Appunti di scrittura

 

“Raccontando di sé forse non si può fare altro che mentire,

raccontando il proprio compagno forse si riesce a dire la verità”

 

Intervento di Edoardo Albinati

 

Edoardo Albinati, scrittore ed insegnante nel carcere di Rebibbia, ha la caratteristica, il compito quasi di costringerci a vedere gli aspetti contraddittori della realtà, a non adagiarci su nessuna certezza. Lo ha fatto anche parlando di scrittura, di quel tipo di scrittura che noi, che ci occupiamo di informazione dal carcere, riteniamo spesso la più utile ed efficace per parlare di galera: la scrittura autobiografica. Con il suo intervento vorremmo aprire una discussione proprio sulla difficoltà di raccontare il carcere, e su chi può davvero farlo, e qual è il tasso di “sincerità” che si riesce ad ottenere con queste narrazioni.

 

Io vorrei parlare non tanto dell’immagine che viene data dall’esterno, da giornali e televisione, del mondo del carcere, dei carcerati, dei devianti, quanto quella che i detenuti producono di se stessi. Vorrei cioè parlare di quella ormai importante quantità di testi, di scritture, che troviamo in riviste, in libri, in cui sono i detenuti a parlare in prima persona della loro condizione. Io ne conosco abbastanza ormai, di queste pubblicazioni, e quindi credo di poter fare approssimativamente un discorso su questa produzione, anche se ci sono molte diversità al suo interno. Quasi tutte queste rappresentazioni che i detenuti danno della vita in galera, sono improntate a un carattere autobiografico: è un caso cioè in cui le persone quindi parlano di se stesse, diversamente dai giornalisti o dai reporter che per raccontare il carcere parlano di persone a loro esterne, e talvolta lo fanno in modo molto superficiale.

La mia sensazione è che le bugie che vengono dette sul carcere non sono poi spesso tanto diverse dalle bugie che, per ragioni che cercherò rapidamente di chiarire, i carcerati stessi devono dire su se stessi. Questo a partire proprio dallo “statuto” della scrittura autobiografica: quando uno parla di sé, e si suppone lo faccia proprio perché dovrebbe essere colui che conosce meglio di tutti la propria verità, la propria realtà, mi sembra allora impossibile che non lo faccia anche per motivi autogiustificatori e autoassolutori. Questo nella letteratura è assolutamente evidente, basta guardare le grandi autobiografie, e in particolare la più importante autobiografia moderna, quella di Jean-Jacques Rousseau. Più lui confessa i suoi peccati, più sembra voler dire: vedete, vedete come sono onesto nel confessarvi certe cose di me, vedete come sono nobile nell’ammettere tutte le mie magagne?

Allora mi chiedo, parlare di sé è in qualche misura garanzia di una maggiore autenticità, di una maggiore verità? I detenuti sono coloro che ne sanno di più del carcere? So che questo suona come paradossale, ma sono poi in grado di trasmettere tutto questo?

Mi chiedo a questo punto se il problema dell’“autenticità” sia poi legato anche alla funzione della scrittura: è una funzione espressiva? Cioè serve essenzialmente a sfogarsi? Questa per esempio è la chiave che io come insegnante da molti anni tendo a preferire, e dico ai miei studenti: scrivi di te, scrivi della tua vita, scrivi del tuo passato. In realtà poi questi racconti, che io metto insieme sotto il termine di autobiografismo, riguardano o la vita precedente alla reclusione, e quindi veramente si può parlare di autobiografia, o piuttosto potrebbero essere chiamati cronaca, cioè descrivono la vita attuale in galera. Entrambe le cose presentano dei grossi rischi: il racconto della propria vita precedente alla detenzione non può che soffrire di una inevitabile evasività, è ovvio che non si possa dire veramente tutto, rivelando per filo e per segno che cosa si è fatto prima di essere carcerati. Dall’altra parte invece, la cronaca della vita carceraria rischia la monotonia, anche qui con una buona dose di censura, per mettersi al riparo dalle conseguenze che ne potrebbero derivare. Entrambe le possibilità dunque sono molto difficili da praticare.

Devo dire però di essere rimasto molto ammirato, anche se è successo raramente, quando ho trovato delle scritture prodotte dai detenuti che riuscissero ad uscire da questo rischio di doppia menzogna, chiamiamola così, quella consolatoria da una parte, quella dell’autocensura dall’altra. Resta comunque arduo parlare di un’esperienza che si sta vivendo nel momento stesso in cui la si vive. Si è troppi vicini e come immersi, murati dentro la realtà, che diventa quasi invisibile. Faccio un esempio: come insegnante nel corso del programma di lettere mi succede spesso di affrontare proprio l’autoritratto, cioè come gli scrittori hanno descritto se stessi, è un vero e proprio genere, nella pittura, nel romanzo, nell’autobiografia naturalmente, nella memorialistica. Poi dopo un po’ invito i detenuti a fare lo stesso: fate il vostro autoritratto fisico e spirituale, è il compito. Una cosa in apparenza abbastanza semplice. Ora l’autoritratto che ne esce è sempre una foto segnaletica. È incredibile come il modello della foto segnaletica sia stato assunto dagli stessi detenuti al punto che loro invece di scrivere “sono alto, sono basso, sono bello o brutto”, dicono: “altezza 1,70 peso 68 kg, baffi…”. Poi quando si passa a descrivere il proprio lato, diciamo così, spirituale, ecco che escono fuori dei ritratti di buoni uomini padri di famiglia, amanti dei valori, dell’amicizia, dell’onore, religiosi e fedeli, con una divaricazione talmente forte dalla realtà della galera da darmi l’impressione di essere sintomatica di una condizione inevitabile di autogiustificazione.

Allora ho pensato questo: forse la cosa migliore per chiunque, e non sto parlando solo dei detenuti, parlo di ciascuno di noi, forse la cosa migliore è non parlare di sé ma del proprio compagno, forse la biografia possibile all’interno del carcere non è quella che uno scriverà su di sé, ma sugli altri, sui propri compagni di detenzione. Allora quello che lui dice non sarà più tenuto ad avere quella specie di finto bollino di autenticità, e cioè “quello che racconto è vero perché è una cosa mia”, ma “quello che racconto è vero perché mi è stato raccontato da un altro”. Ecco uno di quei casi in cui la verità per manifestarsi si struttura come una finzione, come un racconto, e il fatto poi che sia realmente accaduto diventa secondario come diventa secondario rispetto alla grande letteratura, perché quello che ci dice quella storia è comunque sintomatico, è comunque significativo. Il che ci libera da questo mito della verità e dell’autenticità perseguita a ogni costo.

Mi viene in mente il racconto che è mi è stato fatto pochi giorni fa in carcere, i miei studenti parlavano di un compagno che si era suicidato. Un ragazzo si è impiccato nella sezione di alta sicurezza, e i racconti che mi hanno fatto i suoi compagni sono la forma più alta per me di racconto della verità: una verità frammentaria, parziale, che nessuno sa per intero. Ancora una volta debbo ricordare che il carcere non è mai il luogo dell’interezza, quindi anche crocifiggere continuamente i giornalisti sul fatto che non la dicono tutta è sbagliato: nessuno è in grado di dire tutto all’interno del carcere, nessuno mai vede e conosce, proprio nella sua struttura il carcere è il luogo della frammentarietà. Io non vedrò, non saprò, e non potrò garantire mai la totalità di quanto è accaduto: di quello che accade ho sempre visto o saputo o sentito dire uno spicchio. Però i racconti commossi, sdegnati o anche sarcastici che mi hanno fatto questi detenuti mi hanno ricordato una cosa molto bella che veniva detta da Flaubert. Quando Flaubert scriveva dei personaggi d’invenzione, come Emma Bovary, che dovevano però essere ancora più reali delle persone vere, diceva a se stesso: tu devi scrivere come se dovessi vendicarli, cioè tu devi scrivere di loro e farli diventare eterni, come se dovessi preservarne la memoria contro tutto quello che è stato detto e pensato di loro. Questa consegna mi sembra più interessante ancora, più vincolante ancora di quella del raccontare di sé: raccontando di sé forse non si può fare altro che mentire, raccontando il proprio compagno forse si riesce almeno per un istante a dire la verità.

L’opinione di una che di scrittura autobiografica se ne intende:

“Chi scrive autobiografia stipula con chi legge un patto di verità”

Diventa allora importante lavorare anche sulle “bugie”, perché ciascuno consumi fino in

fondo la propria versione della storia e riesca poi a uscirne grazie al confronto con altri

 

Avevamo detto che sulla scrittura autobiografica volevamo aprire una discussione, e subito Adriana Lorenzi ha colto al volo il nostro desiderio di approfondire questo tema, e ci ha scritto le sue riflessioni. Adriana ha condotto laboratori di scrittura autobiografica nella sezione femminile del carcere di Bergamo e nella Casa di reclusione di Padova.

 

di Adriana Lorenzi

 

Mi è sembrata estremamente stimolante la relazione di Edoardo Albinati al convegno dello scorso 26 maggio a Padova, tanto da avere voglia rispondergli, mettendo a fuoco sia le suggestioni affascinanti sia le perplessità che le sue parole mi hanno suscitato.

Il punto in discussione pare essere quello della maggiore verità scrivendo in termini biografici piuttosto che autobiografici: forse, suggerisce Albinati, per evitare l’auto-consolazione, l’auto-assoluzione, l’auto-celebrazione, il vittimismo e l’evasività connessi al racconto della vita precedente al carcere e di quella nel carcere, bisognerebbe proporre al detenuto di parlare non di sé ma del compagno, di scrivere o raccontare non la propria storia, ma quella dell’altro.

Io non credo che una scrittura possa sostituire l’altra, potrebbe però aggiungersi l’una all’altra per rendere ragione di un mondo complesso come quello del carcere e di una vita individuale sfaccettata, come è quella di tutti, e in particolare quella di chi deve saldare il suo debito con la giustizia e con la società cosiddetta civile.

Forse si tratta di contemplare due diverse forme di scrittura che non si prefiggano di rappresentare la verità – che continua a conservare il suo potere mistico anche se riconosciuta ormai come personale e contestuale – ma che aiutino a far esprimere le storie che ciascuno conserva nella mente. Più che di verità sarebbe opportuno parlare di autenticità, ossia quel senso di coerenza degli eventi che nasce dopo che si è messa una distanza – critica oppure ironica – tra sé e il tempo vissuto, tra sé e i fatti accaduti, tra sé e le emozioni provate.

Per definizione chi scrive in termini autobiografici stipula con chi legge un patto di verità proponendosi, in prima persona, di enucleare la sua vita individuale e la storia della sua personalità a partire dai ricordi più lontani fino a quelli più recenti. Al cuore di una scrittura autobiografica, dunque, vi è la scrittura del sé, della propria identità.

Hannah Arendt ci ha ben insegnato che l’identità non è una sostanza che preme all’esterno, piuttosto si mostra e si esibisce in azioni e parole. Non possiamo disporre, conoscere o padroneggiare la nostra identità, però possiamo esibire la nostra irripetibile unicità al cospetto di altri e dentro i diversi contesti.

Quanto viene mostrato non è che la storia di ciascuno fatta di eventi, gesti, parole che ha bisogno di essere raccontata attraverso una trama dotata di un inizio, di uno svolgimento e di una fine. Come scrive Adriana Cavarero, “possiamo sapere chi qualcuno è o fu solo conoscendo la storia di cui egli stesso è l’eroe – la sua biografia in altre parole”.

Se è vero che ci esibiamo solo al cospetto di altri e che sono gli altri a poter raccontare la nostra storia – Amleto ha chiesto in punto di morte al fedele Orazio di raccontare la sua vicenda perché non andasse perduta – scorgendo ciò che noi non riusciamo a vedere di noi stessi e di quanto ci lasciamo alle spalle come bava di lumaca, è altrettanto vero che esiste un desiderio irrinunciabile di unità del sé, di disvelamento di sé che porta ogni soggetto ad avvertire la necessità di narrare in prima persona, di scandagliare quanto accaduto, di cogliere il segreto della propria esistenza senza delegare ad altri tale compito.

L’autobiografia letteraria attraverso i secoli offre esempi concreti del desiderio di tanti di mettersi davanti allo specchio della propria storia passata e giungere a possedere – adesso o mai più si dice chi ha più vita dietro le spalle che non davanti agli occhi – l’immagine definitiva di sé e dare un senso ultimo al proprio esistere. Quasi naturalmente, davanti a uno specchio, ci si mette in posa, rinunciando all’abituale naturalezza. L’autobiografia finisce così per tradire l’impegno originario di dover dire tutta la verità, nient’altro che la verità, per offrire piuttosto la versione personale di colui o colei che scrive, perché la memoria è recipiente forato che trattiene qualcosa, perdendo altro e, in alcuni casi, infinito altro. Come afferma Isabel Allende “la scrittura è un tentativo disperato di preservare la memoria… La mia vita si fa nel narrarla e la mia memoria si fissa con la scrittura; ciò che non riverso in parole sulla carta lo cancella il tempo”.

Rispetto alla biografia ricordo di aver letto da qualche parte che essa può essere definita come “un falso esibito come verità”.

Virginia Woolf infatti sostiene che ogni biografia gioca con i fatti e con le impressioni, con la verità e la personalità. La verità è la solidità del granito e la personalità è l’intoccabilità dell’arcobaleno: l’obiettivo della biografia consiste nel saldare questi due elementi senza mostrare alcun punto di sutura. La verità è legata a una scrupolosa ricerca tra i documenti accessibili dai quali non è possibile risalire ad alcuna personalità. Affinché la verità di una vita possa brillare in tutta la sua lucentezza, i fatti hanno bisogno di essere manipolati, alcuni sottolineati e altri sfumati senza che per questo venga avvertita la perdita della loro integrità. È nella personalità che si nasconde il carattere di un uomo o di una donna. Per la Woolf l’arte del biografo deve essere così raffinata e coraggiosa da proporre uno strano amalgama di sogno e realtà, un matrimonio duraturo di granito e arcobaleno. E se questo funziona per la scrittura biografica, io aggiungo che vale anche per quella autobiografica.

Non credo sia possibile distinguere tra una biografia per definizione veritiera e un’autobiografia per definizione bugiarda. Sia la scrittura autobiografica che quella biografica possono rivelarsi stucchevoli, ridondanti e hanno bisogno di spogliarsi dei loro orpelli, del loro sovraccarico di autocompiacimento, vittimismo, auto-assoluzione. Non esiste una scrittura buona di per sé, giusta in sé: è buona, perché convincente, quella che si interroga, che inserisce il dubbio e delinea le ragioni di quanto accaduto. Quella che si pone come un tassello tra il desiderio e la realtà, tra l’ideale e la concretezza, tra il passato, il presente e il futuro e ricerca un senso personale e collettivo, individuale e sociale.

Non sempre vengono pronunciate bugie per il solo tornaconto personale, ma anche per l’impossibilità di distinguere il vero dal falso o per la maniera affatto diversa, e soggettiva, di vedere le cose. Diventa allora importante lavorare su quelle “bugie”, perché ciascuno consumi fino in fondo la propria versione della storia e riesca poi a uscirne grazie al confronto con altri.

Lavorando con la scrittura autobiografica e memoriale in contesti come quello carcerario ho imparato ad aspettare che il racconto di ciascuno – uomo o donna che sia – diventi più autentico, passando attraverso le fantasie più sofisticate, i toni più melodrammatici, le narrazioni più mirabolanti. Ci vogliono diverse pagine, tanti testi prima di trasformare la scrittura in qualcosa che sia il più aderente possibile al proprio essere ed esserci – e che cos’altro è se non questo la verità? – e questo può avvenire approdando a una scrittura in alcuni casi in prima e in altri in terza persona, a brani in alcuni casi di pura fantasia e in altri di assoluto realismo. Può accadere mentre chi scrive parla della sua storia oppure di quella del compagno che si è tolto la vita.

Per fare emergere un racconto di tipo auto/bio-grafico diventa cruciale una scrittura individuale confrontata poi in gruppo, perché ciascuno, specchiandosi nel racconto degli altri, getti una luce diversa sul proprio modo di raccontarsi e precisi mano a mano la sua ricerca di parole per esprimersi e per trovare un senso a quanto accaduto.

Insieme a Karen Blixen sono convinta che non ci si debba spaventare dell’utilizzo dell’immaginazione nel racconto della propria o altrui storia. “Il mondo – lei sostiene – è pieno di storie, di casi e avvenimenti strani che aspettano solo di essere raccontati, e il motivo per cui in genere vengono passati sotto silenzio è la mancanza di immaginazione: solo se si sa ripetere con l’immaginazione si possono vedere le storie, e solo se si ha la pazienza di raccontarle molte volte, si può essere capaci di raccontarle bene”. La necessità del racconto nasce dal bisogno, come ha detto Edoardo Albinati citando Flaubert, di parlare delle cose “per vendicarle, per farle diventare eterne, per preservarne la memoria contro tutto quello che è stato detto e pensato di loro”.

Se questo è l’obiettivo, ciascuno deve scoprire qual è la forma più vera e autentica per dire di sé e della propria vita, di sé e dell’altro da sé, di sé e del mondo. Non autobiografia o biografia, ma autobiografia e biografia. O, forse ancora meglio, frammenti di autobiografia e biografica, schegge dell’una e dell’altra forma di narrazione. Come scrive Carmen Martin Gaite “Le storie è inutile cercare di raccontarle per intero, perché non sono mai intere, nemmeno per chi le ha vissute. E tantomeno si chiudono con la morte”.

 

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, io che ti racconto. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 2001

Virginia Woolf, “L’arte della biografia”, in La signora dell’angolo di fronte, Il Saggiatore, Milano 1979

Karen Blixen, Dagherrotipi, Adelphi, Milano 1980

Carmen Martín Gaite, La Regina delle Nevi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 1999

Forse è meglio lo stesso che ce le scriviamo noi le nostre storie

 

di Elton Kalica

 

Ma Edoardo Albinati ha colto nel segno, andando a toccare un “nervo scoperto”, quello del senso e dell’importanza, ma anche dei limiti della scrittura di sé. Dopo Adriana Lorenzi, ci prova, a rispondergli, Elton Kalica, un detenuto della redazione che qualcosa da dire ce l’ha, perché è l’autore, sul nostro giornale, di alcune delle più belle pagine di scrittura autobiografica

 

Un giorno ricevetti una lettera da un mio amico, che mi chiedeva se poteva scrivere la mia storia. Mi disse che trovava diverse cose interessanti nella mia vita e che quindi credeva che valesse la pena metterle nero su bianco. La cosa mi sembrò divertente e gli risposi che non avevo nulla in contrario, che se voleva l’avrei aiutato raccontandogli tutto quello che gli serviva sapere, ma lo sconsigliai dal farlo. Gli dissi che avevo in mente anch’io di scrivere la mia autobiografia, e che, come il Vangelo fu scritto in modo diverso da diversi discepoli, nello stesso modo lui scrivendo di me rischiava di farlo in modo diverso da come l’avrei fatto io, tra qualche anno. Poi conclusi la mia lettera, “… ovviamente ognuno dedica ai dettagli una scala diversa di importanza, ragion per cui ognuno valuta a modo suo quali sono gli aspetti da rimarcare e quelli da omettere. Ma alla fine la domanda sorgerà spontanea: qual è la versione che più si avvicina alla verità? Quella dell’amico che scrive delle cose raccontate, o l’autobiografia stessa fatta sotto forma di confessione? Pensaci bene!”. Quelle poche righe furono sufficienti per dissuaderlo, dimostrazione che la mia storia, in fondo, non lo appassionava così tanto. Sicuramente non avrebbe potuto scrivere qualcosa di straordinario, dato che non ha mai scritto qualcosa di bello su di sé. Il fatto è che io ho la forte convinzione che se una persona non riesce a raccontare bene le proprie storie, non potrà mai raccontare bene quelle degli altri. Ovviamente qualcuno dirà che allora i giornalisti, essendo dei professionisti, sarebbero le persone più indicate a scrivere della vita di noi detenuti. Ma per quanto bravi, i giornalisti non potranno mai rappresentare bene il carcere, senza averlo vissuto. Esiste un forte immaginario errato del carcere che condizionerebbe anche lo scrittore con più talento. Mentre per chi in carcere ci vive, è decisamente più facile raccontarlo in modo vicino alla realtà.

In carcere ho scoperto che sono capace di scrivere altro, oltre i temi che ci davano da sviluppare a scuola. Così, ogni tanto mi metto anch’io a scrivere, e devo confessare che lo faccio accompagnato da  una massiccia dose di eccitazione. Il sangue mi diventa denso e con le vene gonfie mi immergo nella storia che sto per raccontare, rivisitando con piacere le scene, indipendentemente dalla loro drammaticità o comicità. E non trovo soggetti migliori che me stesso. I miei sono racconti di cronaca, nel senso che parlo di una breve storia realmente accadutami, svoltasi magari nell’arco di alcune ore o minuti, ma ciò non toglie che mentre converto l’accaduto in parole sento come se ci fosse stata qualche fortunata coincidenza a fare in modo che fossi attore di quella storia, e che poi trovassi l’ispirazione per scriverla. All’inizio penso sempre che si tratti di una storia straordinaria, ma dopo mi accorgo che di straordinario c’è solo il fatto di aver deciso di scriverla, di documentare qualcosa che mi ha emozionato attraverso una emozione ancora più grande, quella della scrittura.

E allora mi domando: se una persona decide di scrivere quello che succede ad altri senza avere vissuto in prima persona la vicenda, o qualcosa di simile, come farà a metterci la passione che ci vuole per trasmettere delle emozioni? È difficile trasformare la storia di qualcuno in parole scritte, se non si prova prima quello che il protagonista ha passato. Questo discorso si può fare anche per le vicende più banali, come i tanti momenti della quotidianità in cui uno può trovare delle emozioni e dei valori, ad esempio una partita di pallone persa orgogliosamente, oppure un incontro improvviso con una persona che ti suscita ricordi, o ancora, un amore freddo che chiude la porta ad un altro amore a lungo desiderato. A maggior ragione la stessa cosa vale quando si deve raccontare il carcere, la più grave delle punizioni che lo Stato infligge alle persone, quindi una sofferenza per definizione.

Sono convinto che sia quasi fisiologico che storie simile vanno raccontate da chi le vive in prima persona. Sono i detenuti che devono imparare a scrivere bene se vogliono che rimanga traccia della loro sofferenza. Si può fare con un po’ di volontà: basta riuscire a selezionare i momenti significativi della propria vita detentiva, avere chiare le immagini e le sensazioni, per poi raccontarle, componendo in modo accurato quelle frasi che a loro volta si tradurranno in immagini nella testa di chi leggerà. Io per il momento ho imparato a sottolineare quei momenti della mia vita che meritano di essere ripresi, e che mi interessa raccontare. Mi rimane da studiare la parte più difficile, lo scrivere. Ma comunque, preferirei farlo io piuttosto che un giornalista, che in carcere non ci ha mai messo piede.

Ovviamente scrivere di sé, impone di dover poi scegliere se raccontare tutta la verità della storia, ma in fondo cosa importa dei dettagli, del desiderio di gloria o di scandalo, di scusa o di propaganda? Quello che più conta è raccontarsi bene, in modo che il lettore riviva esattamente quello che ha vissuto l’autore, si senta trasportato nel bene e nel male della vicenda, ridendo o piangendo secondo le circostanze. Tornando al mio amico che voleva esordire con la mia storia, mi viene in mente quello che diceva Paul Valery su Stendhal: “Del resto, gli autori di “confessioni” o ricordi, o di diari intimi, sono invariabilmente le vittime delle loro stesse speranze di scandalo; quanto a noi, siamo le vittime delle vittime”.

 

 

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