminalità organizzata, in specie a quella mafiosa. Non a caso la legge 55/1990 è intitolata «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale» e, come si è appena ricordato, cerca di affrontare il problema della criminalità organizzata, che non era oggetto di specifica autonoma regolamentazione, se si eccettua il riferimento contenuto nel testo all’epoca vigente dell’art. 47-ter comma 2 Ordinamento penitenziario, in cui si vietava la concessione della detenzione domiciliare quando fosse accertata la «attualità di collegamenti con la criminalità organizzata».

Al di là della scarsa coerenza rispetto al sistema di una simile preclusione, volta ad escludere la fruizione di una misura caratterizzata da finalità umanitarie ed assistenziali correlate allo status del condannato, con la conseguenza di far prevalere ragioni di segno diverso (tutela dell’ordine pubblico e prevenzione della recidiva), non si può non sottolineare come il legislatore abbia fatto ricorso a espressioni assai poco tecniche. Qui si parla di collegamenti, nell’art. 14-bis si fa riferimento a detenuti, che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri reclusi: si tratta di espressioni eleganti per alludere a fenomeni assai diffusi, nel primo caso al legame stretto ideologico e materiale dell’affiliato con la organizzazione di appartenenza (visto che è quest’ultima a provvedere al pagamento delle spese processuali e al mantenimento della famiglia), nel secondo caso si allude a fenomeni di asservimento ideologico e materiale.

Nell’originaria formulazione dell’art. 47 si poneva il divieto di concessione in relazione a condanne per taluni delitti specificamente indicati (rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo estorsivo) che sono poi quelli che in quel momento suscitavano particolare allarme sociale. Con la legge 55/1990 nel comma 1-bis aggiunto si subordina la concessione del permesso premio, quando la condanna sia intervenuta per sequestro di persona o per reati di criminalità organizzata o per reti commessi per finalità di terrorismo o eversione, alla acquisizione di elementi tali da escludere la attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. La concessione è dunque subordinata ad un regine probatorio differenziato, che si affermerà ben presto, dato che la formula ed il regime probatorio ad essa connesso verranno poi accolti nell’art. 4-bis Ordinamento penitenziario.

 

Il ruolo fondamentale dell’art. 4-bis nella nuova politica penitenziaria

 

A prescindere da una breve parentesi temporale, nella quale il legislatore con il decreto legge 13 novembre 1990 n. 324 intitolato «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e buon andamento dell’attività amministrativa» pone un divieto di concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative per coloro che fossero stati condannati per una serie di delitti ritenuti dal legislatore espressione di appartenenza alla criminalità organizzata od eversiva, vengono adottati ben 3 decreti legge che si susseguono e si legano a quello ora ricordato, essendone la reiterazione, con i quali si cerca di fissare una regola probatoria alla quale la Magistratura di Sorveglianza doveva attenersi nella concessione dei benefici penitenziari. Nel primo di questi decreti legge l’applicazione era subordinata alla concreta sussistenza della prova negativa circa la «attualità» di collegamenti, negli altri decreti legge, fino a giungere alla legge di conversione, si opta per un regime meno severo e si dividono in fasce i delitti riconducibili alla criminalità organizzata: la prima comprendeva delitti di sicura riferibilità a detta criminalità, in relazione ai quali la concessione era subordinata alla acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti», la seconda comprendeva delitti di per sé non riferibili direttamente, in relazione ai quali la concessione era ammessa, salvo che fossero accertati «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva ».

In questo modo si viene a delineare un doppio regime penitenziario (triplo con riferimento ai collaboratori di giustizia) correlato alla natura del reato commesso e alla pericolosità presunta connessa a tale reato. Si noti che l’operazione di controbilaciamento della legge 663/1986 viene realizzata con modifiche a norme preesistenti (artt. 21, 30-ter, 50) e con l’introduzione di nuove norme (artt. 4-bis, 58-ter, 58-quater). In particolare è l’art. 4-bis a rivestire un ruolo fondamentale nella nuova politica penitenziaria: a sottolineare questo aspetto sta la collocazione tra i «principi direttivi» proprio per evidenziare la funzione di contrappeso alle disposizioni contenute tra quegli stessi principi e dedicate alle garanzie e ai diritti dei condannati. Non vi è dubbio quindi che con l’introduzione dell’art. 4-bis si voleva controbilanciare un sistema che veniva ritenuto squilibrato in favor rei. Questa norma è stata oggetto di modifiche per ben 3 volte senza che la sua struttura sia mai stata intaccata nella sostanza, anche se non si può non cogliere in queste innovazioni un adeguamento, da un lato, a modifiche legislative in altri settori, dall’altro agli insegnamenti della Corte costituzionale intervenuta proprio sulla disciplina dell’art. 4-bis .

Se si analizza il catalogo dei reati ostativi contemplati nelle versioni di volta in volta innovate, si può allora constatare come tale catalogo si estenda al verificarsi di fenomeni criminali che suscitano un particolare allarme sociale (traffico di immigrati, reati a sfondo sessuale, terrorismo). Sono proprio i reati di terrorismo a costituire una cartina al tornasole particolarmente interessante ed emblematica, con i loro spostamenti nelle diverse fasce considerate dall’art. 4-bis, della ratio che caratterizza gli interventi in questo ambito, ovvero quella di inviare messaggi rassicuranti all’opinione pubblica. Infatti tali fattispecie nella versione originaria comparivano nella prima fascia, confluivano poi con la riforma del 1992 nella 3° fascia di delitti, quella meno rigorosa, che pone il divieto di ammissione ai benefici per l’esistenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, dato che l’allarme sociale suscitato da queste fattispecie era in gran parte scemato. Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279 queste fattispecie ritornano nella 1° fascia, quella considerata più grave: la concessione è subordinata alla collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter, con le eccezioni riconosciute dalla Corte costituzionale e oggi trasfuse nel nuovo testo dell’art. 4-bis.

Anche la flessibilità del catalogo in ragione delle diverse emergenze conferma appunto come la norma voglia costituire un punto fermo a fronte di un sistema penitenziario che si presenta sempre più sfilacciato ed incoerente, che ha visto dilatarsi l’ambito di operatività di talune misure alternative solo in chiave di deflazione della popolazione detenuta (detenzione domiciliare nelle diverse ipotesi). La norma vuole evitare che persone condannate per determinati delitti, di volta in volta ritenuti sintomatici di pericolosità sociale, possano lasciare il carcere: si è creata una presunzione di pericolosità superabile solo attraverso condotte collaborative o in presenza di determinati elementi.

 

Un sistema sanzionatorio, che abbandoni l’impostazione carcerocentrica

 

La funzione di sbarramento attribuita alla previsione dell’art. 4-bis si perfeziona con il divieto posto nel comma 3-bis di fruizione di misure alternative nei confronti di detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il Procuratore distrettuale comunica l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. La pericolosità sociale non è presunta sulla base del titolo di reato commesso, ma viene desunta dai collegamenti con la criminalità organizzata. Da un lato la previsione pare avere un ambito di operatività estremamente ampio, riferendosi genericamente a «delitti dolosi» di qualunque tipo, dall’altro collega il divieto alla attualità dei collegamenti: non vi è una presunzione di pericolosità, essendo questa desunta dai predetti collegamenti. Benché la norma sia formulata in modo secco, ingenerando dubbi sulla valenza della comunicazione del Procuratore nazionale antimafia, che precluderebbe ogni margine di valutazione alla Magistratura di Sorveglianza (tanto che si è parlato di un potere di veto), mi pare che tale comunicazione non sia vincolante e debba fondarsi su «precisi riscontri fattuali» e ancora che la Magistratura debba procedere ad un rigoroso controllo della logicità, compiutezza ed idoneità delle circostanze di fatto che sottostanno al parere del Procuratore nazionale antimafia.

Come si deduce anche dalla previsione del comma 3-bis, l’obiettivo era quello di imbrigliare la Magistratura di Sorveglianza, limitandone gli spazi di discrezionalità decisionale, tuttavia non è chiaro fino a che punto sia stato raggiunto.

Ma l’art. 4-bis esplica la sua valenza ben oltre i suoi confini, dal momento che attraverso il riferimento ai delitti indicati nel primo periodo del 1° comma determina l’area dei destinatari del provvedimento sospensivo delle regole trattamentali di cui all’art. 41-bis comma 2 Ordinamento penitenziario.

Le modifiche dell’art. 4-bis e le vicende dell’art. 41-bis sono emblematiche appunto – come già si è sottolineato – degli adattamenti alle diverse esigenze, agli allarmi sociali di volta in volta all’attenzione del legislatore di turno.

Ma è parimenti preoccupante l’assenza di una linea uniforme: non si può, infatti, ignorare che alla legislazione in chiave restrittiva degli anni 90 è seguita la legge 27 maggio 1998, n. 165 (legge Simeone) comportante maggiori opportunità di accesso alle misure alternative e poi nel 2003 il cosiddetto indultino (poi dichiarato incostituzionale).

Non è oltremodo tollerabile che nel settore penal-processualistico, ed in specie in quello penitenziario, si legiferi sulla base o meglio sulla spinta di emergenze, non importa se gli interventi siano motivati dalle condizioni disumane di coloro che sono detenuti o dall’esigenza di sicurezza della collettività: questi interventi hanno un costo, non sono certo indolori, e su questo mi pare si imponga una riflessione.

E ancora mi pare che non sia tollerabile che si continui a legiferare con decretazione d’urgenza, reiterando i provvedimenti e incidendo su quelli già vigenti in chiave di inasprimento: paiono le grida manzoniane, il risultato è un’impressione diffusa di inefficienza e inefficacia del sistema giustizia (vedi ad esempio da ultimo gli interventi sul fronte della violenza in occasione di manifestazioni sportive).

La presentazione di un complesso di direttive di legge delega per la riforma del Codice penale (seppur per il momento limitate alla parte generale di detto Codice) offre l’occasione per una riflessione globale che investa il sistema penale, quello processuale e l’Ordinamento penitenziario proprio perché da quanto si può leggere le modifiche proposte sono profonde, specie per quanto concerne il sistema sanzionatorio, che abbandona la impostazione carcerocentrica e prevede vere alternative al carcere, il quale dovrà costituire extrema ratio. Per questo mi parrebbe opportuno che qualunque ipotesi di riforma dell’Ordinamento penitenziario venga sospesa per evitare interferenze e sovrapposizioni come accadrebbe ad esempio con il disegno di legge cui si accennava all’inizio, che comporta invasioni di campo, certo inopportune e scorrette.

Non solo, le scelte di politica criminale non possono ignorare le politiche in materia dell’Unione europea, nelle quali la sicurezza è senza dubbio una componente essenziale, ma è sempre unita a due concetti fondamentali, libertà e giustizia, come risulta dal Programma dell’Aja, nel quale si richiamano gli Stati a muoversi nell’ambito di un «quadro unitario normativo» e sulla linea della integrazione europea delle politiche di libertà, giustizia e sicurezza. E questo obiettivo appare inconciliabile con provvedimenti settoriali ed emergenziali.

Con questo non voglio sottovalutare, o peggio ignorare, i problemi di ordine e sicurezza, ma penso che siano necessari interventi di prevenzione e non solo di repressione, ed in particolare che sia assolutamente necessario por mano ad altri strumenti, diversi da quelli penali: come proponeva «timidamente» Gesualdo Bufalino, anch’io provo a suggerire «libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione, libri». Una terapia pensata dallo scrittore siciliano per curare i mali della Sicilia, e soprattutto la mafia, ma mi pare si adatti a prevenire ogni forma di criminalità.

Riparliamo dell’incostituzionalità dell’articolo 4 bis

Ridare centralità alla persona e non al reato

Dobbiamo elaborare teorie nuove per sostenere l’incostituzionalità dell’articolo 4 bis

 

di Annamaria Alborghetti

avvocato penalista

 

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni a margine del convegno del 25 maggio scorso. Le prime battute sull’ultimo progetto di riforma del Codice penale evidenziano una particolare attenzione rivolta alle nuove misure (e nuove pene) alternative, con una progressiva marginalizzazione del carcere definito come “extrema ratio”.

Preoccupa però il silenzio verso questa “extrema ratio”. Il timore è che si vada sempre più accentuando quel solco profondo tracciato dal c.d. doppio binario e che, in realtà, uno di quei binari sia ormai divenuto un binario morto. Se da un lato si cercano soluzioni, nuove misure, nuove pene, dall’altro si getta la chiave per coloro che non hanno alternative, l’extrema ratio, appunto. Allora, a mio avviso “ripensare la pena” significa proprio dare significato alla pena detentiva.

Significa da un lato ribadire l’incostituzionalità dell’art. 4 bis e delle norme sui recidivi introdotte dalla ex Cirielli. Non ci si può rassegnare di fronte al fatto che negli anni 90 la Corte Costituzionale ha più volte affermato che l’art. 4 bis non contrasta con l’art. 27 Cost.

Dobbiamo pensare, inventare, elaborare pensieri e teorie nuove per sostenere l’incostituzionalità di quelle norme. E la Magistratura di Sorveglianza deve agire in questo senso, non rassegnarsi alla perdita di discrezionalità che un legislatore diffidente le ha imposto. Il sistema del doppio binario ha fatto si che la pena non è più sanzione ma, sempre più, misura di sicurezza, strettamente connessa alla pericolosità del soggetto ma, quel che è peggio, una pericolosità presunta che non deve essere accertata in concreto dal Giudice. L’aver commesso quel determinato reato, aver commesso più reati, significa automaticamente essere pericolosi, senza che sia data al Magistrato alcuna possibilità di accertamento, di verifica. Ecco dove si consuma l’extrema ratio! Eppure ancora nel lontano 1974 la Corte Costituzionale aveva riconosciuto “il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo ruolo rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”.

Tale principio aveva aperto la strada al concetto, a mio avviso irrinunciabile, di flessibilità della pena. Ma ripensare la pena significa anche depurarla da tutto ciò che nulla ha a che vedere con la sanzione, significa uscire da alcune ambiguità in cui mi pare che sempre più frequentemente certi orientamenti rischiano di portarci.

Sempre più spesso si sente parlare di mediazione penale, di riconciliazione tra la vittima e il reo, di attività riparatoria a favore della vittima. Senza nulla togliere ai diritti e alla giusta tutela della vittima del reato, credo però che la pena debba essere calibrata all’interno del rapporto tra il reo e lo Stato, inteso nei suoi diversi organismi rappresentativi, inteso come collettività e società civile.

Ciò che caratterizza, tra l’altro, lo stato di diritto è proprio l’appropriarsi, da parte dello Stato, del potere punitivo, sottraendo il reo alla vendetta privata. Il rapporto, quindi, non può che essere tra il reo e lo Stato. Non a caso, secondo l’interpretazione dottrinale corrente, rieducare significa “ricondurre soggetti che hanno perso il senso della legalità al rispetto della legge, al rispetto delle norme, prima ancora che penali, di civile convivenza, a sentire e riappropriarsi di quei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale sanciti dall’ordinamento”. Quindi la riconciliazione (e la riparazione) non può che avvenire nei confronti della società. In che modo? A mio avviso uno dei percorsi potrebbe essere quello di incrementare, dare più senso e vigore a ciò che già in alcuni istituti viene portato avanti. Mi riferisco alle attività con gli enti pubblici, con le associazioni, con le scuole, il territorio, gli ospedali. Mi riferisco anche alle attività di pubblica utilità che devono evolversi in un reale coinvolgimento tra gli utenti e chi le presta, in un’ottica di effettiva “utilità”.

La frattura tra il carcere e la società deve diluirsi nello spazio e nel tempo e solo con questo obiettivo la pena detentiva può avere, se lo ha, ancora un senso. Certo, la riparazione intesa in questo senso è un percorso complesso che richiede un forte impegno della collettività. Ma è anche vero che la collettività, nel momento in cui è messa in grado di conoscere, di capire, di vedere, è anche in grado di dare risposte adeguate e positive.

Non ci si può fermare di fronte a una stampa manipolata e manipolatrice che riempie le prime pagine con la rapina dell’albanese o l’omicidio del rumeno e tace sulle morti bianche, termine ipocritamente eufemistico per definire veri e propri omicidi inaccettabili in un paese civile con una delle legislazioni sul lavoro più avanzate d’Europa. Le campagne contro l’indulto ci sono sempre state ad ogni provvedimento di clemenza, così come gli strilli allarmati dei forcaioli di destra e di sinistra.

L’unico modo per combatterli è informare, informare e informare. Portare quei dati, a noi ben noti, sui recidivi, sulle misure alternative, sulla recidività post-misure alternative non solo nei convegni per addetti ai lavori, ma tra la gente, nelle piazze, nei banchetti, sui giornalini.

Questo è quello che si può fare ora, subito. Senza dimenticare che l’obiettivo deve essere quello di ridare centralità alla persona e non al reato, cosa che non avverrà realmente finché non verranno aboliti gli sbarramenti imposti dalle norme che ho citato.

Fare dell’indulto la premessa di un’opera di riforma

Dobbiamo consentire ai detenuti di sopravvivere al loro reato

Il contributo più efficace alla sicurezza collettiva è che le carceri siano umane

 

di Luigi Manconi

Sottosegretario al Ministero della Giustizia

 

Vorrei partire per questo mio intervento dalle parole di uno che è stato detenuto qui a Padova e che ora si trova nel carcere di Lecco. Parlo di Stefano Bentivogli, che ha scritto uno straordinario articolo in cui ha intervistato i suoi compagni di prigione, in gran parte immigrati stranieri, e ha riportato in quest’articolo il dibattito che c’è all’interno del carcere e fra i detenuti su quel tema che oggi occupa le cronache dei giornali ed è il tema della sicurezza. In questo documento si parla molto della sventurata ragazza rumena che ha ucciso, colpendola con un ombrello, una giovane donna italiana. Ne parlano i detenuti, prima che emergesse dai giornali un dettaglio da trattare con la massima delicatezza, dettaglio da definirsi struggente, e cioè che Vanessa Russo, la ragazza uccisa, veniva da una pesantissima storia di tossicodipendenza, era sotto metadone, era perlomeno una persona infelice e sfortunata quanto la sua assassina. Questo fatto ci rende l’uccisa ancora più cara, perché scopriamo che il suo destino, la sua fatica di vivere, la sua angoscia, il suo dolore, era lo stesso che condividiamo con Doina, prostituta 23enne con due bambini in Romania, come tanti sono i bambini che donne straniere immigrate in Italia mantengono con la loro attività, e la loro attività si limita generalmente al poter essere badanti oppure prostitute.

Vittima è innanzi tutto Vanessa Russo. Io ritengo però che anche Doina sia una vittima, perché l’enormità, l’incidentalità del suo gesto, la casualità che l’ha resa omicida è un segno del destino, non certo la manifestazione di un’aggressività o di un’intolleranza. Ma poi ci sono altre 2 vittime, che sono i figli di Doina, 3 e 5 anni, che stanno in Romania, e che da adesso non hanno più alcun supporto. Io ho fatto con Laura Balbo (che insegna in questa Università) un’iniziativa, istituendo un fondo per garantire a questi bambini la possibilità di avere non dico una vita normale, ma decente.

Pubblicheremo su Ristretti Orizzonti questa nostra proposta e credo che il contributo economico, anche più piccolo e modesto, dato dai detenuti sarebbe una straordinaria manifestazione di intelligenza e di sensibilità e una straordinaria risposta, soprattutto a chi vede l’umanità divisa fra il male e il bene e non capisce che il male insieme al bene è dentro a ciascuno di noi. E che l’ostilità che la società ha nei confronti del carcere e di chi lo abita, quell’ostilità ha una sola radice: le persone che stanno fuori sentono più o meno consapevolmente, più o meno oscuramente che quelli che stanno dentro hanno fatto qualcosa che coloro che stanno fuori potrebbero fare, hanno la tentazione di fare. E poi la cultura, le condizioni ambientali, il libero arbitrio, la scelta individuale gli impedisce di fare.

Ma sapere che dentro il carcere c’è chi ha ceduto a pulsioni, che noi che siamo fuori dal carcere comunque avvertiamo, è il motivo per cui la società civile ignora e odia il carcere, perché rappresenta il male che c’è dentro anche chi il carcere non lo conosce direttamente. Ecco, questa vicenda di Vanessa Russo illustra perfettamente questa condizione ed è, per questo, motivo di riflessione per noi tutti.

Il titolo del convegno, “Persone, non reati che camminano” è ovviamente il cuore della questione: noi dobbiamo consentire ai detenuti di sopravvivere al loro reato. Oggi in Italia la qualifica di ex detenuto è un’etichetta che insegue chi sta in carcere fino alla morte, è un’etichetta che lo inchioda al passato, che gli impedisce di vivere il presente e di immaginare il futuro. Tutto ciò che noi possiamo fare e tutto ciò che dovremmo fare va finalizzato a questo: a consentire al detenuto di “sfuggire” al suo reato.

Espiare la pena significa esattamente questo: consumare nelle migliori condizioni possibili quel tempo della reclusione e poi fuggirne con una vita nuova, con un’esistenza che non sia più il retaggio di quella reclusione. Guardate in faccia sempre un esempio, che è per me impressionante: nella furiosa campagna contro l’indulto si è raggiunto il momento della massima abiezione nella cronaca di un giornale di ferma militanza democratica. Nel descrivere l’identikit di un presunto rapinatore, uno sciagurato giornalista ha osato scrivere: “Alto, capelli biondi, occhiali… faccia da indulto”. Questo è stato scritto su un giornale italiano di sicura fede democratica.

 

Dopo l’indulto, è difficile investire denaro sul sistema penitenziario

 

È difficile “sfuggire” alla pena, è difficile non essere inchiodato come persona, se si recuperano stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi di due secoli fa per classificare la pena. È difficile, tutto ciò che noi possiamo fare è contribuire a consentire che al proprio reato, e quindi alla pena che esso comporta, ci si possa “sottrarre” per immaginare un’altra esistenza.

Io voglio ora riprendere un ragionamento sull’indulto che ho sentito fare ieri sera in una trasmissione televisiva. È stato detto “La popolazione detenuta ha già raggiunto le 42.000 unità”. Ci si è dimenticati di dire che nove mesi fa i detenuti erano 62.000. E allora l’indulto è stato o non è stato un sacrosanto provvedimento, un’iniziativa di cui non ci si deve vergognare, ma di cui personalmente sono fiero, e credo che nelle mia vita politica sia un merito che posso vantare? Perché la questione dei dati o va intesa con serietà o è appunto solo demagogia. I dati dicono: è vero che c’è stato un incremento di oltre 2.000 unità tra quella popolazione ridotta dall’indulto e quella attuale. Ma non va dimenticato che il passaggio cruciale e terribile tra 42.000 e 62.000 è avvenuto fra il 1990 e il 2005, ovvero in 15 anni. Allora, sappiamo che la situazione nelle carceri è critica, ma guai adesso a fasciarsi la testa e a pensare che tutto sia perduto. Abbiamo ancora, eccome, il tempo per fare dell’indulto la premessa di un’opera di riforma, la premessa indispensabile e necessaria. Non la risoluzione, ma la condizione prima per cui si possa affrontare le riforme, che è poi il pensiero che ha espresso il Capo dello Stato. E su questo voglio dire una seconda cosa.

Guardate, la situazione non è per nulla da considerare come ottimistica, ma ci sono alcuni segnali importanti. È la prima volta che il Capo dello Stato, il vicepresidente del C.S.M., il Ministro della Giustizia insistono, vorrei dire ossessivamente, sull’idea che il carcere deve essere la soluzione estrema e che tutto va concentrato sulla questione della pena e delle misure alternative. Vi sembra poco? Tutto ciò però purtroppo cade all’interno di una società e di una opinione pubblica che oggi è fortemente ostile e questa è in se la ragione più profonda del fatto che per la giustizia, per il sistema penitenziario i denari a disposizione sono così pochi. Non è l’avarizia dei governanti, la legge finanziaria ha inciso gravemente sulla salute penitenziaria con un taglio prudente, ma tempo quattro mesi e quel taglio è stato completamente reintegrato, totalmente risarcito, con altrettanta, esattamente altrettanta disponibilità di strumenti.

Ma la classe politica non può ignorare che dopo l’indulto, in particolare dopo l’indulto, è difficile investire denaro sul sistema penitenziario. La classe politica vive, è un dato di fatto, anche se non credo che sia un dato di fatto apprezzabile, ma la classe politica vive di consenso. Chi investe nelle carceri gode del massimo dissenso nella società e nell’opinione pubblica e ovviamente è un’impresa da affrontare quella di ottenere consenso, ma proprio per questo non è semplicemente responsabilità dei politici buoni fare in modo che la classe politica investa nel sistema penitenziario, è una responsabilità vostra, dei detenuti in prima persona. Più iniziative vengono fuori dal carcere, capaci realmente di dimostrare la ricchezza umana della popolazione detenuta, e più ci sarà attenzione dall’opinione pubblica.

Quello che noi dobbiamo dimostrare è che mentre si parla di sicurezza, il contributo più efficace alla sicurezza collettiva e alla sicurezza di chi non sta in carcere è che le carceri siano umane e che lì i diritti dei detenuti siano tutelati. Questo è il miglior contributo che si possa dare alla sicurezza. È un messaggio molto difficile da trasmettere, il nostro è un cammino impervio, ma questo cammino va affrontato.

Voglio concludere, così come ho iniziato, il dibattito sulla sicurezza: gente come noi la vive con insofferenza, ma credo che facciamo bene a non disprezzare quel dibattito, combattendo ogni falsità. Se in questo dibattito sulla sicurezza non c’è il contributo di Stefano Bentivogli, dei suoi compagni di cella e di carcere, il vostro contributo, quel dibattito sulla sicurezza è perfettamente inutile, perché si può dire con una battuta: chi meglio dei detenuti è il massimo esperto del bene della sicurezza? E allora i giornalisti, gli opinionisti, gli operatori della magistratura, coloro che poi fanno l’opinione pubblica, abbiano l’umiltà di leggere le parole di Bentivogli, e di altri detenuti, in modo che venga valorizzata la loro intelligenza in seno alla vita collettiva della società.

 

 

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