La pena e la galera

 

Manca una visione strategica dei problemi

che affliggono il sistema penitenziario

Bisogna abrogare le leggi che continuano ad ingolfare le carceri

E poi, dopo l’indulto, è urgente una riflessione con la Magistratura di Sorveglianza

 

di Franco Corleone

Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze

 

Nel luglio 2006 il Parlamento varò l’indulto: un miracolo. Ma di breve effetto. Io penso che oggi dobbiamo dire che questa occasione è quasi stata vanificata e sprecata dalla mancanza di leggi, misure e provvedimenti da parte dell’amministrazione penitenziaria, per cogliere questa occasione unica e straordinaria. Che andava considerata come premessa, non come atto chiuso in sé. Oltre al coraggio, insomma, è mancata una visione strategica dei problemi strutturali che affliggono il sistema penitenziario

Questo ci deve preoccupare molto, perché questi convegni che ogni anno “Ristretti Orizzonti” meritoriamente organizza, non debbano coltivare in noi l’illusione di poter svuotare il mare con un secchiello che ha sempre più buchi.

Ho l’impressione che noi dobbiamo essere molto severi con noi stessi nel chiederci che cosa sta accadendo, che cos’è accaduto in questi anni, cosa sta accadendo in questi mesi. Mi diceva prima l’onorevole Marco Boato: “Non ti immagini nemmeno qual è la situazione che viviamo in Parlamento”. Teniamo conto del fatto che Boato, all’inizio della legislatura, ha presentato la proposta elaborata da Alessandro Margara per il nuovo Ordinamento penitenziario. Eppure ancora non è stato nominato un relatore. Adesso si parla di Codice penale, grazie al lavoro della apposita Commissione presieduta da Giuliano Pisapia che ha formulato le ipotesi di riforma, ma credo che anche questa sarà una nuova illusione. Basti vedere l’opera di sbarramento che autorevoli esponenti del governo, ministro della Giustizia per primo, hanno già cominciato a fare circa la previsione di sostituire la pena dell’ergastolo in una pena speciale che può arrivare sino a 38 anni di carcere. Trentotto anni sono un’eternità: si tratta di un’entità molto più alta di quella determinata nei precedenti tentativi di riforma. Eppure anche questo non basta.

Marco Boato ha presentato anche il disegno di legge sull’affettività, elaborato proprio in un precedente convegno qui nel carcere di Padova. Adesso la situazione è tale, per cui il giornale “Ristretti Orizzonti” leva forte un grido di angoscia: “Basta parlare di affettività, parliamo di sessualità”, perché forse se siamo troppo prudenti siamo condannati alla sconfitta. Ma quali prospettive possiamo avere di fronte, se il sindaco di Torino chiede maggior rigore contro i tossicodipendenti, mentre quello di Milano, Letizia Moratti taglia le risorse per i servizi di riduzione del danno e propone ai genitori di fare il test ai propri figli per scoprire se si fanno gli spinelli; da altre parti si dà la caccia ai clienti delle prostitute, e così via, in una rincorsa senza fine ai peggiori umori dell’opinione pubblica, anzi della parte più ignorante e incattivita della pubblica opinione.

Questo dunque è il quadro con cui dobbiamo fare i conti e capire che cosa sta succedendo. Intanto, le leggi che − secondo lo stesso programma con il quale l’attuale governo si è presentato alle elezioni − devono essere cambiate o abrogate, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulla recidiva, sono ancora lì. E, a pochi mesi dall’indulto, stanno già ingolfando le carceri, tornate nuovamente al livello di guardia della massima capienza regolamentare.

Come ampiamente previsto, come ricorrentemente denunciato.

E allora dobbiamo chiedere che nell’agenda politica ci siano queste cose. Per non dire della salute in carcere, della necessità di realizzare finalmente la riforma varata addirittura nel 1999. Io penso che non dobbiamo più consentire alibi a un governo e un Parlamento immobili e distratti, e tornare a dire ad alta voce le cose come stanno. E come dovrebbero cambiare.

Sono stufo che nei nostri convegni si continui a parlare di quelli che in carcere non dovrebbero andare, ma invece continuano a esserci; sono stufo che si continui a parlare di tossicodipendenza: non ci sono tossicodipendenti, ci sono consumatori di sostanze che qualcuno ha dichiarato illegali, contro ogni buon senso e criterio scientifico, e per questo sono in carcere. Queste decine di migliaia di persone che ogni anno entrano in carcere non sono malati, né criminali. Criminale è la legge del proibizionismo, criminale è il razzismo verso i diversi e più deboli. Se noi non partiamo da qui, da questi elementi di verità e di chiarezza, siamo destinati alla sconfitta. Non avremo il Codice penale. Il Codice penale nuovo che noi vogliamo è quello che identifichi le condotte criminali, i reati ambientali, i reati dei colletti bianchi. Invece, il presidente della Confindustria ancora non si è accorto che nel Gotha della finanza, nel Consiglio di amministrazione di Mediobanca c’era un tale che si chiama Coppola e che se non fosse stato fermato chissà che ascesa avrebbe fatto insieme a Stefano Ricucci, che scalava il “Corriere della Sera”. Beninteso: una volta che queste persone, che qualsiasi persona per qualsiasi motivo entra in carcere è degna di considerazione e solidarietà. Non bisogna mai alimentare la voglia di manette e il clima di forca, che purtroppo sono già ampiamente presenti a livello di forze politiche e di umori pubblici. Il problema sono le leggi che garantiscono pugno di ferro contro i più deboli e impunità verso i potenti.

Per questo è tempo che la società civile dica alla politica, a questa politica, che deve andare a casa. Io penso che dobbiamo mettere in campo qualche altra risorsa, perché altrimenti noi non avremo il Codice penale, né l’Ordinamento penitenziario, né la rivitalizzazione delle pene alternative al carcere.

Due esempi: un detenuto mi ha chiesto un aiuto, perché un anno fa era in articolo 21, era in lavoro esterno, si è fatto una “pera” e questo gli è costato la perdita della misura esterna ed è senza permessi da un anno. Adesso, forse il Magistrato di Sorveglianza gli darà il permesso, però a condizione che in uno dei tre giorni di permesso vada al Ser.T. Ma a fare che? Penso che dobbiamo avviare anche una battaglia perché la si finisca con questi esami delle urine, basta con queste misure che sono insensate. A meno che non si concepisca il carcere come terapia, mentre sappiamo che il carcere semmai è una malattia, è criminogeno.

L’indulto ha comportato l’uscita di coloro che avevano pene sotto i tre anni, a parte i casi di reati esclusi dal provvedimento di clemenza. Sono usciti circa in 25.000. Ma questo indirettamente ci dice che in carcere c’erano 25.000 persone che non ci dovevano stare, in virtù della legge Saraceni-Simeone. Eppure erano lì, anziché in affidamento ai servizi sociali, perché la Magistratura di Sorveglianza spesso non funziona, o funziona a macchia di leopardo, o ancora usa della propria discrezionalità in modo discutibile, se non arbitrario.

Io penso che una riflessione con la Magistratura di Sorveglianza bisogna farla, a partire da quella di Venezia. Non è perché c’è stato l’indulto che ora si debba restringere l’accesso alla concessione delle misure alternative, già avaro in precedenza. Ci vuole un po’ di coraggio e io penso che il dottor Tamburino possa assumere questo nuovo ruolo, prendendo come modello l’azione di maestri come Giancarlo Zappa e Alessandro Margara.

 

 

Non dobbiamo “vittimizzare” chi ha commesso reati

Rendere il tempo della detenzione “un tempo minimamente sensato”

Dobbiamo riuscire adesso a trasformare il luogo penitenziario in un luogo che produce senso e crea legami

 

di Lucia Castellano

Direttrice della Casa di reclusione di Bollate

 

Io vorrei fare un piccolo ragionamento a partire dal mondo del carcere, all’interno del quale molte persone vivono e non dovrebbero però essere lì. Abbiamo detto che dovremmo immaginare tutta una serie di misure diverse dal carcere, ma è anche vero che non ci si può sottrarre alla realtà: il carcere c’è, è pieno di persone che non dovrebbero esserci, non dovrebbe essere quello che è, ma c’è.

Non sono una sostenitrice del valore del carcere, anzi ho sempre detto che il carcere è assolutamente peggiorativo per la stragrande maggioranza delle persone che lo abitano. Però quello che volevo tentare è una riflessione su ciò che noi possiamo fare, e devo dire, con un po’ di presunzione, che è quello che io cerco di fare dalla mattina alla sera per rendere il tempo e il luogo della detenzione “un tempo minimamente sensato”, o quantomeno un tempo che non peggiori chi il carcere lo abita, visto che, almeno per alcune ore durante la giornata, ci dobbiamo stare tutti.

Parlerò quindi banalmente di galera dall’interno della galera, e l’oggetto del mio ragionamento sarà quello di una Casa di reclusione con detenuti comuni. Badate che i detenuti comuni sono la maggioranza, quelli che non sono tossicodipendenti, quelli che non hanno grossi problemi psichici, che non sono in una sezione di Alta Sicurezza, che non sono in 41 bis, e sono la stragrande maggioranza. Parlerò dei detenuti condannati e di quello che secondo me si può fare oggi con questo apparato normativo, aspettando e auspicando quelle riforme che dovrebbero migliorare il sistema.

Noi abbiamo due componenti su cui lavoreremo: il tempo e lo spazio. Il tempo, che è l’unico “oggetto della pena”, ed è un tempo che annulla, che annienta la personalità e la forza. Lo spazio del carcere, che non è uno spazio pubblico, perché pubblico è uno spazio che produce senso e che crea un legame sociale. Su questi due elementi noi dobbiamo lavorare, ma quali sono gli strumenti che il legislatore ci dà per operare?

Rispetto a queste questioni noi abbiamo due punti fermi, trattamento e sicurezza, che sono due termini, e non me ne voglia chi li ha creati, da abolire, perchè non hanno oggi nessun significato chiaro. Perché il trattamento presuppone un intervento quasi medico su una persona che non è malata, che è assolutamente in grado di autodeterminarsi, che è assolutamente in grado di ragionare e di fare delle scelte, ancorché limitate nell’ambito della libertà personale. La sicurezza invece non può essere il controllo totale sulla persona, perché la persona sottoposta a un controllo ossessivo incattivisce, peggiora, e allora in termini di sicurezza sociale non facciamo un bene a chi sta fuori. Quindi io sostituirei questi due termini, e il legislatore del 2000 ce lo consente, e il legislatore del ’75 pure, con “offerta di servizi all’interno”, a una utenza costituita da chi ha commesso dei reati. Noi non dobbiamo “vittimizzarlo”, farlo sentire davvero una vittima, ma offrire un servizio e sostituire il termine della sicurezza con “organizzazione del servizio”, che non è appannaggio solo della polizia penitenziaria.

Cominciamo a parlare di sicurezza integrata e vediamo non tanto quanto trattamento fa il poliziotto, ma quanta sicurezza fa l’educatore, quanta sicurezza fa chi viene dall’esterno, quanta sicurezza fa chi spiega al detenuto quali sono i suoi diritti. Noi abbiamo, per esempio, uno sportello giuridico in carcere, e questo è un elemento di sicurezza, perché è un elemento che distende gli animi e che favorisce la presa di coscienza da parte del detenuto dei suoi diritti e dei suoi doveri. E allora cominciamo ad organizzare oggi il carcere come servizio, così come servizio è l’ospedale, così come servizio è la scuola, perdendo la mistica del controllo totale sulle persone. Anche perché noi non ce l’abbiamo, il controllo totale sulle persone, e non basterebbero 45.000 poliziotti a fronte di 45.000 detenuti a garantire un controllo del genere.

In questo momento possiamo partire da quella che è la pena per cominciare a considerarla come una pena già da adesso prescrittiva. Allora, ad esempio a Bollate, qual è l’esperimento che abbiamo fatto? Abbiamo cominciato a cedere ai detenuti e alle cooperative dei detenuti la gestione economica dell’istituto. Questo significa che il detenuto che ho di fronte non è un detenuto da me “trattato”, è un detenuto da me riconosciuto come possibile interlocutore, come possibile appaltatore di servizi.

 

Il muro di cinta basta alla pena, è la pena stessa

 

È chiaro che il ragionamento che secondo me deve cambiare è quello della pena, che deve essere limitata al muro di cinta. Il muro di cinta basta alla pena, è la pena stessa. Non è necessario aggiungere alcun tipo di afflittività, di quella afflittività che è data dal controllo totale.

E allora che cosa significa tutto questo? Significa, molto banalmente, e io continuo a dire queste banalità, ma sembrano rivoluzioni culturali, che le celle dovrebbero stare aperte dalla mattina alla sera, che il detenuto, tutti i detenuti, anche quelli che sono in regime particolare, dovrebbero essere in grado di muoversi liberamene all’interno dell’intercinta.

Questo potrebbe essere l’ABC del cambiamento, qui e ora, nell’attesa delle riforme. Io sono convinta, e sono diciassette anni che faccio questo mestiere, che se non cambiamo qui e ora e non faremo questo passaggio, noi potremo avere le riforme più illuminate, ma se non perdiamo la mistica della sorveglianza e del controllo sul detenuto, noi non ce la faremo mai.

La gestione partecipata significa che il detenuto entra nell’organizzazione del carcere all’interno del muro di cinta e comincia ad appropriarsi di questa organizzazione, senza che questo ci faccia paura. Appropriarsi di questa organizzazione significa considerare anche la gestione economica, nel senso di far capire al detenuto che cos’è la programmazione economica dell’istituto, quanti soldi ci sono per fare delle cose e come queste cose vanno impostate. Perché altrimenti noi non riusciremo veramente a prepararci per queste nuove norme, per questi nuovi codici e queste nuove rivoluzioni che si stanno avvicinando e che io aspetto con ansia. La gestione partecipata significa che lo spazio detentivo comincia sempre più ad assomigliare allo spazio pubblico, e cioè spazio che riesce a creare senso, perché ad esempio molti ex detenuti vivono il carcere di Bollate come luogo di lavoro e dell’economia dell’istituto. Quindi gestiscono la lavanderia, il catering, gli impianti elettrici, la manutenzione, e questo è previsto dall’art. 20, non lo dice la mia testa, è già legge. Il carcere diventa luogo di lavoro, e c’è anche chi sceglie dopo la pena di venire a lavorare in questo carcere.

Questo è “pericoloso”, indubbiamente è “pericoloso”. Ma quanto più è pericoloso mantenere il controllo totale, che poi siamo anche sicuri che non possiamo ottenerlo! E allora, probabilmente dobbiamo riuscire adesso a trasformare il luogo penitenziario in un luogo che produce senso e crea legami. E io volutamente mi sono limitata, nel breve excursus che vi ho fatto, a stare dentro la cinta muraria, perché a me fa paura una cosa: si parla sempre di alternativa al carcere, ed è sacrosanto farlo, ma il problema è il tempo che viene speso all’interno del carcere, che è ancora il tempo dell’ambientamento, dell’insensatezza, e lo è per i detenuti e anche per gli operatori penitenziari. Noi abbiamo una serie di norme, molto burocratiche e molto precise, che ci inchiodano. Inchiodano noi che gestiamo, inchiodano loro che ci vivono. Queste norme vengono poi di volta in volta rinegoziate nella relazione a tu per tu fra carceriere e carcerato. E questo che cosa comporta? Comporta a volte l’arbitrio. Allora se noi imparassimo a lavorare non per norme, non per regolette, ma per obiettivi, sarebbe senz’altro meglio.

Io, quando i miei poliziotti mi chiedono un ordine di servizio preciso, rispondo che non glielo faccio, per prima cosa perché non lo so fare, e in secondo luogo perché chi lavora con me deve capire qual è l‘obiettivo, e l’obiettivo non può essere fare impazzire le persone o peggiorarle. L’obiettivo deve essere farle uscire il più presto possibile e il meno peggiorate possibile.

Allora se non capiamo queste elementari regole, che però, e chi abita il carcere lo sa, rivoluzionano completamente il tempo e lo spazio della detenzione, possiamo avere la riforma migliore e più garantista del mondo, e però non cambieremo, non cambierà nulla.

 

 

Il “malessere organizzativo” del carcere

La quotidiana riforma penitenziaria

Serve attenzione alle dinamiche organizzative, lavorare per il cambiamento implica un atteggiamento più rigoroso

 

di Pietro Buffa

Direttore della Casa circondariale di Torino

 

Inizierei questa riflessione da quella parte del titolo di questo convegno che dice “Ripensare la pena”. Diversi degli interventi precedenti hanno trattato il tema dal punto di vista normativo, in particolare approfondendo la riforma del Codice penale. Ritengo che questo sia un passaggio di necessario adeguamento rispetto al procedere del tempo.

Sono però altrettanto convinto che la questione debba essere analizzata anche da un altro punto di vista, non meno centrale rispetto ai temi che qui stiamo trattando. Intendo fare riferimento alla pena nella sua concretezza, quella materialmente vissuta nella quotidianità penitenziaria.

Ripeto spesso che difficilmente, se non mai, si ritrova nella manualistica la definizione di pena detentiva. Ben che vada si parla delle funzioni della pena, ma non la si descrive nella sua materialità. Sono convinto che questa sia una grave carenza conoscitiva perché, in realtà, la pena in carcere è un insieme di afflizioni molto forti, a volte drammatiche, senza che queste siano previste in sentenza o dalle norme di riferimento.

Queste afflizioni dipendono largamente dal tipo d’organizzazione che uno stato si dà per gestire la pena in carcere. Anche questo è un settore scarsamente approfondito.

Ritengo che qualunque processo di riforma della pena non possa prescindere dalla necessaria attenzione all’organizzazione minuta che la gestisce. Sposterei quindi il fuoco delle riflessioni da quello che potrei chiamare il software, e cioè le norme, a quello che è l’hardware, ovvero la macchina carceraria. Che quest’ultima sia oggetto di svariate critiche ed appunti è fatto ampiamente noto.

Il sistema penitenziario è spesso trascinato in causa rispetto alle sue disfunzioni e agli effetti nefasti che queste inducono. Debbo dire che a volte si ha l’impressione che sia sin troppo semplice prendersela con il carcere, dimenticando le leggi finanziarie che tagliano le risorse oppure il fatto che la recidiva non può sempre essere imputata alla struttura detentiva. Intendiamoci, non si ha certo l’intenzione di oscurare responsabilità, disattenzioni o rigidità ma, molto più semplicemente, si vuole fare un richiamo al fatto che le umane cose non possono essere oggetto di reificazione o, viceversa, di demonizzazione.

Lavorare per il cambiamento implica un atteggiamento più rigoroso. Verificare una disfunzione richiama immediatamente la necessità di chiedersi il perché di tale fenomeno, sapendo perfettamente che non c’è quasi mai una soluzione secca ed assoluta ad un problema.

Demonizzare non fa altro che allontanare chi è vittima di questo processo in un gioco che può portare alla realizzazione della cosiddetta profezia che si auto adempie. Dico questo perché spesso mi sono sentito demonizzato come operatore del carcere, e questo non è certo un modo di risolvere i problemi, semmai li complica in facili quanto sterili contrapposizioni.

Entriamo invece nel cuore di questo sistema; tentiamo di comprenderne le dinamiche; studiamone l’organizzazione, non solo quella formale ma, soprattutto, quella indotta dalla quotidianità, dalle forze e dalle debolezze delle persone che la compongono.

Questo significa intraprendere analisi apparentemente molto lontane dai temi tipici del carcerario ma, viceversa, fondamentali per capirne gli effetti. È forse banale ricordare che una organizzazione che vive un disagio offrirà un prodotto scadente. Ma questo non significa forse la necessità di sondare la salute organizzativa dell’amministrazione che gestisce la sofferenza penale?

Alcuni autori hanno elencato gli indicatori positivi della salute organizzativa. È un elenco di percezioni che consentono ad una organizzazione di superare difficoltà e raggiungere obiettivi insperati. I membri di queste organizzazioni provano la soddisfazione di appartenervi, la voglia di impegnarsi, cioè il desiderio di lavorare per l’organizzazione anche oltre il richiesto. La sensazione di fare parte di un team, la voglia di andare al lavoro, la percezione d’autorealizzazione, la convinzione di poter cambiare le condizioni negative attuali, il rapporto equilibrato tra vita lavorativa e quella privata, le relazioni interpersonali positive, i lavori condivisi, credibilità del manager, la stima del management e la percezione di successo dell’organizzazione. Di primo acchito non mi pare che sia esattamente questa la situazione che caratterizza il contesto lavorativo del comparto penitenziario. Più aderente alla realtà mi pare una situazione caratterizzata da ben altri sentimenti. Sono percezioni che gli stessi autori citati evidenziano come indicatori di malessere organizzativo.

Il risentimento verso l’organizzazione, l’aggressività abituale e il nervosismo, il sentimento d’inutilità, il sentimento d’irrilevanza rispetto all’organizzazione nel suo complesso, il sentimento di disconoscimento del proprio lavoro, l’insofferenza nell’andare al lavoro, il disinteresse per il lavoro, il desiderio di cambiare lavoro, il pettegolezzo, l’aderenza formale alle regole e l’inaffettività lavorativa, la lentezza nella prestazione, la confusione organizzativa in termini di ruoli e compiti, il venir meno della propositività, l’assenteismo: segnalo la necessità di approfondire questi temi per comprendere lo stato di salute dell’amministrazione penitenziaria. Senza elementi conoscitivi precisi di questo genere diventa difficile immaginare l’implementazione di processi gestionali innovativi.

 

Le carceri “buone” e quelle “cattive”

 

È chiaro che si debbano rivedere le norme che puniscono e che aprono le porte del carcere, ma un’organizzazione che esprima livelli di malessere di rilievo è un sistema afflittivo per chi vi partecipa e per chi ne è soggetto.

Una riforma strutturale, per avere successo, deve potersi poggiare su un tessuto organizzativo positivo e in salute, ma anche tener conto che tale tessuto è un sistema vitale e che come tale deve essere mantenuto in equilibrio.

Se tale equilibrio viene meno aumenteranno le tensioni. Per farmi capire meglio prenderò in prestito una definizione di organizzazione che reputo molto utile. In particolare faccio riferimento al concetto di organizzazione quale confederazione d’interessi delle varie parti che la compongono. Si tratta degli interessi delle persone in relazione alla loro vita in rapporto all’organizzazione, alle responsabilità connesse alle mansioni, ai rischi, alla naturale tendenza di perseguire il proprio benessere, alla competizione fra individui e gruppi. Tali interessi, nella loro dinamica e nei punti di equilibrio che generano, spostano l’azione organizzativa, determinano priorità diverse, lasciano cadere nell’oblio alcune funzioni incrementandone altre.

Non è possibile omettere l’analisi di tali fenomeni se si vuole capire veramente i motivi per cui l’amministrazione penitenziaria appare così frammentata e complessa.

Non avere cura dei processi decisionali, a tutti i livelli, non rendere coerenti le direttive che da più parti si incrociano, non tener conto che la gestione del personale non può che andare di conserva con quella della struttura e con gli obiettivi che la legislazione ci assegna in ragione del trattamento intramurario e del reinserimento esterno dei condannati, significa far prevalere l’interesse più cogente di quel momento a scapito di tutti gli altri.

Si sente il bisogno di una visione sistemica che curi la strategia e semplifichi le procedure e le logiche, in modo da ridurre i tempi di reazione amministrativa, le sovrastrutture autoreferenziali, le rendite di posizione disfunzionali agli obiettivi generali e che, allo stesso tempo, consegni alla percezione di tutti un’amministrazione più fluida, utile, unita, appagante, in altre parole un’organizzazione che faccia crescere quegli indicatori positivi di benessere organizzativo su citati.

La ricerca quotidiana di una via mediana tra tutti gli inevitabili interessi in gioco rischia di spostare quotidianamente l’obiettivo e l’attenzione.

Dinamiche istituzionali, interessi, mediazioni che intersecandosi generano “climi organizzativi” molto diversi nelle carceri, a volte opposti. Tutte le persone che lavorano o che vivono la pena in carcere sanno distinguere molto bene quali sono le carceri “buone” da quelle “cattive”, a seconda degli spazi di relazione, rigidità, flessibilità, disponibilità o chiusura, propensione all’innovazione o mantenimento dello status quo, che li caratterizzano.

Tutto questo non dipende dal quadro normativo vigente ma dalla capacità di “fare” organizzazione, ovvero di mantenere coerenza rispetto agli obiettivi e, nello stesso tempo, tener conto delle persone che lavorano e delle loro percezioni, desideri, timori, egoismi.

Questa “riforma quotidiana” non prevede costi finanziari particolari ma il costo dell’attenzione, del buon senso, del rigore e della umana serietà. Tutte queste questioni non sono mai state affrontate scientificamente e allora io temo che qualunque riforma, se non ne tiene conto, sia destinata a fallire, perché la quotidianità del carcere è, aldilà di tutti i principi generali, immersa in quella difficoltà complessiva di considerare gli interessi di tutti e mediare attraverso questi interessi.

 

Cambiare facendo attenzione a non creare disequilibri

 

Permettetemi di svolgere ancora una riflessione sul punto della necessità o meno di riformare il quadro normativo. Ben lungi dall’essere un conservatore, il mio vuole essere un richiamo all’attenzione da porre nei cambiamenti, soprattutto in ambiti così delicati quali quelli penali e penitenziari.

Un Ordinamento giuridico si dice tale in ragione della logica coerente che lo contraddistingue. Una modifica a macchia di leopardo significa modificare questo ordine, cambiarne i punti di equilibrio e creare un disequilibrio, con effetti negativi, spesso difficili da prevedere.

Ci sono dei segnali, più o meno deboli, che inducono ad una cauta preoccupazione.

In questi mesi si fa un gran parlare della sanità penitenziaria. Dopo otto anni di sostanziale disapplicazione della legge assistiamo ad una accelerazione nel processo di concretizzazione della volontà del legislatore. In uno dei dibattiti ai quali ho partecipato ultimamente ho sentito paventare l’ipotesi di inserire nel comparto sanitario e quindi trasferire alle A.S.L. anche le funzioni educative.

Mi chiedo se proposte di questo genere, perfettamente motivabili dal punto di vista della filosofia di fondo che vuole una società più coinvolta nella gestione della penalità, viceversa caratterizzata dalla separatezza e dall’isolamento, non snaturino completamente il senso della pena disegnato dai padri costituenti e dai riformatori del ‘75.

Affermare che gli interventi psico-sociali debbano rientrare nell’ambito della salute significa non tener più conto che l’Ordinamento penitenziario aveva previsto l’inserimento di vari esperti con finalità che non erano curative bensì osservative e trattamentali. Un utilizzo diverso dovrebbe implicare l’esplicitazione di un nuovo modello penitenziario non basato sull’osservazione e sul trattamento, bensì sulla cura.

Fare questo vorrebbe dire che chi finisce in carcere è un “malato”. Ma è questo che vogliamo?

E ancora. Dire che la funzione sanitaria deve essere esterna al carcere e deve dare una prestazione uguale a quella che c’è all’esterno, come se quella esterna fosse la migliore delle sanità di questo mondo, aggiungere che anche la funzione educativa deve essere esterna, così come quella psicologica, mi porta a riflettere su quello che rimane all’interno delle mura.

Pensiamo veramente che modifiche di questo genere non comportino la necessità di affrontare le ovvie e naturali difficoltà di relazioni di istituzioni diverse come linguaggio, finalità, logiche, con il rischio di pagare lo scotto dell’incomunicabilità e dell’autotutela a scapito del detenuto soggetto e dipendente da più istituzioni?

Non è che dietro a queste proposte scissioniste si celano interessi di questa o quella categoria in ragione di un ipotetico miglior trattamento e riconoscimento professionale? È già difficile far coabitare nella stessa istituzione figure professionali diverse, figuriamoci far coabitare più istituzioni con obiettivi e finalità diverse senza neppure quei richiami che l’Ordinamento penitenziario, appunto, molto opportunamente fa sul punto della coesione e del confronto multidisciplinare in ragione dell’unicità della persona detenuta. Differenziare e separare potrebbe indurre una maggiore difficoltà nello sforzo quotidiano della composizione dei vari interessi in campo e, voglio ribadire, un’organizzazione più lenta, meno coesa, più contraddittoria è foriera di disagio per gli operatori e di conseguenza di risultati più scadenti. Peccato che la mancata qualità di questo lavoro è la pena reale e concreta che noi offriamo quotidianamente.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe osservare che una visione siffatta pecca di pessimismo. A questa eventuale critica controbatto evidenziando altri segnali, questa volta affatto deboli, considerato che sono già stati tradotti in proposte normative concrete.

Se il malessere organizzativo può indurre psicologi ed alcuni educatori ed assistenti sociali ad immaginare una collocazione esterna all’amministrazione penitenziaria, cosa dire delle proposte, molto più concrete e finalizzate, di dare alla polizia penitenziaria ruoli di controllo, sino ad oggi e grazie all’ordinamento vigente svolti dal servizio sociale penitenziario, dei condannati in misura alternativa? Si evoca la necessità di una pari dignità rispetto alle altre forze di polizia così come la necessità di una giusta visibilità negata dai muri di cinta. Sono o non sono, questi, gli effetti di una mancata attenzione a dinamiche interne dell’amministrazione penitenziaria che hanno determinato autonome derive? E cosa dire del costituendo Garante Nazionale dei diritti dei detenuti che si fonda, per larga parte, sulla considerazione che la funzione di controllo del Magistrato di Sorveglianza non è stata, negli anni, sviluppata adeguatamente e che comunque non può definirsi terza essendo coinvolta nel processo di modificazione della pena detentiva? Da questo la necessità di un’autorità di garanzia terza. Perché non insistere sulla effettiva applicazione della norma e della funzione piuttosto di costituire nuove strutture ed impegnare risorse finanziarie che potrebbero essere utili per l’attuale sistema?

Non sono forse queste proposte il frutto di tensioni e malesseri sino ad oggi trascurati, se non addirittura misconosciuti e non presi in considerazione o peggio gestiti con la logica della ricerca del consenso ad ogni costo? Pensiamo veramente che una o più riforme possano superare questi ostacoli insidiosi?

In conclusione, in queste poche righe, ho inteso semplicemente sottolineare la necessità di approfondire le tematiche dell’azione organizzativa concreta prima di dare per scontata la necessità di riforme strutturali per via legislativa, ritenendo che la prima debba essere prodromica e complementare ai cambiamenti strutturali che l’evolvere del tempo e della sensibilità sociale rende opportuni.

Le ambiguità della parola “rieducazione”

Rieducazione e libertà di coscienza

Compaiono ancora troppo spesso nella manualistica affermazioni, secondo cui il trattamento penitenziario ha, tra gli altri, lo scopo di modificare la personalità del condannato in senso “eticamente valido”

 

di Rosanna Tosi

docente di Diritto Costituzionale

 

Sono sempre stata convinta che la parola “rieducazione” che leggiamo nell’art. 27 della Costituzione sia una parola ambigua, potendo evocare sia un intervento rivolto ad incidere direttamente sui valori etici del condannato sia un intervento che, senza escludere una tale eventualità, si propone un fine più circoscritto, ossia quello di costruire le condizioni per ricondurre il condannato nell’alveo della legalità. Credo, tuttavia, che la stessa Costituzione imponga di scegliere la seconda tra le due alternative che la parola in questione sembra lasciare aperte. I significati da dare alle parole che compaiono nei testi normativi vanno ricercati con l’ausilio di quella che i giuristi chiamano interpretazione sistematica: ogni parola deve essere intesa tenendo conto del contesto nel quale si situa.

Nel nostro caso occorre considerare che una rieducazione che volesse incidere sul sistema dei valori etici del condannato sarebbe ingiustificatamente lesiva della sua libertà di coscienza. Ciascuno di noi, condannato o meno che sia, è libero di ritenere che furto e rapina siano buoni mezzi per assicurare una più equa ridistribuzione del reddito; ciò che la legge chiede a tutti è soltanto di astenerci dai comportamenti puniti dagli artt. 624 e 628 del Codice penale.

Non varrebbe notare che la Costituzione non fa menzione della libertà di coscienza. Che la libertà di coscienza sia costituzionalmente garantita è un dato pacifico, come è pacifico che esistono norme implicite, in quanto presupposte da altre: e questo è proprio il caso della libertà di coscienza, come di altri diritti. Il diritto alla vita non sta scritto in Costituzione, ma è certamente desumibile dall’art. 2 (diritti inviolabili) e dall’art. 27, che vieta la pena di morte. Ancora: neppure il diritto alla riservatezza trova previsione espressa, ma nessuno dubita che sia presupposto dalle disposizioni che garantiscono il diritto di domicilio e il diritto di corrispondenza (artt. 14 e 15). In modo analogo si ragiona a proposito della libertà di coscienza: il suo fondamento costituzionale è certo, in quanto implicitamente presupposta da altre libertà espressamente previste: si pensi alla libertà religiosa e alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 19 e 21) che non sono neppure concepibili in assenza di libertà di coscienza.

Se questa è la prospettiva da assumere, eventuali disposti subcostituzionali che non la rispettassero sarebbero illegittimi, a meno che non fosse possibile una interpretazione adeguatrice, ossia una loro lettura conforme al testo costituzionale, che esclude interventi e valutazioni riguardanti il “foro interno”, cioè la coscienza del condannato.

Penso, ad esempio, all’art. 176 Codice penale che subordina la liberazione condizionale al “sicuro ravvedimento”. Considerata l’epoca in cui questa regola è stata scritta, si potrebbe anche pensare che al legislatore di allora non ripugnasse una compressione della libertà di coscienza; ma lo stesso tenore testuale della disposizione sembrerebbe respingere questo sospetto, dal momento che il ravvedimento deve emergere dal “comportamento” tenuto durante il tempo della esecuzione della pena, senza alcuna allusione, più o meno esplicita, ad indagini e valutazioni che abbiano ad oggetto i valori etici del condannato. E, comunque, non ci sono difficoltà a leggere la parola ravvedimento in senso conforme alla Costituzione, quale situazione che consente una prognosi favorevole in relazione al rispetto della legge. E sarebbe solo ingenuità (o ipocrisia) immaginare che una tale prognosi avrebbe maggiori probabilità di dimostrarsi esatta, se fosse fondata anche su un ripensamento etico; è fin troppo noto che i codici etici sono inadeguato presidio della legalità, contando circostanze di tutt’altro tipo (un buon equilibrio emotivo, la situazione economica e sociale, ecc.).

Neppure nel regolamento in tema di trattamento penitenziario, portatore della normativa di più minuto dettaglio, si trovano norme che facciano pensare ad un rilievo del “foro interno”. Basti vedere, a proposito della “Osservazione della personalità” (art. 27 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), la prevista riflessione da espletare con il condannato “sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento della persona offesa”: si tratta – con ogni evidenza – delle premesse di un percorso di consapevolezza, che lascia del tutto fuori ogni adesione valoriale, puntando piuttosto a sottolineare i meccanismi della responsabilità e a suggerire bilanciamenti razionali quale base di ogni scelta di comportamento. Nulla, dunque, che faccia pensare ad un trattamento che debba portare al ripudio della propria storia, dove – come per ciascuno di noi – bene e male si intrecciano (il compagno di rapina è anche quello con cui ha condiviso gioie e dolori, l’amico che ha aiutato quando era malato, che gli ha presentato la donna che ama, che ha giocato con i suoi figli…).

A fronte di una situazione normativa che ad ogni livello dell’ordinamento (costituzionale, legislativo, regolamentare) non giustifica incursioni nella coscienza del condannato, ancora compaiono nella manualistica affermazioni secondo cui il trattamento penitenziario ha, tra gli altri, lo scopo di modificare la personalità del condannato in senso eticamente valido; e anche temo accada che a tali affermazioni faccia riscontro una serie di prassi trattamentali. A sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la cultura dello Stato di diritto non è ancora patrimonio comune e indiscusso.

Il vero ostacolo è la reazione sociale al crimine

Il senso della pena è anche affare della comunità

è soprattutto affare nostro

Non si ricostruisce la frattura sociale del reato con l’inasprimento sanzionatorio

 

di Carlo Alberto Romano

Docente di Criminologia e Criminologia penitenziaria

Università degli Studi di Brescia

 

Interrogarsi sul senso della pena presuppone una duplicità di risposte: alcune teoriche, che vi eviterei, e riguardo alle quali, per altro, sposo a pieno l’intervento di Mauro Palma che da un punto di vista metodologico è assolutamente prodromico rispetto a quello che sto per dire.

Da un punto di vista concreto, invece, due parole le vorrei dire. Vorrei fare due chiacchiere insieme con voi, persone, non reati che camminano. Non per noi, ma per molti di quelli che sono fuori, siete reati che camminano. Purtroppo questa è la realtà. La reazione sociale al crimine è terribile ed è il vero ostacolo al perseguimento degli obiettivi che invece devono accomunarci, sia da un punto di vista normativo che da un punto di vista realizzativo. Ma questo non deve essere un limite. La consapevolezza delle difficoltà, il fatto che l’indulto abbia avuto questo drammatico impatto dal punto di vista della reazione sociale, certamente ci sconforta, ma credo che debba essere un ulteriore stimolo per dirci che la comunità deve reagire.

Ma siamo davvero in grado di reagire e di dire qualcosa su questi argomenti? Se un apparato mediatico ci parla dell’indulto nei modi di cui siamo stati testimoni e che sono paradigmatici di un modello di pensiero, se la reazione sociale all’indulto ci dice che la gente è frastornata, dobbiamo però constatare che le cifre sono ben diverse. I numeri della recidiva, i numeri dei fallimenti delle misure alternative, i numeri di chi ha avuto il coraggio di scommettere sulla propria esistenza, sono diversi da quanto paventato e, in questo senso, credo che la comunità abbia l’obbligo di fare qualcosa. Altrimenti rischiamo di tornare a una situazione nella quale l’unica cosa da fare è evocare l’intervento del legislatore, che spesso non è presente quando lo cerchiamo.

Franco Corleone stamattina ha esordito dicendo: stiamo perdendo una grossa occasione. È vero, ma la stiamo perdendo dal primo gennaio del 1948, quando è stata promulgata la Costituzione, nella quale al terzo comma dell’art. 27 si dice che la pena deve tendere alla rieducazione. È da allora che stiamo perdendo l’occasione. Ed è da li che dobbiamo ricominciare con l’apporto di tutti. Voglio portarvi alcuni esempi, anche se è un po’ imbarazzante parlare di esempi qui a Padova, in questo contesto nel quale credo si realizzi al meglio la sinergia fra territorio e istituzione penitenziaria, e quindi siamo in presenza di un esempio positivo. Però cercherò di darvi alcuni esempi ulteriori di come la comunità possa in qualche modo riuscire a rompere questa pericolosa visione dei reati che camminano. Interventi ed enti rispetto ai quali la comunità può farsi parte attrice nell’attuare una cultura della pena che non pensa più all’afflittività carceraria come fine a se stessa e nella quale si esaurisce il mandato sanzionatorio (che dovrebbe limitarsi alla privazione della libertà, tutto il resto è aggiuntivo).

La strada da percorrere è quella di portare le medesime opportunità a chi si trova in esecuzione penale, interna o esterna non importa, di chi non lo è. Non si ricostruisce la frattura sociale del reato con l’inasprimento sanzionatorio, di cui fra l’altro, è tutto da stabilire il benefico apporto, ma si ricostruisce offrendo opportunità concrete di cambiamento alla persona; non al reato che cammina, alla persona.

Credo che possa farlo al meglio la comunità, superando l’ottica della delega deresponsabilizzatrice all’amministrazione penitenziaria, che tra l’altro ha dimostrato di non saperla (e forse neanche volerla) gestire adeguatamente.

Occorre che tutta la comunità si mobiliti. Occorre portare cultura in carcere, le esperienze teatrali, le esperienze d’educazione musicale, vi cito esempi che conosco e che appartengono alla nostra realtà, le esperienze d’integrazione con la scuola, la scuola in carcere, la scuola fuori, il contatto con la scuola per far capire che cosa sia il carcere, e che cosa sia la pena. Lo studio, per chi è in carcere, è fondamentale, e deve comprendere dalla scuola dell’obbligo, l’alfabetizzazione se occorre, alla scuola secondaria. Occorre inoltre far conoscere università e carcere, occorrono convenzioni con le università, fondamentali per poter permettere ai detenuti che ne abbiano il titolo di accedere agli studi universitari. E soprattutto bisogna fare entrare le università in carcere, perché altrimenti si continua a fare magnifiche relazioni, a scrivere stupendi manuali, nei quali troviamo delle indicazioni teoriche bellissime, ma che si scontrano, soccombendo, con i piccoli ostacoli dati dai meccanismi della procedura quotidiana dell’amministrazione penitenziaria. Se l’università entra in carcere ci guadagnano sia l’università sia il carcere.

 

La giustizia riparativa è un modo per avvicinare la comunità alla soluzione del problema sicurezza

 

Su che cosa bisogna poi concentrarsi? Occorre lavorare sull’affettività, un concetto complessivo che comprende almeno due aspetti, la tutela della genitorialità e della relazione affettiva in genere, e la tutela (o il consenso all’esercizio) della sessualità.

La Svizzera ha un Ordinamento penitenziario direi certamente più rigido del nostro, eppure la Svizzera, a Lugano, ha organizzato la casetta degli incontri: a 50 km da Milano. Non è una cosa impossibile da realizzare all’interno del contesto penitenziario, quindi in termini di assoluta sicurezza. Si tratta di consentire, con la dovuta tutela della privacy, di incontrare i propri cari e, per chi lo desideri, di poter esercitare anche il proprio diritto ad una vita relazionale che comprenda la sessualità.

Inutile richiamare l’attenzione sull’indispensabilità di reperire lavoro: meglio ricordare come l’intervento del territorio in questo campo sia assolutamente essenziale. È impossibile pensare di relegare il problema ai soli compiti istituzionali degli enti locali. Occorre una ricerca costante da parte del territorio di collegamenti, di sinergie di coinvolgimenti con le associazioni di categoria.

Occorre realizzare un costante contatto proprio con le associazioni di categoria che rappresentano il territorio, se serve bisogna andare a tirare la giacca alle associazioni industriali e a quelle della piccola e media impresa. Certo è faticoso, però è un percorso senza il quale non disponiamo di concretezze di cui discutere.

Possiamo parlare finché vogliamo di giustizia riparativa, ma è necessario trovare dei punti di partenza da cui avviare in concreto questi percorsi.

Vi voglio fare un esempio recentissimo, accaduto nella mia città. La vittima di un sequestro, un nome molto famoso, ha fatto un percorso personale attraverso il quale ha elaborato alcuni modelli di pensiero rispetto ai propri sequestratori, ai propri carcerieri. Questi suoi pensieri, che, badate bene, nulla hanno a che fare con il perdonismo, come egli stesso ha chiarito, ma che in qualche modo riguardano il fatto di capire i perché dell’agire dei propri sequestratori e cercare di evitare che altri si trovino in quelle situazioni, li ha voluti rendere pubblici. Questa persona è venuta in università e ha parlato in un’aula magna gremita di persone, è entrata in carcere e ha parlato con i detenuti della mia città della sua esperienza.

Questa è giustizia riparativa. Questo sana le fratture e getta le basi per la ricostruzione personale, della vittima e dell’autore, non più reato deambulante ma persona.

Certo, mi rendo conto che abbiamo sempre necessità di confrontarci sui significati, sui contenuti e sui sistemi di processo della giustizia riparativa, ma abbiamo anche bisogno di cose concrete. Perché da quell’aula magna alla fine qualcuno è uscito comprendendo che giustizia riparativa è soprattutto un modo per avvicinare la comunità alla soluzione del problema sicurezza, per superare l’ottica della risposta vendicativa, per rompere quel conflitto arcaico, impermeabile e tendenzialmente insanabile che notoriamente esiste ogni qualvolta si compie un reato.

Non si deve poi tralasciare il tema dell’housing, un problema enorme da gestire nel quale la comunità e il territorio debbono dire la loro, e lo possono fare avviando la gestione di progetti di housing, in sinergia con le istituzioni. Nessuno chiede di lavorare in splendido isolamento, sarebbe anzi del tutto controproducente. L’utilizzo del progetto di housing permette inoltre di contaminare positivamente con questo approccio anche gli altri progetti, quelli relativi al lavoro, quelli relativi alla tutela dell’affettività e al recupero dei legami affettivi.

Credo che un’intuizione fondamentale per legare il territorio con l’istituzione penitenziaria, possano essere i segretariati sociali. Il coinvolgimento del territorio, dell’associazionismo e delle istituzioni penso sia la strategia preferibile anche per la risoluzione dei molteplici problemi che riguardano gli immigrati, in genere, e quelli in carcere, nello specifico.

Tutta questa mole di lavoro va affrontata con strumenti formali: protocolli da realizzare tra l’associazionismo, le istituzioni e l’amministrazione penitenziaria affinché tutte queste azioni non restino mere intuizioni o, nel migliore dei casi, non restino una, se pur buona, prassi esistente fra poche persone che si occupano di esecuzione penale e pochi interlocutori pubblici.

I protocolli permettono l’esportabiltà dell’esperienza, permettono di mettersi intorno a un tavolo e di comprendere gli errori, se serve, e serve quasi sempre, permettono di migliorarsi. Sono fondamentali per formalizzare, per quanto possibile, i rapporti. Uno degli strumenti per poter raggiungere tutti questi risultati c’è già, esiste.

Il settimo comma dell’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario si può utilizzare anche per programmi molto concreti, coinvolgendo il territorio. Gli UEPE sono fondamentali in questo senso, occorre però che gli UEPE siano a conoscenza di che cosa può offrire il territorio, ma se il territorio non dialoga con gli UEPE saremo sempre punto a capo.

I tavoli dell’esecuzione penale, da molti territori già avviati o perlomeno dalla norma già previsti; i tavoli che scaturiscono dalla normazione ex legge 328 e che attribuiscono ai Comuni la possibilità di riunire in una conferenza tutti gli attori dello scenario dell’esecuzione penale, sono un altro strumento di grande potenzialità. Se il tavolo dell’esecuzione penale diventa qualcosa di concreto, un vero scambio di esperienze anziché un mero esercizio rappresentativo, la comunità può lavorare molto e bene per recuperare quel senso della pena da cui eravamo partiti.

Concludo con un’ultimissima testimonianza. Il sette maggio il consiglio comunale della mia città, Brescia, è stato convocato in carcere, e si è tenuto in carcere. L’occasione è stata la lettura della relazione del garante per i diritti dei detenuti, una figura fondamentale che spero ogni municipalità riesca ad avere. È stata un’esperienza dal forte valore simbolico, foriera di conseguenze rilevanti, però, anche dal punto di vista pratico.

L’iniziativa, l’azione e gli effetti sono tutti e comunque riconducibili ad un’unica idea di fondo: il senso della pena è anche affare della comunità, è soprattutto affare nostro.

 

 

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