Le pene e L'Europa

 

I numeri del carcere in Europa destano allarme

A quali reati riservare la punizione grave e dura: la detenzione?

Cosa punire e come punire sono domande ineludibili per chi voglia interrogarsi seriamente sul significato del sistema penale, in un momento in cui anche gli Stati europei guardano all’America, che mantiene l’intervento punitivo ancorato alla mera retribuzione e alla necessità di rispondere con violenza simmetrica al male commesso

 

di Mauro Palma

Presidente del Comitato per la prevenzione della tortura,

dei trattamenti e delle pene inumami e degradanti

 

Voglio innanzi tutto ringraziarvi per l’iniziativa e per l’invito. Non è la prima volta che partecipo a un’ampia discussione, qui al Due Palazzi, sui temi del diritto penale e della detenzione: ho avuto l’occasione di trarre stimoli importanti in questi confronti sin dai tempi in cui intervenivo come presidente di Antigone, occupandomi di questi stessi problemi, relativi alle pene e al carcere, sotto un’altra veste.

Ringrazio in maniera particolare, chi in questo carcere cosi attivamente a tutti i livelli lavora, chi è temporaneamente “accolto” suo malgrado in questa struttura, e chi vi dedica tempo e intelligenza a livello volontario. Come mi è capitato altre volte, esprimo invece la difficoltà a misurarmi istituzionalmente con l’assenza odierna delle autorità italiane che hanno la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria a livello centrale: devo dedurre che esse non ritengono utile per il proprio difficile compito il confronto all’interno di un’iniziativa come questa, con coloro che ragionano attorno ai temi delle finalità, delle modalità e dei limiti della detenzione nel nostro paese – quasi non sentendosi parte di un comune cammino di ricerca di soluzioni praticabili a problemi molto complessi.

Ciò che invece si avverte di molto positivo nel discutere all’interno di questo Istituto è proprio la ricerca della costruzione di una cultura coesa, condivisa, che, a livelli diversi, divenga patrimonio di tutti e che, quindi, sia in grado di dare fisionomia complessiva al nostro sistema dell’esecuzione penale. Fisionomia e riconoscibilità che mancano invece al sistema penitenziario italiano, dove, pur in presenza di alcune positive esperienze ed iniziative, non si riesce più a leggere una direzionalità, un progetto.

Questa assenza di fisionomia per uno strumento largamente del passato quale è il carcere, non è tuttavia solo italiana: la ritroviamo all’interno del vecchio continente europeo, sempre in bilico tra la fedeltà ai propri valori post-illuministici che vogliono ogni intervento finalizzato a una possibile positività e utilità sociale, e l’attrazione verso modelli transatlantici, in grande voga negli Stati Uniti d’America, che mantengono l’intervento punitivo ancorato alla mera retribuzione e alla necessità di rispondere con violenza simmetrica al male commesso.

Il comitato che io presiedo non ha solo il compito di vigilare sulle situazioni di privazione della libertà, prevenendo abusi e violazioni, ma anche quello di dare un contributo alla costruzione di una cultura della sanzione penale e della sua modalità detentiva, che sia in grado di trovare le vie per il reinserimento sociale e per la prevenzione di comportamenti recidivi, mantenendo ferma la tutela dei diritti di tutti, anche di chi ha commesso un reato.

Il comitato ha un nome abbastanza lungo “Comitato per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumami e degradanti” riprendendo così la lettera dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, che recita appunto: “Nessuno sarà sottoposto a tortura o a trattamenti e pene inumani o degradanti”.

Ma, mentre è relativamente semplice accordarsi su una definizione di tortura, è assai più complesso stabilire quando un trattamento o una situazione detentiva è contraria al senso di umanità, è un trattamento definibile, appunto, come “inumano o degradante”. Un aiuto in questa direzione viene dalle sentenze della Corte europea di Strasburgo che vigila sull’adempimento degli Stati agli obblighi derivanti dalla Convenzione del 1950.

 

Non si deve costringere nessuno a vivere in condizioni non rispettose della sua dignità

 

Citerò allora due sentenze relativamente recenti, che ben si possono riferire anche alla situazione italiana. La prima è del 2003, relativa al ricorso di un ex detenuto contro la Russia, ed è una sentenza da cui chiaramente emerge che un trattamento può essere ben definito come inumano e degradante anche in assenza di una esplicita volontà di infliggere sofferenza. Nel caso specifico il trattamento così definito era il risultato della stessa situazione detentiva, delle sue carenze e delle condizioni materiali in cui il detenuto era stato tenuto, per sovraffollamento, mancanza di igiene, esposizione a possibili malattie: era la situazione detentiva offerta che era di per sé un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Le autorità penitenziarie non avevano esercitato alcuna violenza diretta, al contrario avevano cercato di alleviare la condizione del detenuto; tuttavia la situazione da esse gestita, è stata definita inumana e degradante come frutto di una mancata politica penitenziaria volta a garantire i diritti fondamentali della persona, in primo luogo il diritto a essere posto in una situazione rispettosa della dignità personale e ad essere tutelato nella propria salute. Le condizioni materiali, dallo spazio ristretto all’assenza di letto, le condizioni igienico-sanitarie, il regime offerto sono state giudicate inaccettabili.

L’elemento centrale di questa sentenza è, quindi, proprio nel fatto che il sovraffollamento, l’assenza di tutela della salute, l’alloggiamento in situazione insalubre, promiscua e con mancanza di accesso all’aria, sono tutti fattori che considerati insieme determinano un trattamento inaccettabile. Essi non sono il risultato, come ho detto, di una volontà esplicita di infliggere sofferenza bensì il risultato di politiche omissive, di assenza di prevenzione, di incapacità di risolvere problemi, di anteposizione della necessità securitaria a quella di non costringere comunque alcuna persona a vivere in condizioni non rispettose della sua dignità.

La seconda sentenza, dello stesso anno, ha caratteristiche diverse, ma ugualmente interessanti per il nostro dibattito. Riguardava il ricorso di un detenuto sottoposto a regime di alta sicurezza nei Paesi Bassi. I suoi colloqui con la famiglia avvenivano attraverso un vetro separatore, senza alcuna possibilità di contatto fisico tra il detenuto e i familiari. Ciononostante il detenuto era sottoposto a perquisizione corporale, intima, dopo i colloqui. La Corte ha ritenuto che, non essendo possibile alcun contatto tra detenuto e familiari, il fatto che egli venisse sottoposto di routine a questo tipo di perquisizione, configurava un trattamento inumano e degradante, una diminuzione della sua dignità in assenza peraltro di alcuna motivazione fattuale. Il significato di questa seconda sentenza risiede nell’affermare che le misure adottate per interrompere la comunicazione tra l’interno e le organizzazioni criminali di appartenenza non possono tradursi invece in misure vessatorie verso la persona che ne è soggetta, non possono essere misure di improprio inasprimento della detenzione, non giustificate da altre finalità e, quindi, di fatto volte ad aggredire la sua dignità personale.

Ho citato due sentenze, riferite a casi molto diversi, ma entrambi interessanti nel dibattito sui limiti del punire e sullo scrupoloso rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse.

Ne emerge un quadro complesso che pone sempre nuovi problemi nel cercare di definire quando un trattamento è da considerarsi “inumano o degradante”.

A monte di tale complessità vi è il principio che stabilisce che l’articolo 3 della Convenzione indica un divieto inderogabile: al contrario degli obblighi stabiliti in altri articoli, rispetto ai quali è possibile derogare in caso, per esempio, di guerra, di situazione di pericolo per la nazione, per l’articolo 3 – come del resto per altri articoli, quali quello sulla tutela della vita, sul divieto di schiavitù e simili – nessuna deroga è possibile. Nessuna condizione “speciale” può giustificare il ricorso da parte di uno stato alla tortura o a un trattamento contrario al senso di umanità.

Questo principio è particolarmente importante nel contesto attuale di “guerra al terrorismo internazionale”, soprattutto nel dibattito che si è stabilito anche in Europa, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 e la conseguente legislazione adottata negli Stati Uniti.

Nello scossone incredulo che ha seguito quella data, molti paesi europei sono ricorsi all’adozione di misure antiterrorismo che hanno spesso messo a duro rischio i principi stabiliti nelle Convenzioni adottate negli anni Cinquanta, dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale. Stati con grande tradizione democratica hanno richiesto di poter detenere le persone per lunghi periodi, a volte anche per un periodo indeterminato, senza che queste venissero portate davanti al magistrato per la convalida della loro privazione della libertà, e senza alcuna imputazione formale. Quasi ovunque si sono chieste “mani libere” nel detenere persone, alcuni hanno proposto che il principio dell’intangibilità dei diritti fondamentali delle persone venisse bilanciato con la necessità di garantire la sicurezza della nazione e non fosse, quindi, più considerato come assoluto; altri ancora hanno avviato un ambiguo dibattito sulla possibilità di utilizzare “metodi forti”, coercizione fisica, durante gli interrogatori dei sospettati. In questo panorama – su cui non voglio qui dilungarmi – l’esistenza di una Convenzione e di organi di controllo sugli adempimenti degli Stati è stato un patrimonio forte, che ha permesso di fronteggiare i tentennamenti e di tenere saldi alcuni principi nel territorio europeo.

Questa premessa è per dire quanto complesso e allo stesso tempo importante sia il monitorare continuamente le situazioni, individuare gli elementi di criticità e di possibile violazione, a partire da uno strumento forte, quale è un comune trattato stipulato a suo tempo dagli Stati.

 

C’è una crescente richiesta di carcere

 

Per rivolgermi ora a una rapida analisi di alcuni aspetti critici nel sistema penitenziario italiano ed europeo, voglio innanzitutto osservare che sia nel dibattito, sia nelle situazioni concrete, si ritrovano elementi di similarità tra quanto si osserva in Italia e quanto si osserva negli altri Stati europei. L’attuale tendenza a un “pensiero reclusorio”, alla crescente richiesta di carcere, non riguarda solo l’Italia: riguarda quell’Europa, ormai spesso definita come “fortezza”, soprattutto per la sua chiusura ai flussi migratori che verso di lei accedono e a cui sempre più risponde con situazioni non socialmente inclusive, ma di mero respingimento e privazione della libertà. Oggi accanto al carcere si moltiplicano luoghi dove le persone sono, appunto, private della libertà, spesso senza aver commesso alcun reato, ma solo un illecito amministrativo, quello di essere irregolarmente presenti nel territorio.

L’Europa vive attualmente grandi contraddizioni: ne celebriamo la capacità di dotarsi di organismi che vigilano sul rispetto dei diritti delle persone recluse e al contempo ne vediamo la debolezza e la subalternità nel consentire che sopra i propri cieli e nei propri aeroporti viaggino o atterrino aerei sospettati di trasportare persone in totale violazione di tali principi. Recentemente si sono conclusi nel Consiglio d’Europa i lavori della commissione che ha indagato sui voli segreti della C.I.A. e nel rapporto finale viene indicato un numero molto elevato di voli sospettati, quanto meno, di trasportare illegalmente all’interno degli aerei dei prigionieri, senza alcuna notifica o dichiarazione alle autorità aeroportuali dove tali aerei atterravano per poi ripartire, del loro effettivo carico. Molti Stati europei hanno spesso chiuso i propri occhi di fronte a tale realtà, non hanno indagato le denunce che pure hanno ricevuto, hanno finito col dimostrare grande subalternità e scarsa volontà di garantire nei fatti, ciò che a parole dichiarano essere propri valori costitutivi.

Anche a fronte dei primi risultati della commissione, delle indicazioni contenute nel suo rapporto e delle richieste di indagine, la risposta è stata tiepida, non centrata sulla effettiva volontà di fare chiarezza, né sulla consapevolezza di quanto della propria identità si andava perdendo dietro tale timidezza e tale accondiscendenza verso le richieste statunitensi: l’Europa sembra a volte più interessata a perseguire la contraffazione dei prodotti, a perseguire i falsificatori di CD che ad indagare i voli illegali avvenuti nel proprio territorio e a perseguire chi, almeno per omissione, li ha consentiti.

Questo elemento rimanda a una domanda fondamentale proprio sul senso della pena, oggetto di questo convegno: rimanda alla scala dei valori e beni giuridici tutelati, alle priorità da definire nell’utilizzo di quello strumento importante e costoso che è lo strumento penale e, conseguentemente, al come punire, ovvero a quali reati riservare quella punizione grave e dura, che è la detenzione.

Cosa punire e come punire sono domande ineludibili per chi voglia interrogarsi seriamente sul significato del sistema penale. Nel suo intervento, Luciano Eusebi ha sottolineato il fatto che i massimi edittali delle pene in Italia sono estremamente alti, più alti di quelli previsti da altri paesi europei. Ne ha tratto una indicazione, che fortemente condivido, di riduzione di tali massimi, come linea guida nell’attuale fase di ridisegno del Codice penale. Aggiungo alla sua osservazione un’altra attenzione che chi sta lavorando per il nuovo Codice deve avere presente: è l’attenzione ai minimi di pena. C’è nel dibattito europeo una tendenza – per me preoccupante – a diminuire la forbice di modulazione della pena affidata al giudice. Si diminuiscono i massimi, ma parallelamente si innalzano i minimi, dietro una richiesta di dare comunque almeno una pena di una prestabilita durata. I paesi europei sempre più tendono a trovarsi d’accordo nell’indicare che ogni sistema deve prevedere al suo interno per il reato x una pena di almeno y. Questa tendenza porta sempre più ad assottigliarsi lo spazio di discrezionalità relativo alla valutazione del singolo caso, porta quasi a togliere il soggetto dalla scena processuale, alla rincorsa di un automatismo punitivo: il modello che così si afferma rischia di divenire pericolosamente rigido.

 

La “certezza della pena” è intesa oggi come pene fisse, rigide, non modulabili

 

Se, in questo rapido parallelo tra situazione italiana e situazione europea, consideriamo poi l’esecuzione delle pene, ci accorgiamo invece di forti arretratezze nel nostro paese, del persistere di modelli ampiamente superati in altri paesi e che invece da noi sembrano immutabili.

Il primo elemento riguarda il diritto alla sessualità dei detenuti e quindi la possibilità di avere dei colloqui appartati con il proprio partner, con la propria famiglia, in strutture adeguate. Dal punto di vista teorico l’esercizio di tale diritto evita che la pena si configuri quasi come punizione corporale, introducendo un elemento menomante della fisicità e della psiche della persona. Dal punto di vista pratico l’esperienza di altri paesi mostra come tale possibilità sia anche di aiuto per una vita più regolata all’interno degli stessi istituti penitenziari. Dal punto di vista dell’attuazione sono ormai molte le esperienze di realizzazione, tali da poter costituire un modello esportabile anche nel nostro contesto: buone pratiche che hanno spazzato via tutti i tentennamenti e i dubbi che si erano manifestati prima della loro adozione. L’amministrazione penitenziaria italiana del resto ha avuto funzioni di consulenza nel ridefinire il sistema penitenziario di molti Stati recentemente giunti alla democrazia, sia Stati dell’Est europeo, sia Stati balcanici. In tutti questi nuovi ordinamenti penitenziari tale possibilità è stata introdotta ed è perciò singolare che la nostra amministrazione, che ha fatto parte del pool di esperti-consiglieri di altri, sia così poco propensa a introdurre questa possibilità proprio nel territorio di sua diretta responsabilità. Credo che su questo aspetto debba svilupparsi una forte richiesta e una forte rassicurazione del personale che in carcere opera circa la praticabilità di tale ipotesi.

Un secondo elemento di anomalia del sistema esecutivo italiano rispetto a quello di altri paesi europei è nella possibilità di intervenire in sentenza su modalità di aggravamento delle forma di esecuzione della detenzione. Mi riferisco alle previsioni dell’articolo 72 del Codice penale che prevede la possibilità per il giudice di comminare in sentenza, oltre alla lunga pena detentiva, spesso l’ergastolo, anche l’isolamento diurno per un certo periodo, spesso per anni.

La separazione tra pena e sua esecuzione – la prima di responsabilità del giudice, la seconda dell’amministrazione penitenziaria – è netta un po’ in tutti gli ordinamenti. L’isolamento di un condannato è uno strumento di natura disciplinare che può essere deciso, con apposita procedura e relative garanzie, da chi ha responsabilità disciplinari, da chi segue il detenuto nel suo percorso. Non può essere preso come uno strumento di aggravio della detenzione. Va qui ricordato che la privazione della libertà è la pena, non altre imposizioni su di essa.

Questa forma di ergastolo più isolamento non ha legittimità nel contesto europeo e più volte il Comitato per la prevenzione della tortura ha raccomandato alle autorità italiane di provvedere alla sua abolizione: penso e spero che l’attuale ridefinizione del Codice penale possa offrire l’occasione per intervenire con speditezza su questo punto.

Vale la pena inoltre ricordare che un conto è la possibilità di attribuire in sentenza una forma alternativa alla detenzione, diminuendo così il ricorso al carcere, un altro è quello di attribuire in sentenza una modalità della detenzione più afflittiva, senza peraltro possibilità di intervento da parte di chi sarà poi responsabile della sua esecuzione.

Un ultimo aspetto che vorrei sottolineare accomuna oggi un po’ tutti i paesi europei e riguarda la cultura che fa da sfondo ai problemi che qui dibattiamo. Una cultura rigida che sta ormai pervadendo l’opinione pubblica quando si parla di carcere, un pensiero reclusorio centrato su due aspetti: il primo, che io definirei della “meritevolezza del castigo”, cioè un consenso attorno all’idea che chi ha commesso un reato ha meritato il castigo e deve quindi scontarlo fino in fondo; il secondo è quello che passa sotto la locuzione “certezza della pena” e che vuole pene non già certe – la certezza della pena per chi si occupa di diritto è un’altra cosa – bensì fisse, rigide, non modulabili.

A ben vedere questi aspetti sono il prodotto di un pensiero sociologico che non accetta più di misurarsi con la complessità, che non legge più tonalità di grigi, ma vuole vedere solo bianchi o neri perché ricerca ipotesi interpretative semplicistiche, rifiutando quelle interrelazioni, quell’approccio sistemico che ha invece caratterizzato il dibattito nei passati venti-trenta anni. Non ci sono più motivazioni di contesto, c’è solo la colpevolezza individuale e se sei colpevole, meriti il castigo che deve essere tale, senza porsi altri interrogativi. Questo è un atteggiamento del pensare che attanaglia non soltanto l’Italia, bensì tutta l’Europa e che porta a far crescere sia la domanda sociale di carcere sia i numeri della detenzione – e in Italia il fenomeno è stato solo temporaneamente arginato dall’approvazione del provvedimento di indulto.

I numeri del carcere in Europa destano allarme, anche perché seguono un trend che ha caratterizzato nei decenni scorsi il forte aumento della detenzione negli Stati Uniti. Molti di noi ricordano che, mentre in Italia discutevamo della prima legge penitenziaria repubblicana – l’Ordinamento del 1975 – negli Stati Uniti il tasso di detenzione era in media poco superiore a 1: 1000, cioè un detenuto ogni mille abitanti. Che è poi il tasso che l’Europa ha in media attualmente. In trent’anni questo tasso è aumentato di più di sette volte e oggi supera il valore 8. Ora quando indichiamo 8 detenuti ogni mille abitanti, consideriamo la popolazione nel suo complesso. Ma, in realtà nell’insieme dei mille abitanti includiamo anche bambini e vecchi: il valore allora rapportato alla popolazione adulta in età di delinquere è ben più alto. Non solo, ma dobbiamo considerare che la detenzione femminile è in percentuale molto minore di quella maschile – le donne un po’ ovunque non superano il 6% dell’intera popolazione detenuta. Se poi distinguiamo tra chi abita in vaste metropoli, spesso nelle loro periferie, e chi abita nelle campagne e se poi procediamo a definire meglio il nostro universo di riferimento statistico, ci accorgiamo che per un giovane maschio trentenne abitante in una periferia di una grande città, la possibilità di finire nel circuito detentivo, la stessa esposizione al rischio di commissione di un reato, diventa estremamente alta: il tasso di detenzione, rapportato a mille abitanti omogenei di tale popolazione statistica così caratterizzata, supera il valore 10.

Come intervenire per frenare queste tendenze, per tutelare sia la sicurezza dei cittadini nel loro complesso che la sicurezza dei soggetti socialmente deboli e a forte rischio di entrare in zone limitrofe alla criminalità? Come svolgere azione di tutela preventiva e non affidarsi alla mera azione repressiva? Sono interrogativi pesanti che richiedono culture che non neghino le complessità, ma che al contrario facciano delle complessità stesse un elemento della propria incisività.

Spesso autore di reato e vittima sono due aspetti di una medesima realtà e, senza nulla togliere alla responsabilità dei singoli, sono i due volti di uno stesso fallimento sociale. Di questo il nostro continente deve tornare a essere consapevole; altrimenti ogni via intrapresa per frenare la crescita dei numeri del carcere risulterà vana e nessuna politica penale realmente centrata sulla riduzione del carcere e sulla sua interazione con il territorio potrà essere attuata.

 

 

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