Ordine dei giornalisti

 

Informazione, non notizie-spettacolo

Ordine dei Giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa a confronto

con la Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere

 

Ordine dei Giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa sono diventati interlocutori importanti della Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere. La Federazione chiede loro di essere appoggiata, tutelata nella sua difesa di spazi di autonomia e autentica “libertà” dentro a una istituzione totale, sostenuta nel lavoro di formazione per aiutare a crescere professionalmente le persone impegnate nelle carceri in una attività di informazione.

Gli interventi che seguono sono di esponenti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa, coi quali ci siamo confrontati partendo proprio dal modo in cui vengono presentate dai mass media le notizie di cronaca nera, giudiziaria, del carcere. Quelle che noi qualche volta abbiamo definito “Notizie da bar”, alle quali cerchiamo di contrapporre “Notizie da galera”, testimonianze insomma che arrivano direttamente dalle carceri e cercano di raccontare, se possibile con onestà, sobrietà e chiarezza, un mondo altrimenti compresso, nascosto, invisibile.

È stato un confronto importante, che ha affrontato tutti i limiti e i difetti di una informazione dei grandi media che spesso vive della riproposizione di stereotipi e finisce per inibire la voglia di capire ed il senso critico. E proprio per arginare i danni di questo tipo di informazione si è cercato di pensare a possibili strumenti da darsi, primo fra tutti, su modello della “Carta di Treviso” a tutela dei minori, una “Carta” che potrebbe diventare la “Carta di Padova”, visto il luogo, il carcere padovano, in cui è stata elaborata: una specie cioè di codice di autoregolamentazione teso a tutelare la privacy delle persone private della libertà personale, sotto indagine giudiziaria, ma anche ex detenuti, e soprattutto dei loro familiari e parenti che spesso vengono coinvolti, loro malgrado, in vicende delle quali non hanno la minima responsabilità.

Diritto all’informazione e diritto alla riservatezza

“Se voi chiedete a me se i giornalisti rispettano non tanto la privacy,

quanto la dignità delle persone, io debbo dirvi che questo rispetto non sempre c’è”

 

Incontro con Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto

 

Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, ha incontrato la nostra redazione e ha risposto a una infinità di domande dei redattori-detenuti, ma soprattutto ha iniziato con il nostro giornale un rapporto, per noi particolarmente importante: perché, non ce lo nascondiamo, un giornale “fragile” come lo sono i giornali dal carcere ha assoluto bisogno di porsi sotto la tutela, la “protezione” dell’Ordine, di farsi un po’ adottare, e noi lo abbiamo fatto senza alcun pudore.

 

Marino Occhipinti: Il più delle volte vediamo che vengono date notizie nelle quali la privacy non viene presa in nessuna considerazione e si va a interferire nella vita assolutamente privata, che con i reati non ha nulla a che fare. Di conseguenza i nostri familiari ci cascano in mezzo senza colpe, e nelle nostre famiglie si consumano una serie di drammi senza fine. Volevamo capire allora fin dove gli organi di informazione si possono spingere, perché abbiamo visto che si tende a particolareggiare molto sulla vita privata delle persone che hanno problemi di giustizia: capiamo che c’è un’esigenza di cronaca, ma spesso si va ben oltre la cronaca.

 

Maurizio Paglialunga: Quello della privacy è un tema che mi viene sempre posto non soltanto da voi, è un tema difficile. Io comincio con un esempio per essere chiaro: secondo voi la foto di una donna chiaramente identificabile che fa la spesa al supermercato può essere pubblicata o no? C’è il rispetto della privacy? Ecco, la risposta può essere questa: un giornale la può pubblicare a seconda del contesto, e qui già andate a vedere la difficoltà della materia, ad esempio se questa foto è a corredo di un articolo sulla longevità degli anziani sì, si può pubblicare, ma se fosse a corredo di un articolo sulla solitudine degli anziani quella donna potrebbe ritenersi lesa, e dire: ma perché avete pubblicato la mia foto, parlate di solitudine e io sono felicemente sposata.

Allora il legislatore ha ricondotto la materia ad alcuni parametri fondamentali, uno dei quali è l’autonomia e la responsabilità del giornalista, cioè non è voluto intervenire drasticamente dicendo “Questo si può fare e questo no”, ma affida al giornalista una grande responsabilità nel valutare le notizie; il secondo è il principio dell’interesse pubblico e dell’essenzialità dell’informazione, che è l’altro parametro a cui noi dovremmo attenerci.

Ora se voi chiedete a me se i giornalisti rispettano non tanto la privacy quanto la dignità delle persone, io debbo dirvi che questo rispetto non c’è sempre, non c’è per varie ragioni, anche se le violazioni sono più a livello di televisione che di carta stampata, e questo perché sul principio dell’essenzialità sta prevalendo la spettacolarizzazione dell’informazione, che significa enfatizzare e dare le notizie sempre in forma spettacolare.

Io vorrei spiegarvi come il legislatore ha voluto affrontare la  materia: intanto alla legge sulla privacy è annesso un codice deontologico dei giornalisti che “mitiga” molto la legge sulla privacy, quindi la legge sulla privacy che può riguardare le banche, l’accesso ai dati personali eccetera, nel caso dei giornalisti e dell’informazione è mitigata, è mitigata perché il Garante individua, e questo è il nodo della questione, alcuni parametri con cui assicurare il pieno rispetto di diritti e libertà fondamentali dell’uomo, quali la riservatezza, l’identità personale e il “nuovo” diritto alla protezione dei dati personali, senza pregiudicare però la libertà di informazione, che è tutelata anch’essa sul piano delle garanzie costituzionali; cioè la Costituzione tutela l’individuo e la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza, però tutela anche il diritto all’informazione, perché l’informazione è un bene pubblico, altrimenti si rientra in un regime di censura.

Allora contemperare due diritti costituzionali può diventare un problema. La scelta quindi di non introdurre, scrive il Garante, regole rigide in materia, bensì di limitarsi a indicare espressamente solo alcuni presupposti, si è basata su due ordini di considerazioni: da una parte la molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca e dei soggetti che ne sono coinvolti non consentono di stabilire a priori e in maniera categorica quali dati possono essere raccolti e poi diffusi nel riferire sui singoli fatti, un medesimo dato può essere legittimamente pubblicato in un determinato contesto e non invece in un altro: dall’altro una codificazione minuziosa di regole in questo ambito risulterebbe inopportuna, in un contesto in cui sono assai differenti le situazioni nelle quali occorre valutare nozioni generali e valorizzare nel contempo l’autonomia e la responsabilità del giornalista. Alla fin fine il giornalista è chiamato lui a valutare caso per caso cosa pubblicare, quali elementi fornire, quali non fornire, cioè l’essenzialità dell’informazione rispetto all’interesse pubblico della notizia. Allora voi mi direte che questo è un concetto molto vago e non c’è da fidarsi dei giornalisti perché gli si affida troppa discrezionalità, però questa è ad oggi la situazione.

Poi c’è la questione dei cosiddetti dati sensibili, sesso e salute, nel caso di personaggi pubblici, e qui potremmo anche discutere se voi siete personaggi pubblici e fino a quanto lo siete. Questi sono dati ultraprotetti a livello di legge sulla privacy, ma allora ci chiediamo: quando Papa Wojtyla appariva alla finestra ed era manifestamente malato, gli tremavano le mani e non riusciva a parlare, se noi avessimo preso in assoluto la legge sui dati riguardanti la salute non avremmo dovuto dare quelle immagini. E invece era lui stesso che voleva mostrarsi nella sua debolezza di uomo, che voleva che tutti vedessero la sua malattia, però qualche primo piano, specie quel giorno che lui decise di aprire la finestra e non riusciva a parlare, forse si poteva evitare…

 

Marino Occhipinti: Il Papa ha aperto la finestra e si è esposto, se invece qualcuno andava a fotografarlo sul letto mentre stava morendo è un po’ diverso. Io ripenso, tornando indietro, al mio processo, non è mica stata scritta una cosa sbagliata quando hanno pubblicato la fotografia di mia moglie e hanno scritto: la moglie di Marino Occhipinti. La cosa era vera, ovviamente c’era un certificato di matrimonio, però non so quanto fosse il caso, in una vicenda come la mia, di pubblicare la fotografia di mia moglie sul Resto del Carlino e che utilità potesse avere, dal punto di vista dell’informazione.

 

Paolo Moresco: È vero che non si sa fino a che punto siamo personaggi pubblici, ma le nostre famiglie non lo sono. Io ho fatto il giornalista e l’ho fatto per trent’anni, però mi fa un po’ schifo. Ma perché, la madre, i fratelli non contano? Lì è scempio di persone innocenti, direi che sono vittime “secondarie”, perché spesso sono anche loro vittime. Io trovo che scaraventare una persona che ha subito indirettamente un delitto, come un parente, sul giornale, è di una volgarità indegna, senza scusanti.

 

Maurizio Paglialunga: Il problema è sempre quello, se c’è un parente, specie i figli minori poi è ancora più grave, se c’è un parente che non ha nessun rilievo nell’ambito della notizia non dovrebbe essere coinvolto. Io vi dico come la penso, però vi dico anche che non tutti la pensano come me, io la penso come un grande cronista polacco che si chiama Ryszard Kapuscinski, il quale sostiene: “Non c’è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli esseri umani, credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzi tutto degli uomini buoni o delle donne buone, dei buoni esseri umani, solo così si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro tragedie”. E cosa fa Kapuscinski? Distingue nettamente l’essere scettico, come può essere un giornalista, l’essere realista, doti assolutamente necessarie per questo mestiere, e l’essere cinico, atteggiamento che ritiene incompatibile con la professione del giornalista.

Il cinismo è una delle malattie del giornalismo. L’Ordine dei Giornalisti comunque ha anche dei compiti di vigilanza deontologica, spesso diamo delle sanzioni ai giornalisti, ad esempio le violazioni più frequenti che noi registriamo a livello nazionale, ma anche nel Veneto, sono violazioni alla Carta di Treviso. Il minore è veramente tutelato, la sua crescita non deve essere turbata dal vedersi finire sul giornale, ecco però noi su questo ancora registriamo tante violazioni, anche se molte meno rispetto a una volta, perché una volta nel giornalismo proprio non c’erano regole, adesso una coscienza sta crescendo. Io credo che ci vorrà del tempo e purtroppo devo dirvi che la coscienza cresce a livello di giornalisti, cresce poco a livello di vertici e gerarchie giornalistiche, perché c’è ancora questa idea che sbattere il mostro in prima pagina faccia vendere più copie, anche se assolutamente non è vero, non paga nemmeno questo, tant’è che i quotidiani italiani nell’ultimo decennio hanno perso un milione di copie, e forse bisognerebbe analizzare meglio le cause di questo calo di vendite. È comunque innegabile che abbiamo perso credibilità, abbiamo perso autorevolezza, e la gente, che non è stupida, non ci compra.

 

Paolo Moresco: Sì, ma la cosa più scandalosa è la televisione, quando nel pomeriggio ti mescolano la cronaca nera, fatta male, in modo strappalacrime e stupido, con quella che sculetta, è lì che secondo me i giornalisti dovrebbero intervenire, perché è un uso un po’ bastardo della professione.

 

Maurizio Paglialunga: Ma ormai non si sa più, a livello di televisione, cos’è giornalismo e cos’è intrattenimento, perché ci sono giornalisti che fanno intrattenimento e “non giornalisti” che fanno trasmissioni di informazione.

 

Marino Occhipinti: Vorrei tornare però alla questione della privacy. Se io vengo arrestato oggi, la mia fotografia, i miei dati e probabilmente anche il mio indirizzo finiscono sui quotidiani, però c’è ancora la presunzione di innocenza. Ma, anche se nell’articolo c’è la formula dubitativa, “avrebbe commesso, è accusato di”, quanto è regolare, secondo il codice deontologico, pubblicare appunto le fotografie che poi vengono fornite nelle conferenze stampa dalle Forze dell’Ordine o dalla Magistratura?

 

Maurizio Paglialunga: Il problema della presunzione di innocenza è esploso in Italia quando è successa tangentopoli, perché finché toccava i poveri cristi non c’era, quando è toccato a quelli che contano allora è venuto fuori, e quindi si è più attenti a stare dentro alle leggi adottando un minimo di cautele: il condizionale, la formula dubitativa. La fotografia è un fatto complesso e su tutto ciò poi grava anche un diritto all’oblio, nel senso che se io vent’anni fa ho commesso un reato e dopo vent’anni faccio un incidente stradale, non è che devi riscrivere che il sottoscritto vent’anni prima aveva rubato al supermercato…

Quando invece c’è un’operazione di polizia, e vengono fuori le foto, perché li fanno scendere dalla macchina fuori dalla questura in manette, sapendo che ci sono le telecamere? Perché non fanno entrare la macchina dentro, così nessuno li riprende? È chiaro che noi giornalisti dobbiamo prenderci la nostra responsabilità, e non fare quel tipo di riprese, però i primi a voler spettacolarizzare non siamo sempre noi… quanto meno c’è un concorso di colpa, voglio dire.

Il Garante dice che le foto segnaletiche, fotografie degli arrestati e degli indagati, anche se esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle Forze dell’Ordine, o comunque acquisite lecitamente, non possono essere diffuse, se non in vista del perseguimento delle specifiche finalità, per le quali sono state originariamente raccolte: accertamento, prevenzione e repressione dei reati. Inoltre, anche nell’ipotesi di evidente ed indiscutibile necessità di diffusione di queste immagini, il diritto alla riservatezza e alla tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione.

Sicuramente, comunque, di gente in manette non puoi pubblicare foto, nemmeno fare riprese televisive, invece viene fatto anche questo. Le foto segnaletiche le dovresti acquisire lecitamente e avere un motivo di giustizia per pubblicarle. Il Garante è molto rigido, noi ad esempio riceviamo, in questi ultimi mesi, tanti pronunciamenti del Garante, quindi non è vero che non c’è difesa, quanto meno voglio dire, si crea un fastidio al giornalista o al giornale che ha sbagliato.

 

Graziano Scialpi: È vero che sulla privacy il grosso disastro lo fanno le televisioni, ma anche nei giornali non si scherza, ho fatto anch’io il giornalista e so cosa vuol dire quando succede un fattaccio e dopo quattro o cinque giorni arriva il capo servizio e ti dice: dobbiamo mantenere viva la storia. E tu da bravo cronista gli dici che non c’è nessuna notizia, non c’è nessuna novità, e lui ti risponde: non me ne frega niente e voglio cinquemila battute. Uno allora cosa fa? Comincia ad andare a scovare la moglie, la sorella…

 

Maurizio Paglialunga: Questo è purtroppo vero, guardate la vicenda di Tommy, il bambino rapito, io nei giornali ho continuato a leggere tra le righe dubbi sui genitori, che non erano supportati da nulla, se non da una necessità di continuare a scrivere di quel caso ogni giorno, per tener viva l’attenzione e riempire pagine e pagine.

 

Ornella Favero: Una cosa per noi sempre delicata è come ci si comporta con le lettere. Faccio un esempio: noi riceviamo lettere da altre carceri che denunciano certe situazioni, certi problemi, e non è che siamo in grado sempre di verificarne la veridicità, allora come agiscono di solito i giornali con le lettere?

 

Maurizio Paglialunga: Chi pubblica ha sempre la responsabilità, sulle lettere come sulle interviste. Se la lettera ha contenuti offensivi o violazioni di legge, il giornale ne risponde, quindi lì bisogna stare molto attenti. E bisogna stare attenti anche a come arriva la lettera, a come la si acquisisce, perché ci sono stati casi di giornali che hanno pubblicato lettere a firma Mario Rossi, poi Mario Rossi si è fatto vivo, dicendo: ma io non ho scritto nulla, come vi siete permessi di pubblicare una lettera con la mia firma? Ci sono anche lettere che diventano oggetto di un articolo: ad esempio, una lettera denuncia una determinata situazione e il giornalista ci lavora sopra o ci fa un’inchiesta, o interpella i diretti interessati. Ma una lettera contenente accuse generiche che potrebbero essere infondate o potrebbero essere oggetto anche di una querela, io non la pubblicherei.

 

Ornella Favero: Radio Radicale, per esempio, avendo una struttura solida alle spalle, le lettere dalle carceri le legge tutte, ma quando noi riceviamo una lettera che denuncia una certa condizione in un carcere, o episodi di violenza, non è semplice decidere se pubblicarla o meno.

 

Paolo Moresco: Parliamoci chiaro, in galera episodi di violenza succedono anche, però la galera è un ambiente dove ci sono pure mitomani, ci sono un mucchio di cose che poi si rivelano non vere. La galera è un ambiente a circuito chiuso, per cui tutti i fenomeni che ci sono fuori, qui vengono amplificati.

 

Maurizio Paglialunga: Io farei una cosa al posto vostro, nell’ambito del giornale raccoglierei tutte le denunce sulla situazione generale e darei poco spazio però agli sfoghi personali, perché è chiaro che uno può avere una visione alterata della realtà. Però se c’è una protesta per esempio per la qualità del cibo va bene, perché no, io raccolgo la denuncia dei detenuti di Padova che dicono che mangiano male, poi la direzione dirà che invece è il Grand Hotel e dopo vediamo… perché no, voglio dire, è il balletto delle parti che consente ai detenuti, secondo me, di riconoscersi nel giornale che tutto sommato raccoglie anche le segnalazioni di quello che non va, poi se c’è intelligenza dall’altra parte si capisce anche che le lamentele possono essere un modo di apprendere cosa non funziona.

Certo lasciamo perdere il caso vostro, che è troppo particolare, ma un giornale è contropotere, deve dare fastidio, oggi in Italia i giornali danno poco fastidio, ma invece si dovrebbe disturbare il manovratore, avere un ruolo di controllo. In Italia se fai una domanda al politico di turno che viene ritenuta sgradevole, ti prende a parole e se ne va, al Presidente degli Stati Uniti tu gli puoi anche chiedere “Ma è vero che lei ieri sera l’hanno vista a cena con la segretaria in atteggiamento intimo?”, e lui resta inchiodato sulla sedia e cerca di rispondere, non si sognerebbe mai di aggredire il giornalista, ma questo secondo me è ancora una volta un problema nostro di credibilità, di autorevolezza.

 

Ornella Favero: Però quando tu dici giustamente che un giornalista dovrebbe dare fastidio, il nostro problema è che qui se un giorno decidono di trasferirmi tre persone, uno che mi impagina il giornale, l’altro che scrive e il terzo che mi fa le vignette, io il giornale lo chiudo. In fondo è per questo che chiediamo che l’Ordine ci tuteli un po’.

 

Maurizio Paglialunga: Secondo me voi dovete cercare in tutti i modi di non entrare troppo in conflitto con l’istituzione, perché non c’è un rapporto paritario, non ci può essere. Io infatti più che fare un giornale di denuncia, racconterei storie, come ho visto fate già per altro, perché a farne un giornale di mera denuncia delle disfunzioni, secondo me potreste produrre un numero al giorno con quello che succede nelle carceri, ma poi rischia di diventare anche controproducente.

 

Ornella Favero: C’è un’altra questione che ci interessa, e riguarda il “diritto all’oblio” delle persone private della libertà. Faccio un esempio: un giorno è venuta in redazione una giornalista di un importante quotidiano, che doveva scrivere un articolo su Ristretti Orizzonti, e poi è andata a vedersi nell’archivio del suo giornale nomi e cognomi delle persone che sono intervenute durante l’incontro e nell’articolo ha aggiunto, in un contesto che non c’entrava nulla, la “qualifica” di ognuno: questo è dentro per omicidio, quell’altro per rapina… ma non si può fare nulla in questi casi?

 

Maurizio Paglialunga: L’Ordine ha la funzione di magistratura della professione, quindi, se ci arriva una segnalazione si apre un procedimento disciplinare, una specie di processo vero e proprio in cui il giornalista può venire assistito da un avvocato, si fa tutta un’istruttoria, alla fine si emette un giudizio, che può essere avvertimento, censura, sospensione dalla professione o radiazione. Allora il problema qual è, che i procedimenti sono di primo grado, secondo grado, voi lo sapete meglio di me, dopo anni magari adesso va tutto in prescrizione, quindi servirebbe un giudizio più rapido. L’altro tema che è stato sollevato a livello di Ordine dei Giornalisti è la difficoltà di assumere un ruolo di terzietà del giudice, nel senso che io potrei trovarmi a giudicare, come presidente dell’Ordine, un collega che mi lavora a fianco e che è il mio più caro amico magari. Allora per me sarebbe più facile giudicare i giornalisti dell’Emilia Romagna piuttosto che quelli del Veneto, invece la legge impone questo, quindi tu rischi di non essere sereno nel giudizio. Però ciò non toglie, che ad esempio noi comminiamo diversi avvertimenti, censure, adesso abbiamo un caso che rischia di arrivare alla radiazione addirittura, perché sta reiterando comportamenti non corretti. Noi cerchiamo di fare tanta prevenzione, convochiamo i colleghi, gli scriviamo, gli ricordiamo quali sono le norme continuamente. Ma è davvero una battaglia senza soste.

 

Marino Occhipinti: Per finire, pensi che abbia senso promuovere una “Carta di Padova”, su modello di quella di Treviso, per la tutela della privacy delle persone private della libertà e dei loro famigliari?

 

Maurizio Paglialunga: Noi la nuova Carta la appoggiamo, la Carta di Padova se così si chiamerà, l’appoggiamo e la sosteniamo assieme alla Federazione della Stampa, che è il sindacato dei giornalisti, ma il problema che mi pongo io, come presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, e che si pone l’Ordine, è riuscire a farla rispettare, perché le regole è bene raccoglierle e dar loro rilievo in un convegno, però già le abbiamo, e certe regole non sono rispettate. Le foto in manette, e quello di cui si è parlato finora, sono cose all’ordine del giorno, allora per far rispettare queste regole noi prima di tutto dobbiamo sensibilizzare i nostri colleghi, dobbiamo fargli capire il perché delle regole, convincerli che sono buone regole, poi semmai anche reprimere. Ma io non vi nego però che in determinate circostanze, in presenza di fatti particolarmente efferati, quando la gente telefona in redazione e dice: “Quello ha ammazzato il bambino, se lo prendete scrivete che devono metterlo dentro e buttare la chiave”, anche molti di noi la pensano così, molti di noi giornalisti, ed è questo che viene cavalcato spesso dalla stampa. Allora il problema nostro è sì applicare le regole e quindi reprimere chi non lo fa, e per questo l’Ordine dei Giornalisti laddove le regole vengono violate deve intervenire, però è anche far sì che tra i miei colleghi, tra di noi, passi una cultura nuova e diversa, perché altrimenti non ne veniamo a capo.

La gran parte di noi giornalisti ritiene che si può sempre scrivere di tutto, e basta vedere quello che pubblicano i giornali. Recentemente su un giornale del Veneto è stata pubblicata non solo la notizia, ma anche la foto della figlia suicida di un noto personaggio della malavita: ma che senso ha avuto pubblicare quella foto? Lo scontro che è avvenuto in redazione con i vertici giornalistici che l’avevano deciso, è rimasto irrisolto, perché chi era convinto che quella andava pubblicata, il direttore in testa, ha pubblicato la foto, che era anche, oltre tutto, una foto raccapricciante, perché quando uno si butta dalla finestra non è che arriva poi giù di sotto integro, quindi non aveva nessun senso e non aggiungeva nulla alla notizia pubblicare quella foto, eppure è stata pubblicata. Se noi non riusciamo a promuovere una cultura nuova, non risolveremo mai questo problema.

Informazione dentro e informazione fuori a confronto

Il problema dell’informazione dal carcere è di dialogare, di farsi conoscere all’esterno,

il problema dell’informazione “fuori” è che non aiuta assolutamente la gente a capire

 

di Gerardo Bombonato, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna

 

Il collega di Ristretti Orizzonti che ha dato il via agli interventi, ci richiamava soprattutto alla necessità, al desiderio, all’auspicio che i detenuti da oggetti diventino soggetti, ricordandoci che dietro ai reati ci sono delle persone. Bene, io voglio essere chiaro, io credo che prima di tutto con il nuovo Governo sia arrivato il momento della verità, quello cioè di saggiare la reale volontà di mettere mano a tutta una serie di leggi varate nella passata Legislatura, che in molti casi contrastano con i più elementari diritti della persona, e con il concetto di uguaglianza sociale. Trovandomi in un luogo di reclusione come questo, penso soprattutto alla legge sulla droga Fini-Giovanardi, che sta già producendo i suoi inevitabili danni. Ricordate tutti le dichiarazioni di Giovanardi e Fini che affermavano che sarebbero finiti in galera soltanto gli spacciatori? Appunto, qualche giorno fa in Calabria sono finiti in galera due ragazzi, uno di ventuno e uno di diciannove anni per mezzo grammo di hashish e uno spinello. E poi penso alla ex-Cirielli, una legge che avrà un effetto socialmente devastante con quel meccanismo della recidiva che colpirà inevitabilmente soltanto i poveracci, e tra questi i tossicodipendenti e gli immigrati. Il 70 per cento di quelli che arrivano a scontare tutta la pena sono appunto i recidivi, e la recidività è proprio nei reati minori, non certo in chi fa illeciti, falso in bilancio e via dicendo. Una legge che viola il principio di eguaglianza giuridica: con la Cirielli infatti torneranno in carcere, per richiamare un vecchio film, “i soliti noti”, e con pene ancora più elevate, ma queste sono cose che in carcere sicuramente conoscete meglio di me, il problema è come comunicarle, come raccontare le storie, le condizioni di vita in carcere.

Purtroppo del carcere si parla con molta intermittenza, se ne parla in occasione di qualche cantante che va a fare qualche concerto nelle carceri o qualche avvenimento ricreativo-culturale, oppure quando anche nella stampa generalista e nell’opinione pubblica torna ciclicamente di moda parlare di amnistia o di indulto, e poi cala il silenzio, il sipario del silenzio. Ecco, secondo una vecchia regola giornalistica, la notizia esiste soltanto quando viene raccontata, pensate ai funerali di Lady Diana in mondovisione e pensate alla strage nel Ruanda nel ‘94 quando furono fatti a pezzi letteralmente 800.000 Tutsi, e però le notizie finivano relegate, nella migliore delle ipotesi, nelle pagine interne dei giornali, quindi la notizia esiste solo quando viene raccontata e il problema è raccontarla. A tal fine lo strumento migliore è proprio il giornale, mi pare di aver visto che nelle carceri ce n’è più di cinquanta, sempre che non siano autoreferenziali, e cioè limitati a uno sfogo personale, ma diventino invece uno strumento anche di denuncia, di proposte, di possibili soluzioni, e lavorino a sensibilizzare all’esterno l’opinione pubblica.

Churchill, che non era certo un grande progressista, amava dire che un Paese si giudica da come tratta i suoi prigionieri, ecco quindi il tema dei diritti, la cultura dei diritti, che vale sempre, anche per chi è privato della libertà, è una cultura che deve assolutamente crescere.

A Milano, a febbraio, Sergio Segio si chiedeva in quella bellissima e nutrita rassegna sulla rappresentazione della pena alla Triennale, se conosciamo davvero ciò di cui parliamo, se le nostre affermazioni, i discorsi nei convegni trovano poi azioni conseguenti. Siamo sicuri, diceva, che l’assenza di informazione sui problemi del carcere derivi solo dalla disattenzione dei media o dalla supposta indifferenza dell’opinione pubblica? La risposta che Segio aveva dato in quell’occasione era che non si può rappresentare la pena se non si rende il carcere un luogo aperto ai controlli e all’informazione  pensava in tal senso lui esplicitamente all’esperienza della Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere, ma anche al Garante dei detenuti, una figura che fatica a farsi strada, a Bologna si muovono i primi passi con un Garante comunale sui diritti dei detenuti.

Credo che l’informazione dal carcere abbia imboccato la strada giusta: il problema è di dialogare, di farsi conoscere all’esterno, e poi il problema semmai è l’informazione, quella fuori, quella dall’esterno che non aiuta assolutamente la gente a capire, a conoscere. Il mondo dei mass media ha le sue colpe: si parla di carcere, di detenuti spesso con molta superficialità, e in ogni caso con allarmismo, e comunque facendo presente più il disagio per la comunità residente che per i problemi reali interni al carcere. E anche il detenuto in permesso è percepito come una minaccia, i media insomma non approfondiscono le notizie sui temi che arrivano in redazione, ma spesso si accontentano dell’informativa che viene dalle Forze dell’Ordine, vi aggiungono ben che vada qualche aggettivo e via così tutto va in pagina.

L’informazione che riguarda il carcere è un’informazione molto lacunosa, che va paragonata a quella che tutti i giorni diamo sugli immigrati, immigrati che sempre più affollano le nostre carceri. Il cliché è più o meno lo stesso quindi: nessuno sforzo per vedere cosa c’è dietro, nel nostro paese non si fa nemmeno alcuna distinzione tra minori immigrati e adulti immigrati, e in un colpo solo, a proposito di minori immigrati, si viola la convenzione ONU del 1989 sui pari diritti dei minori e anche la riforma del processo minorile. Vi do soltanto un dato: gli stranieri sono solo il 28 per cento dei circa 40.000 minori denunciati lo scorso anno quasi sempre per furto o piccoli reati, però costituiscono il 60 per cento dei detenuti. A tutto questo si aggiunge la beffa della Bossi-Fini che tratta i ragazzini come immigrati prima ancora che come minori, e siccome la maggior parte di loro sono clandestini, al compimento dei 18 anni vengono espulsi anche se stanno svolgendo un percorso di recupero, stanno imparando un mestiere o addirittura stanno prendendo un diploma. La situazione peggiora quando i minori non accompagnati, che non dovrebbero assolutamente entrare nei C.P.T. (Centri di Permanenza Temporanea) vi vengono rinchiusi. Non ci sono cifre, perché siccome la legge non prevede che siano rinchiusi nei C.P.T., se ne perdono le tracce, però in un rapporto di Amnesty International, giustamente intitolato “Invisibili”, parlano di circa 900 denunce per l’anno scorso, e fra questi sono molti che vengono da paesi dove i diritti umani rappresentano una situazione catastrofica, in pratica sono richiedenti asilo. Il problema quindi è quello di recuperare proprio una cultura dei diritti, diritti globali, diritti che possono essere validi in ogni paese, c’è l’Europa Unita, cerchiamo di farli valere almeno a livello di Europa Unita.

Vorrei dire anche due parole sulla Carta di Padova, ritengo sia un’ottima iniziativa ma non di semplice e rapido percorso, si tratta di principi di fatto già contenuti in altre carte dei giornalisti che sono state inserite in leggi dello Stato e quindi sono diventate leggi a tutti gli effetti, però credo che abbia ragione Mauro Paissan quando dice che vale la pena di riassumere tutti questi principi in un testo specifico, anche se il percorso è quello che le Carte, per essere vincolanti per i giornalisti, devono essere approvate dal Consiglio Nazionale dell’Ordine. Il problema è che questa carta va diffusa, va raccomandata, va fatta crescere così com’è cresciuta la sensibilità sulla Carta di Treviso, quella sulla tutela dei minori e dei soggetti deboli che ha permesso che dal Far west che c’era prima del 1990 si è passati a una maggiore sensibilità da parte della categoria. Ma sono cose lunghe anche in questo caso, ormai la deontologia professionale non si insegna più nelle redazioni, non c’è più nessuno che in redazione  prende per mano il giovane giornalista e gli spiega quelle che sono le regole della professione. L’unico posto dove ancora qualcosa si fa sono le scuole di giornalismo, ed è lì che si può veicolare questa carta, questi insegnamenti, e nei corsi di preparazione all’esame professionale, visto che adesso sono diventati obbligatori, inseriamola, cogliamo queste occasioni per farla conoscere.

Il migliore aggiornamento professionale:

far fare un mesetto di carcere a un po’ di giornalisti

 

di Enrico Ferri, della Giunta esecutiva della Federazione Nazionale della Stampa

 

Ho letto l’ipotesi di Carta di Padova, ringrazio chi ha lavorato a questo progetto perché mi sembra fondamentale, è vero che le carte deontologiche, così come la Carta di Treviso, per avere degli effetti impiegano molti anni, però è vero anche che se noi riusciamo a porre all’attenzione pubblica, velocemente, questa Carta, se il Garante per la privacy potesse sostenere e l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, passate tutte le istruttorie e gli organismi che devono poi votare, potesse adottare questo codice sarebbe fondamentale, perché questo permetterebbe di divulgare questi principi e porre all’attenzione, anche dei vertici giornalistici della categoria, una serie di norme che al momento, mi dispiace doverlo dire, sono pressoché ignorate dalla nostra categoria, che sa poco o nulla di queste cose.

Per fare una battuta, che spero sarà presa per il senso che può avere, appunto, una battuta, il migliore aggiornamento professionale sarebbe far fare un mesetto di carcere a un po’ di giornalisti, perché non sanno nulla di quello che succede, io sono uno di loro. La differenza è che io in carcere ci sono stato e quindi so cosa vuol dire, sono stato carcerato e anche come parente di carcerati, quindi so di che cosa stiamo parlando. Aggiungo che la Federazione, per quanto noi siamo un organismo sindacale, farà di tutto per porre all’attenzione dell’esecutivo questi temi.

Credo poi anche che alcune cose spettino però alla politica, che deve prendersi in carico, nell’agenda di governo, alcune emergenze. Tra queste emergenze senz’altro la situazione disastrosa, dal punto di vista strutturale e umano, delle carceri italiane.

La cronaca giudiziaria è una “criminologia applicata”

che crea le emergenze

 

di Claudio Santini, Direttivo dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti

 

Esiste una scienza che si chiama criminologia, studia, racconta i fatti, esamina il contesto sociale, descrive i personaggi, ebbene la cronaca nera fa tutti i giorni questa cosa. Io la chiamo criminologia applicata, a differenza della criminologia come scienza che determina delle teorie, la criminologia applicata sui media crea le emergenze, le emergenze suscitano provvedimenti legislativi, e determinano anche scelte giudiziarie e scelte di politica penitenziaria. Per esempio le stragi del sabato sera, a parte il fatto che avvengono più al lunedì che al sabato, ma le stragi del sabato sera creano immediatamente una legge di riforma del codice, la patente a punti e i processi contro coloro che contravvengono a queste disposizioni. Allora c’è un potere enorme di questa criminologia applicata, perché ha delle ripercussioni molto pratiche, e quindi ci sarebbe questa necessità di regole chiare. Io ho scorso questa proposta della Carta di Padova, e ho detto: questo lo so, questa lo so, questo lo so, sono arrivato all’ultima pagina, questo lo so. Allora in effetti le norme ci sono già, in tutte le carte deontologiche dei giornalisti, nello stesso Codice penale, nello stesso Codice di procedura penale, nella stessa legge sulla privacy, le norme che noi chiediamo oggi ci sono tutte. Forse però è importante raggrupparle in una somma, in un testo unificato delle varie norme. Ma che cos’è allora che manca? manca la volontà e la capacità di applicarle, dico una banalità, ma è proprio questo, manca la volontà di applicarle di fronte ad un interrogativo: la stampa corretta rende o no? Questo è il fatto essenziale.

Recentemente c’è stata la proposta di elevare a titolo universitario la professione dei giornalisti, è stata respinta e il Consiglio di Stato, non parlo dell’ultima ordinanza, il Consiglio di Stato ha fatto un richiamo, che mi ha spaventato, all’articolo 41 della Costituzione, quindi alla libertà di impresa. Ma che cosa c’è, le imprese editoriali sono libere di avere dei giornalisti ignoranti? La cosa mi sembra addirittura fuori dal mondo, ma vedete che vale la regola del vantaggio dell’impresa editoriale. Faccio un esempio: non so come pochi giorni fa sia comparsa l’immagine di un bambino ucciso prima di essere nato, senza che nessuno si ponesse il problema, non tanto, se la famiglia aveva dato o non aveva dato lei stessa questa foto, quanto della tutela della dignità di un essere alla nascita e alla morte, questo era il rispetto che si doveva dare, alla nascita e alla morte, in quanto tale, che erano rappresentati contemporaneamente in questo bambino.

Ma quelle foto sono state diffuse a scopo, lasciatemelo dire, commerciale, non ideologico. Ma sulla commerciabilità di questi prodotti, scusate anche il termine “prodotto”, ci può essere da parte nostra un controllo. Perché se è vero che dietro c’è la libertà d’impresa, l’impresa vuol dire profitto, ebbene se passa qualcosa in televisione io e voi non possiamo farci nulla, perché l’auditel è determinato da un certo gruppo di persone,  quindi se io chiudo la televisione non risulta da nessuna parte, ma con i giornali la cosa è diversa, perché se io non compro il giornale, non lo compro io e l’editore non guadagna. Quindi abbiamo, come lettori di giornali, il potere di far sentire il nostro parere all’editore facendo diminuire i profitti, è una cosa banale ma è una cosa importante da sottolineare.

Ultime due riflessioni: io qualche giorno fa ho avuto un sussulto vedendo la foto di Erika, non mi nascondo che quello che ha commesso non è una cosa che lascia indifferenti, ma in ogni caso mi sono chiesto che cosa poteva esserci poi di riflesso e di conseguenza di quelle immagini: io vorrei per esempio sapere se nella decisione, presa di recente sul fatto che la ragazza non è pentita e quindi non può andare in comunità, ci sia o non ci sia anche dietro il sorriso trasmesso dalle immagini televisive e dalle immagini fotografiche, questa è una cosa da chiedersi. La seconda riflessione riguarda una nuova forma di coinvolgimento dell’opinione pubblica, che è veramente incredibile soprattutto per i giornali online, che è il cosiddetto forum, per cui ti viene chiesto di dire: sei favorevole a che l’imputato venga condannato? Sei sicuro? Uno poi clicca e dice la sua, questo voto non ha nessun valore legale, ma è pur sempre un coinvolgimento della persona nel processo penale, che mi fa tanto ricordare: preferite Gesù o Pilato? Quindi succede che sottoponiamo ormai sempre di più fatti come questo ad un sondaggio popolare e alle dichiarazioni dei politici, perché quando per ogni fatto giudiziario, ogni arresto, ogni conseguenza penale c’è una dichiarazione politica, la questione assume un significato politico che trascende la vicenda giudiziaria. Ecco, sono cose sulle quali noi dovremmo riflettere.

Vorrei fare un’ultima considerazione, in qualche modo provocatoria: possiamo cominciare a studiare questa Carta di Padova, ma io aggiungerei un’altra cosa, che mentre nella Costituzione stessa c’è una difesa del diritto dei detenuti alla rieducazione, è assolutamente assente qualsiasi riferimento alle vittime. Le vittime non sono contemplate, da nulla, neanche da teorie criminologiche, per le quali se un delinquente è così per natura, la vittima non c’entra niente, se la società è colpevole ugualmente le vittime non c’entrano niente. Ebbene, anche le vittime avrebbero, a mio giudizio, un diritto di essere tutelate dall’invisibilità o dalle intrusioni del tipo: scusi, le è morto suo figlio, che cosa prova? Ecco, mi sembra che questa potrebbe essere un’ottima occasione, anche provocatoria, e lo dico deliberatamente, perché nasca assieme una Carta dei Diritti dei Detenuti e delle Vittime.

 

 

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