Parliamone

 

Per un’informazione onesta, sobria, pulita dal carcere e sul carcere

Sono i detenuti stessi che devono assumersi in prima persona un ruolo importante

nel rendere più trasparente la realtà della detenzione

 

La Giornata di Studi “Dalle notizie da bar alle notizie da galera” ha capovolto l’ordine delle cose, mettendo in primo piano, appunto, le notizie che escono dalle carceri grazie all’impegno diretto delle persone detenute a occuparsi di informazione. Ecco quindi che tutti gli interventi di apertura della Giornata sono stati di detenuti o ex detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, proprio per affermare in modo chiaro che le persone detenute non possono delegare a nessuno il compito di fare una informazione onesta, sobria, pulita dal carcere e sul carcere

Noi detenuti, noi soggetti sottoposti a inchieste, noi indagati,

siamo degli oggetti nelle pagine di cronaca dei giornali locali

 

di Stefano Bentivogli, ex detenuto, redattore esterno di Ristretti Orizzonti

 

Aver organizzato questa giornata di studi sull’informazione non è stata assolutamente una scelta casuale, non è casuale perché questa giornata viene dopo una serie di incontri che partono dal 1999, quando alcune redazioni di giornali, neonate o vecchie che fossero, hanno provato a conoscersi, a incontrarsi, a parlarsi, e a darsi una forma di organizzazione e una rete di comunicazione per poter potenziare l’informazione dal carcere e sul carcere. Da allora questo cammino ha incontrato diverse difficoltà, ma nonostante tutto è andato avanti, quindi questo gruppo di persone che lavorano dentro il carcere per renderlo più trasparente, sta trovando sempre più spazio all’esterno per poter essere un soggetto nuovo e importante, in quello che è il panorama dell’informazione.

Dentro all’informazione fino ad oggi noi siamo sempre stati degli oggetti, molto spesso degli oggetti per riempire delle pagine nella cronaca, la cronaca giudiziaria soprattutto. Nei giornali locali infatti queste pagine vengono sommerse di dati, di foto, di articoli sulle persone, spesso senza un minimo rispetto né delle persone coinvolte né di quelle che poi coinvolte direttamente non dovrebbe essere, come i nostri famigliari. Noi detenuti, noi soggetti sottoposti ad indagine o a inchieste, noi indagati, siamo degli oggetti. Il nostro tentativo oggi è quello invece di diventare dei soggetti, di dire finalmente la nostra, e dire finalmente la nostra significa iniziare a dare notizie, riflessioni, testimonianze che abbiano la dignità di stare a fianco dell’informazione dei grandi media e sappiano contrastare il continuo uso di luoghi comuni che proprio l’informazione ufficiale per pigrizia, per cattiva volontà continua a fare sui temi del carcere e della giustizia.

E questi luoghi comuni ormai sono tanti, e non sono dovuti solo alla pigrizia dell’andare a vedere come stanno davvero le cose, come quando si dice che i recidivi sono i professionisti del crimine, senza sapere o senza voler dire che la gran parte dei recidivi sono dei disgraziati, gli sfigati del crimine. Sono quelli che se li fanno tutti, gli anni di galera, escono e rientrano e continuano a farseli, tutti questi anni di miseria nei giudiziari, nelle carceri circondariali, dove la situazione della detenzione è la peggiore, è a volte a livello animale. Ecco, allora noi vogliamo mettere la nostra voce a fianco e contro questi luoghi comuni, per iniziare a dare una informazione che sia davvero sobria, pulita, onesta. L’informazione è un po’ anche dare una forma alle cose, e noi vogliamo partecipare a dare questa forma, dare un nostro contributo, perché questa forma si avvicini un po’ di più alla verità. Perché noi, soprattutto quando siamo dentro le celle e guardiamo la televisione e leggiamo i giornali, rimaniamo a volte allibiti, a vedere qual è la forma nella quale ci vogliono far rientrare, che non è la nostra, non siamo più noi: o siamo come al solito i luoghi comuni, o siamo i reati, noi diventiamo i reati che abbiamo commesso, e non siamo più persone, che quel reato l’hanno sì commesso, ma che restano comunque persone a tutti gli effetti.

Il fatto che in Italia si entri in carcere e poi si esca rapidamente, per esempio: ma perché non si informa su che cos’è la detenzione cautelare, perché non si spiega che la gente è vero che esce, ma poi i processi, la gran parte, gli sfigati, i recidivi, i processi se li fanno, la prescrizione non ce l’hanno, e scontano, poi  scontano tutto, e lo fanno in condizioni spesso neppure minimamente dignitose, c’è gente che va anche fuori di testa e non prende neppure i giorni di liberazione anticipata, perché non è in grado di affrontare la carcerazione in modo decente. Questo noi dobbiamo spiegarlo, dobbiamo raccontarlo, e per farlo dobbiamo prendere spazio anche nell’informazione ufficiale, dalla quale dobbiamo imparare a comunicare. Perché una cosa che a noi manca ancora tantissimo è la capacità di comunicare, e il nostro percorso come Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere deve essere proprio quello di imparare a comunicare ovunque e con ogni mezzo.

Un’altra questione sulla quale vorrei richiamare l’attenzione, perché è una questione che spesso non viene “trattata” dai grandi media, ma piuttosto “massacrata”, è quella delle misure alternative, che come al solito vengono vendute come se fossero già la libertà: ma non è così, chi le ha fatte lo sa, soprattutto lo sa chi le ha fatte ed è tornato dentro, magari senza aver commesso reati ma solo per aver violato le prescrizioni. In realtà sono patti, sono patti seri che si fanno, se si sgarra si torna dentro e quando si torna dentro non ci sono abbracci, non ci sono premi ulteriori, c’è spesso l’interruzione brutale di un percorso verso la libertà e la perdita di speranze e di opportunità.

Ma vorrei lasciarvi con poche parole su una immagine che è arrivata di recente in televisione, che è il sorriso e la felicità di Erika De Nardo per una partita di pallavolo. Partendo dal fatto che una ragazza poco più che ventenne era semplicemente contenta perché ha giocato a pallavolo, si è arrivati a leggere in quel sorriso il suo mancato pentimento, cioè a scandalizzarsi che una ragazza giovanissima, al di là del reato che ha commesso, possa ancora sorridere, questo è il messaggio che si sta mandando oggi. Allora io mi chiedo se vogliamo continuare a limitarci a fare i giudici impropriamente,  perché dai giudici Erika De Nardo è già passata, e la condanna l’ha già avuta, e la sta scontando, o vogliamo piuttosto provare, ad anni di distanza dall’accaduto, invece di fermarci su quel sorriso, a chiederci cosa c’è nella testa di questa persona, che si è costruita probabilmente una sua realtà allucinata per la quale il carcere difficilmente può essere la cura appropriata: questa è la cosa di cui si dovrebbe parlare, e invece ci fermiamo ancora a quel sorriso.

Io vorrei che l’informazione andasse oltre, che facesse vedere qualche foto in più, che facesse uscire qualche notizia in più dal carcere, a partire magari dalle notizie su quei compagni, che abbiamo visto viola, appena staccati dalla corda alla quale si erano impiccati, quei suicidi dei quali sui giornali quasi non resta traccia.

Quando l’informazione cerca il romanzo anche là dove c’è solo tragedia

 

di Marino Occhipinti - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Il fatto stesso che in tanti abbiano accolto il nostro invito a partecipare a una Giornata di Studi in carcere, organizzata con un contributo fondamentale delle persone detenute, ha per noi un’importanza enorme, perché evidentemente significa che siamo riconosciuti come persone che hanno sbagliato ma che non per questo hanno perso il diritto di parola. Bene o male – più male che bene, d’accordo – facciamo parte anche noi di questa società, e non è affatto detto che il vederla da dietro le sbarre ci renda più ciechi o più ottusi.

Da tempo affrontiamo l’argomento dell’informazione sul carcere e su noi detenuti per linee generali, mettendo in luce le inesattezze, o le fuorvianti semplificazioni, in cui più frequentemente incorrono televisione e carta stampata nel parlare di noi e dei fatti di cronaca che ci riguardano. Io tenterò ora di stringere il campo alla mia esperienza personale, affinché possiate rendervi concretamente conto della pesante ricaduta che ha sulla vita delle persone un certo modo talvolta un po’ troppo disinvolto di dare le notizie, e magari di gonfiarle cercando il romanzo anche là dove c’è solo tragedia.

Per un residuo di pudore che mi perdonerete, evito qualsiasi riferimento preciso alla vicenda di cronaca che mi ha avuto fra i suoi protagonisti. Mi limito a dirvi che sono stato condannato al massimo della pena, cioè all’ergastolo, e che di tanto in tanto giornali e televisioni continuano a tirare in ballo me e i miei coimputati nonostante siano ormai passati dodici anni dall’epoca dei fatti. La cosa mi amareggia, naturalmente, ma non mi stupisce più di tanto perché mi rendo conto, io per primo, che la vicenda è troppo grave perché la gente possa dimenticare. Trovo insopportabile invece che a distanza di tanto tempo il diritto all’oblio non venga garantito neppure ai miei famigliari, per i quali ogni “ritorno di cronaca” è una manciata di sale su una ferita che non si rimargina mai.

Vorrei che rifletteste su cosa significa per una famiglia normale, che ha sempre vissuto modestamente e rispettando le regole, scoprire che uno dei propri membri – un figlio, un fratello, un padre – sotto la superficie rassicurante di una vita perbene ha commesso reati gravissimi, al punto di essere additato alla pubblica opinione come un nemico della collettività, come un mostro da prima pagina. È una tragedia. Ma una tragedia che ai parenti non è neppure concesso vivere al riparo della propria coscienza, come un lutto privato, perché è così dannatamente pubblica da non rispettare più niente e nessuno. Per quanto vittime, seppure in maniera indiretta, dei reati commessi dal proprio congiunto, i parenti finiscono fatalmente anch’essi nel cono di luce che avvolge il colpevole, come fossero anche loro partecipi della colpa. Non è un processo razionale, lo so, ma un’onda emozionale che viaggia per logiche sue e che forse è impossibile contenere. Ma se questo ha un senso “al presente”, quando cioè un fatto avviene e irrompe nelle cronache con la prepotenza dell’attualità, non è detto che necessariamente lo abbia anche in seguito, quando la sovreccitazione dell’attualità si è placata e dovrebbe prevalere in tutti la misura, la riflessione, il rispetto per le persone e per la loro privacy.

E così, se incolpo soltanto me stesso per le ferite che le mie scelte criminali hanno comportato all’intimità e alla dignità dei miei in passato, quando i reati furono commessi e poi giudicati in tribunale, non posso invece non prendermela anche con i media per le ulteriori ferite che di tanto in tanto continuano a essere perpetrate nei confronti di mia madre, di mia moglie, delle mie figlie, tirandole direttamente o indirettamente in ballo ogni volta che la mia storia viene rispolverata, spesso del tutto arbitrariamente, all’unico scopo di riattizzare la curiosità un po’ morbosa dei lettori e dei telespettatori.

Vi faccio solo un esempio, il più recente. Non più tardi di un mese fa, a dodici anni di distanza dal mio arresto, una giornalista ha telefonato a mia madre per chiederle un’intervista. Sarà stata anche gentile e riguardosa, per carità, ma che senso ha andare a rigirare il coltello nella piaga a una donna che nulla aveva da dire allora come oggi, e che adesso non aspira ad altro che a vivere in pace, con quel po’ di serenità che le resta? Potrei forse capire se il mio fosse uno di quei casi controversi e pieni di zone d’ombra in cui c’è ancora spazio per il cosiddetto giornalismo investigativo; ma il mio caso è stato scandagliato in profondità come pochi altri, ed è tutto “nero su bianco” su carte processuali alle quali i giornali hanno già attinto mille volte. Che bisogno c’è, allora, di andare a caccia di scoop inesistenti, e comunque fuori tempo massimo, mancando sostanzialmente di rispetto a una persona che ha già così pesantemente pagato per colpe non sue?

Io non pretendo l’oblio per me, ma per mia madre, per mia moglie e per le mie figlie sì, lo pretendo. Hanno già pagato, e anche troppo, all’epoca in cui accaddero i fatti. Ricordo soltanto che, subito dopo il mio arresto, la mia casa fu letteralmente presa d’assalto dai giornalisti, che vi si accamparono giorno e notte davanti. Già travolte e stravolte dalla tragedia che gli era capitata addosso a cielo assolutamente sereno (il mio arresto avvenne a qualche anno di distanza dai reati, di cui peraltro nessuno dei miei era a conoscenza, e io conducevo una vita assolutamente regolare), mia moglie e le mie figlie furono costrette a cercare riparo in casa di parenti per sottrarsi a un assedio tanto più insopportabile quanto più coincidente, per loro, con un momento di disperazione totale, in cui la loro vita fino a ieri serena andava in frantumi e finiva nel fango, sotto gli occhi di tutti. Ricordo ancora che, all’epoca del processo, alcuni giornali arrivarono al punto di pubblicare la fotografia di mia moglie con tanto di didascalia (“la signora…, moglie di…”), associando così anche visivamente mia moglie alle mie colpe, e quindi additando pure lei – quanto meno in via subliminale – alla pubblica riprovazione.

 

Il rispetto della dignità personale è un diritto di tutti, anche di noi detenuti

 

Tempo fa si parlava un po’ meno di tutela della privacy di oggi, per cui certe indiscriminate invadenze nella vita delle persone direttamente o indirettamente inguaiate con la giustizia erano forse più comprensibili. Mi sorprende invece che tali eccessi continuino a essere all’ordine del giorno anche adesso, nonostante il Garante abbia negli anni scorsi più volte ribadito che le vigenti norme a tutela della privacy valgono – in buona sostanza e fatta eccezione solo per poche e ben precise circostanze – anche per gli indagati, per le persone sotto processo e perfino per noi che scontiamo in galera pene definitive. E che tanto più valgono, evidentemente, per i nostri famigliari.

Il tempo per guardare la televisione e per leggere i giornali a noi detenuti non manca, e vi assicuro che continuano a essere molti, moltissimi, i casi in cui noi e i nostri famigliari veniamo dati in pasto al pubblico senza alcun riguardo per la nostra natura di persone titolari comunque, al di là delle nostre responsabilità e delle nostre colpe, del diritto al rispetto e alla dignità personale che si deve riconoscere a ogni essere umano. Mi rendo conto che la cultura della privacy è ancora troppo recente, in Italia, perché abbia fatto a tempo a permeare di sé la nostra società nella sua interezza, diffondendo in tutti la cognizione che il rispetto della dignità personale non è un privilegio di qualcuno ma un diritto di tutti, figli cattivi compresi. Credo però che i mezzi di informazione debbano svolgere un ruolo più attivo nella diffusione di questa cultura, cercando di coniugare il pur sacrosanto diritto di cronaca con un atteggiamento più rispettoso e più umano nei confronti delle persone che ci finiscono in prima persona, “in cronaca”.

Se questo avvenisse, io credo che sarebbe un vantaggio per tutti. Per noi, che saremmo più motivati a riguadagnare la fiducia di una società che un giorno abbiamo offeso ma che non ci respinge per sempre; per le nostre famiglie, che non si sentirebbero macchiate da colpe che hanno solo subito; per gli stessi mezzi di informazione, che assolverebbero così alla loro funzione più alta: quella di rispecchiare una società che non ha paura di guardare le proprie ferite, ma che soprattutto pensa a curarle.

Un modo di raccontare il carcere senza paraocchi

 

di Flavio Zaghi - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Con la nostra redazione cerchiamo di fare informazione nel modo più chiaro, corretto e per quanto possibile semplice. Certo è però che siamo solo dei giornalisti improvvisati, e che neppure gioca a nostro favore la circostanza che nel nostro passato la correttezza non sia proprio stata il carattere distintivo del nostro stile di vita. Pur nei nostri limiti, cerchiamo tuttavia di fare sempre del nostro meglio, come dimostra l’autorevolezza che ha saputo guadagnarsi Ristretti Orizzonti e il numero sempre più elevato dei visitatori della nostra “finestra” su internet. Il nostro sito, www.ristretti.it, è infatti una autentica miniera di informazioni per chiunque e a qualsiasi titolo (operatori penitenziari, parenti di detenuti, giuristi, avvocati, studenti universitari, ecc.) si interessi del carcere e dei suoi problemi, e le sue “pagine” continuano a crescere a un ritmo per noi stessi sorprendente.  

Da qualche mese siamo riusciti anche a ottenere – e ne siamo molto orgogliosi – uno spazio fisso sul quotidiano “Il Mattino di Padova”. In una rubrica intitolata “Lettere dal carcere”, ogni settimana vengono pubblicati tre o quattro nostri articoli in cui cerchiamo di spiegare il carcere per quello che è per chi ci sta dentro, evitando lacrimose lamentele ma dicendo la nostra con franchezza anche su temi di scottante attualità, su cui spesso giornali e televisioni largheggiano in titoloni a effetto, a tutto svantaggio di un’informazione ponderata e completa. Non pretendiamo di avere l’esclusiva della verità, ma di aggiungere la nostra voce ad altre voci spesso più strillate della nostra, e però non necessariamente e non sempre più informate e attendibili. Ci sforziamo anche, nei limiti delle nostre capacità e dei nostri mezzi, di essere propositivi: perché denunciare quel che non funziona finisce per diventare un esercizio retorico se non ci si sforza poi di capire perché non funziona (o mal funziona) e di proporre degli opportuni rimedi.  

Io credo che la stampa dal carcere – quella fatta direttamente da detenuti coordinati e collegati con il mondo esterno da volontari capaci e intraprendenti – rappresenti un termometro molto sensibile, e molto utile per far capire i pensieri e gli umori che si sviluppano dietro le sbarre, fra gente che ha tagliato i ponti col mondo non per propria scelta ma perché ne è stata cacciata, a seguito di errori talvolta “veniali” e altre volte gravissimi, ma anche di tragedie private che nessuna sentenza è in grado di scrutare fino in fondo e di raccontare in dettaglio.  

Il nostro lavoro consiste anche nell’analizzare e mettere in discussione le leggi di cui più si parla, e non tanto sotto il profilo giuridico (ci sono altri, mille volte più competenti di noi, per farlo) quanto sotto l’aspetto dell’impatto reale, concreto, che una volta applicate esse hanno sulle persone che ne sono colpite. Un esempio classico, su cui abbiamo lavorato molto, è la cosiddetta “ex-Cirielli”, di cui abbiamo messo in rilievo in diversi articoli incongruenze e paradossi: a sentire i suoi promotori, avrebbe dovuto colpire selettivamente i criminali più incalliti; alla prova dei fatti, si sta invece dimostrando spietata soprattutto con le fasce più povere e sprovvedute della popolazione carceraria, come i tossicodipendenti e gli extracomunitari, che notoriamente compiono perlopiù piccoli reati, ma a ripetizione, e sono pertanto recidivi senza essere propriamente dei nemici pubblici numero uno. Inutile aggiungere che personaggi come Brusca – tanto per fare il nome di un vero “pezzo da novanta” – questa legge non li ha neppure sfiorati, perché non sono più in galera da tempo grazie ai generosi salvacondotti previsti dalla legge per i collaboratori di giustizia.

Siamo andati giù duri anche sulla Bossi-Fini, ma avevamo le nostre buone ragioni se non altro perché – a vederle e prevederle da dentro – certe cose risultano più chiare che a non vederle e non prevederle da fuori. E infatti, da quando è in vigore questa legge-tagliola, le galere italiane hanno preso a riempirsi anche di criminali che criminali propriamente non sono, in quanto il loro unico crimine consiste nel loro miserabile stato di clandestini. I giornali ne parlano poco, o anzi per niente, ma ormai non si contano quelli che sono dentro per aver accumulato una sfilza di fogli di via, per ciascuno dei quali è già partita – o sta per partire – una piccola pena (quattro, cinque, sei mesi), che sommata alla precedente e a quelle analoghe che arriveranno in seguito finisce per diventare una pena consistente e sotto tutti i punti di vista sproporzionata: anni, non mesi! Una posizione altrettanto critica abbiamo preso sulla legge “anti droga” Fini-Giovanardi e sulle sue fin troppo prevedibili ricadute di massa, che nel giro di mesi – se il nuovo Parlamento non provvederà in fretta a porvi rimedio – rischiano di portare in carcere anche persone trovate in possesso di dosi minime di cannabis.

Un’altra legge che a mio avviso vale la pena di ricordare è quella che ha ampliato i limiti della legittima difesa. Essendo stati alcuni di noi “parte in causa”, in passato, ci ha messo un po’ a disagio schierarci contro i fautori della nuova legge, perché ci rendevamo conto benissimo che potesse risultare quanto meno “interessata” l’esortazione a non sparare sui ladri proveniente da ex ladri… Ma ciò nonostante la nostra l’abbiamo detta, e che non avessimo poi tutti i torti a mettere in guardia contro il rischio di un troppo facile ricorso alla giustizia “fai da te” lo hanno dimostrato i cruenti fatti di cronaca che hanno seguito a distanza di giorni, direi quasi di ore, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di quella legge. Ricordo in particolare quel ragazzo ucciso in Campania,  freddato come un animale soltanto perché sorpreso a rubare una palma nana da un giardino.

Noi di Ristretti Orizzonti non disponiamo dell’Ansa o di altre agenzie di stampa, come i giornali “veri”, e nella nostra quotidiana ricerca di notizie dobbiamo limitarci pertanto a leggere i pochi giornali che ci capitano a tiro e a seguire con attenzione, spesso con taccuino alla mano, i più importanti notiziari televisivi e radiofonici. Un grosso aiuto, per la verità, ce lo dà anche l’attività di Rassegna Stampa che viene svolta in un altro reparto del “Due Palazzi”, ma il monte di informazioni a cui riusciamo ad attingere resta comunque molto inferiore rispetto a quello disponibile al giornale di provincia anche più male in arnese. Ciò nonostante cerchiamo di fare buon uso del materiale informativo che riusciamo a raccogliere, consultandolo con attenzione e poi discutendone fra noi, spesso addirittura in accese riunioni di redazione condotte con piglio leonino dalla nostra inesauribile “direttora”, Ornella Favero. In genere siamo anche troppo critici, lo ammetto, ma più passa il tempo e più mi convinco che il nostro atteggiamento ipercritico non dipende tanto da “dente avvelenato” nei confronti della società che ci ha chiusi dietro le sbarre e che talvolta vorrebbe buttare anche la chiave, quanto dal fatto che a vederle da dentro le cose sono veramente diverse, per il semplice motivo che a conoscerli da vicino, i criminali, sono soprattutto persone, piene di cose da farsi perdonare ma anche di valori positivi, di sensibilità, di intelligenza. E allora non si riesce ad accettare che vengano appiattiti sui loro soli reati, come perlopiù tendono a fare i media dipingendo come mostro anche chi mostro non è.

Più che una rivista con tanto di autorevole sito, Ristretti Orizzonti è però un modo di comunicare senza paraocchi il mondo del carcere, che si riflette anche in altre attività che ci siamo inventati e che stiamo portando avanti con un certo successo. Mi riferisco soprattutto all’iniziativa “Il carcere entra a scuola e la scuola entra in carcere”, giunta quest’anno alla seconda edizione, che ha registrato l’adesione di una quindicina di scuole medie superiori di Padova e provincia. Per la prima volta in Italia intere scolaresche di ragazzi fa i quattordici e i diciott’anni sono entrate in un carcere per confrontarsi con noi, in un dialogo aperto e senza pregiudizi, su problemi come la legalità, la giustizia, il delitto commesso e la pena da espiare, la progressione quasi impercettibile con cui la devianza degenera spesso in criminalità vera e propria, e quindi l’importanza della responsabilità personale, la consapevolezza delle conseguenze su se stessi e sugli altri (parenti compresi) delle scelte sbagliate, il valore della propria vita come patrimonio da non sperperare, e il valore della vita altrui.

Quei ragazzi, che al loro primo ingresso in galera erano perlopiù prevenuti, sono usciti quasi sempre persuasi dell’unica cosa che ci premeva davvero comunicar loro: che al di là dei nostri reati siamo delle persone, e che il nostro “cattivo esempio” – proprio perché impersonato da esseri umani e non da articoli del codice penale – può trasformarsi, per loro, in un invito disinteressato e sincero a vivere meglio e più responsabilmente di come abbiamo saputo vivere noi. Forse gli abbiamo dato qualcosa, offrendo ai loro occhi la triste realtà delle nostre vite spezzate; ma certamente hanno dato molto loro a noi, facendoci sentire ancora parte di una società che ci ha respinto, ma che non potrà mai cancellarci del tutto.

Siamo un pezzo di società su cui ciascuno

si sente autorizzato a dire e a scrivere la sua

 

di Graziano Scialpi - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Quando abbiamo deciso di organizzare questo convegno sull’informazione ci siamo posti il problema di costruire qualcosa di concreto; qualcosa, soprattutto, che uscisse dal circuito chiuso delle solite persone che si occupano di carcere o per ragioni professionali o perché mosse – come nel caso dei pochi ma valorosi volontari – da sensibilità personale e vera passione civile. Ed è stata appunto la volontà di affrontare senza reticenze il rapporto fra carcere e informazione, indirizzandolo su binari un po’ più chiari e garantisti degli attuali, a indurci a presentare in questa sede una proposta di “Carta di Padova” che sostanzialmente ricalchi, adattandole alle specifiche tematiche giudiziarie e carcerarie, le norme di autodisciplina che i giornalisti italiani si sono saggiamente dati qualche anno fa in tema di tutela dei minori con la “Carta di Treviso”.

Noi non siamo minori, d’accordo, ma come persone private della nostra libertà rappresentiamo comunque un pezzo di società sprovvisto allo stato attuale di ogni seria tutela, su cui ciascuno si sente autorizzato a dire e a scrivere la sua, spesso lasciandosi guidare più dalle suggestioni e dai pregiudizi che da vera conoscenza degli elementi di fatto. E l’informazione, quando diventa mala informazione, non solo produce danni gravissimi per noi, ma spesso finisce per danneggiare anche i nostri familiari, che non hanno alcuna colpa per i nostri errori e che dovrebbero aver garantito - se non la compassione - quanto meno il rispetto di tutti.

Pur convinti delle nostre buone ragioni, quando abbiamo cominciato ad abbozzare la nostra “carta” dubitavamo un po’ che potesse essere presa in seria considerazione dagli “addetti ai lavori”. Ma poi, quando ci siamo decisi a consultare alcuni rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa, e lo stesso ufficio del Garante della privacy, abbiamo riscontrato non solo vivo interesse per la nostra iniziativa, ma anche una generosa disponibilità a collaborare con noi nella realizzazione e nella messa a punto di un documento ritenuto utile e anzi necessario. Un documento, del resto, non certo da inventare di sana pianta: come nel caso della “Carta di Treviso”, si tratta infatti più che altro di organizzare in un unico testo – e di ribadire con forza – indirizzi etici e norme di deontologia professionale già presenti in altri documenti di ben più complesso respiro, a partire dalla stessa Carta costituzionale per finire alla Carta dei doveri del giornalista del 1993, passando – e riccamente attingendo – attraverso le nuove leggi sulla privacy, che pongono dei limiti molto precisi – ma finora perlopiù non rispettati – all’invadenza dell’informazione nei confronti delle persone private della libertà e dei loro familiari.

Lavorando con passione a questo progetto, siamo riusciti a elaborare una bozza di “Carta di Padova” che proponiamo con fiducia all’attenzione dei rappresentanti dell’ufficio del Garante della privacy, dell’Ordine dei Giornalisti e della Fnsi che hanno accolto il nostro invito e hanno voluto onorare il nostro convegno della loro presenza. Ci rendiamo conto noi per primi che il nostro testo, appunto, è solo una “bozza”, e che nei prossimi mesi dovranno lavorarci sopra con pazienza i più diretti interessati alle norme di auto-disciplina che proponiamo: i giornalisti italiani. Siamo anche certi, però, che un primo importante passo è stato comunque compiuto, e che anche grazie al nostro contributo il rapporto fra informazione e carcere potrà forse diventare, in futuro, un po’ più chiaro, obiettivo e rispettoso di oggi.

Concludendo, desidero osservare che la nostra proposta di “Carta di Padova” si chiude, a mio avviso molto opportunamente, con un invito all’Ordine dei Giornalisti a estendere all’esecuzione penale i corsi d’approfondimento giuridico che organizza in preparazione dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione. Sui temi specifici dell’esecuzione penale c’è infatti in Italia un’ignoranza abissale, che spesso non risparmia nemmeno gli avvocati che non hanno direttamente a che fare nella pratica di tutti i giorni con le complesse e farraginose procedure del carcere, e… figurarsi quindi i giornalisti!

Paradossalmente gli italiani (grazie alla visione di film e telefilm americani costruiti in modo professionalmente impeccabile) conoscono l’esecuzione penale degli States molto meglio di quella di casa loro. Tant’è che non suscita scandalo in nessuno vedere che in America un omicida può pagare la cauzione e tornare in libertà, perché è chiaro a tutti che entro sei mesi andrà comunque sotto processo e sarà chiuso a doppia mandata, se riconosciuto colpevole. Suscita scandalo invece (e infatti regolarmente viene invocata sui giornali, a titoloni, la “certezza della pena”) che un italiano venga liberato dalla custodia cautelare per decorrenza dei termini, quando dovrebbe invece essere chiaro a tutti che una cosa è la custodia cautelare in attesa di processo (che giustamente ha dei termini di garanzia che non possono essere superati, in nessun caso) e tutt’altra cosa la condanna definitiva, con sentenza andata in giudicato. Nel qual caso la pena, in Italia, non è solo certa, ma certissima.

Trovo un po’ sconsolante che i telefilm americani informino sul sistema penale di quel paese in modo più efficace di quanto facciano i media italiani sul nostro, ma ciononostante voglio essere ottimista e pensare che a questo stato di cose si possa ancora porre rimedio. Certo, non m’illudo che possano avvenire radicali cambiamenti dalla sera alla mattina, perché il cammino per l’affermazione e l’applicazione dei principi è sempre lungo e accidentato. Come primo passo, però, è già qualcosa cominciare a stabilire i principi.

Un giornale che dà spazio ai problemi degli stranieri

e alle loro storie fa anche un’informazione rivoluzionaria

 

di Elton Kalica - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Tra i giornali “normali”, in Italia, di firme straniere se ne leggono poche, mentre nella sfortuna di trovarsi in carcere gli stranieri hanno avuto la fortuna di poter avere voce nelle riviste come Ristretti Orizzonti. Senz’altro per i giornali è stato un arricchimento. Credo che il fatto di dare spazio agli stranieri, e dare quindi la possibilità di esprimersi sulle condizioni di disagio in cui vivono, raccontando le proprie storie, sia un guadagno prima di tutto per l’informazione in generale, e poi anche per le stesse persone straniere che vedendosi coinvolte hanno più stimoli di pensiero, di idee, e anche di critica rispetto a tutto quello che li circonda.

Ovviamente in un carcere in cui gli stranieri costituiscono il trenta per cento dei detenuti, fare un giornale che escluda la presenza di detenuti stranieri significherebbe fare un’informazione incompleta. Questa incompletezza caratterizza invece sempre il tipo di informazione che si fa normalmente, nei giornali ordinari. Ad esempio, attraverso le notizie che si occupano puramente della cronaca, del reato e basta, si crea la percezione che lo straniero sia il cattivo che gira di notte a fare del male e non si fa mai prendere. È sempre là, nascosto, e salta fuori quando meno te lo aspetti. Mentre nessuno si sofferma a cercare di conoscerli, gli stranieri, per capire qualcosa in più. In realtà difficilmente si può apprendere dai giornali che tanti stranieri passano anni in carcere senza poter fare colloqui con i propri cari, a volte senza mai poter telefonare a casa, senza una lira, senza un giorno di permesso premio, senza le misure alternative, e senza tante altre cose. È per questa ragione che ritengo incompleti i giornali dove non vi è il contributo degli stranieri.

Un giornale che dà spazio ai problemi degli stranieri e alle loro storie fa decisamente anche un’informazione rivoluzionaria.

Nessuno ci pensa, ma le regole in generale e quelle che disciplinano la vita dei detenuti in carcere, in particolare, non hanno tenuto conto delle esigenze degli stranieri. Ad esempio questa mancanza si rispecchia in primo luogo nelle difficoltà che ci sono per fare colloqui con i propri famigliari. Non esiste una legge che conceda la possibilità ai famigliari dei detenuti di richiedere un visto d’ingresso per venire in Italia a trovare il proprio caro in carcere. Un altro esempio sono le telefonate. Il regolamento prevede che si può essere autorizzati a telefonare soltanto a casa dei parenti di primo grado. Questa norma non crea tanti problemi agli italiani, dato che il livello di benessere in Italia permette a tutti una linea di telefono a casa. Invece, tanti stranieri non hanno il telefono a casa. Magari vi è solo un telefono in tutto il villaggio, ma non si può telefonare a quel numero perché non è il telefono di casa, cioè intestato a un parente. Per questa ragione molti passano anni senza mai telefonare a casa. E come questa ci sono parecchie altre norme con cui i detenuti stranieri devono fare i conti, basterebbe la curiosità di saper coinvolgere le persone direttamente interessate. È inevitabile che, se tutti quelli che si occupano di informazione lo facessero proprio coinvolgendo chi è colpito da leggi assurde, si finirebbe per avanzare istanze di cambiamento, e a volte ci si potrebbe anche riuscire, a cambiare le cose.

Tantissime sono le ragioni per le quali gli stranieri devono avere spazio nei giornali dal carcere, ma le stesse ragioni sono valide anche per quei giornalisti professionisti che vogliono fare un’informazione più corretta. Se vogliono scoprire dove zoppica questa società possono iniziare la loro indagine dalla condizione degli stranieri.

 

 

Precedente Home Su Successiva