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Per favore non giudicate i ragazzi con le categorie degli adulti

 

Intervista a Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari. Che rilancia l’idea delle "strutture per giovani adulti", ripercorre a freddo la riforma Castelli sulla giustizia minorile, racconta com’è cambiata la devianza degli adolescenti nei suoi venticinque anni sul campo. E rivela: "A volte i ragazzi finiscono in carcere invece che in comunità solo perché al Ministero mancano i soldi".

 

di Marino Occhipinti e Emanuela Zuccalà

 

A diciott’anni non si diventa grandi di colpo. E nemmeno a ventuno, in molti casi. Eppure le rigide gabbie della giustizia separano nettamente adolescenza e piena maturità: istituti penali minorili da un lato, carceri per adulti dall’altro. "La fascia d’età tra diciotto e venticinque anni dovrebbe invece ricevere un trattamento autonomo: la fase evolutiva non finisce a diciott’anni. Perché non costruire un terzo genere di strutture, simili agli istituti per i minorenni, che accolgano giovani adulti, sia quelli puniti per reati commessi da minorenni, sia quelli che delinquono dai diciotto ai venticinque anni? Gioverebbe anche ai ragazzi più piccoli, che spesso dietro le sbarre convivono con giovani che già hanno lunghe storie di criminalità alle spalle". La proposta arriva da Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari e tra i più fermi oppositori della riforma Castelli sulla giustizia minorile.

 

Lei è giudice minorile da venticinque anni. Come ha visto cambiare la criminalità fra i più giovani?

Profondamente, così com’è cambiato il Paese. Ma in Italia la criminalità minorile non è clamorosa nei numeri. Una ricerca di qualche anno fa faceva un confronto europeo: su mille ragazzi da quattordici a diciott’anni, in Francia la devianza ne riguardava 43,5, in Germania 81,9, in Inghilterra 33 e in Italia solo 9,7. Vent’anni fa la devianza minorile riguardava le periferie, i ragazzi con famiglie inadeguate. Oggi è diverso: non si parla più di devianza ma di devianze.

 

C’entra quello che qualcuno definisce il "malessere del benessere"?

Per certi reati sì, ma sono state individuate sei categorie di devianze minorili. Accanto a quella "tradizionale", dei giovani di periferia, ci sono i ragazzi della mafia, soprattutto al Sud. Non sono necessariamente inseriti in gruppi criminali, basta che vivano la subcultura mafiosa: stare dalla parte del violento, seguire i principi dell’omertà e negare quelli del vivere sociale. Un modo di ragionare che si diffonde nella media borghesia. La terza categoria è quella dei ragazzi stranieri, arrivati in Italia negli anni 90: nomadi specializzati in furti d’appartamento e nordafricani, albanesi e dell’Est che spacciano droga. Il quarto modello di devianza minorile, invece, non è sociopatico (non nasce cioè da contesti disagiati): si sviluppa dal "malessere del benessere", appunto, da una società opulenta che si scopre povera di valori, da una media borghesia che ha smarrito il senso dei legami familiari. Oggi l’alto numero dei divorzi contribuisce alla perdita dell’identità familiare, mentre il consumismo e la cultura del lavoro-lavoro-lavoro tolgono attenzione ai figli. A un certo punto si scopre che i nostri ragazzi hanno profanato un cimitero in una serata brava (è un caso che mi è capitato): loro non sanno spiegare perché, e i genitori cadono dalle nuvole. Le ultime due categorie riguardano il bullismo nelle scuole e le violenze negli stadi: devianze intermedie tra le prime e il "malessere del benessere".

 

Ma i "bravi ragazzi" che delinquono fanno più paura degli altri…

È lo stesso disagio da cui nascono vicende come quella Novi Ligure, o le ragazze di Chiavenna che uccisero una suora, o quelli che tirano massi dai cavalcavia. Fatti che spaventano perché non si arriva a capirne il perché. Dal punto di vista numerico questa nuova devianza non è consistente come quella tradizionale, ma è così clamorosa che un solo episodio crea più allarme di mille furti o scippi. Lo scippo ha una logica, quella del guadagno; quei delitti sono invece l’altra faccia della società opulenta. E questo si collega alla riforma proposta dal ministro Castelli: lui dice che i tribunali minorili, nelle loro competenze civili, sono invasivi per la famiglia. In realtà è il contrario: la famiglia oggi non ha sostegni. Per prevenire le crisi e quindi una certa devianza minorile, occorrono programmi seri di preparazione e aiuto per gestire i rapporti nei casi di separazione.

 

Cosa si potrebbe fare per migliorare la giustizia minorile, affinché non sia non solo repressiva ma vada verso un reale recupero sociale?

La prevenzione è fondamentale e non si fa: inserire équipe psicologiche e sociologiche nelle scuole, oltre a insegnanti più preparati a cogliere i segni del disagio. Prendiamo gli abusi sessuali, che nell’ottanta per cento dei casi avvengono in famiglia: se gli insegnanti fossero in grado di intercettare certi segnali, si farebbe vera prevenzione. La scuola invece ignora per non aver fastidi, per non denunciare. Ci vorrebbe un forte collegamento dei servizi sociali con la pubblica istruzione.

 

E a posteriori, quando il disagio è già esploso attraverso un reato, qual è la strada da seguire? Le carceri minorili riescono nel reinserimento sociale?

Ci vorrebbe una riforma del diritto penitenziario minorile, è un problema di volontà politica. Con la legge del 1975 sul carcere per adulti, si era detto che le norme sarebbero valse per i minorenni fino a un codice specialistico per loro. Lo aspettiamo da trent’anni. Per certi ragazzi il carcere non serve. In alcuni casi, quando la pena diventa definitiva, il servizio sociale dovrebbe poter chiedere al Pubblico Ministero di sospenderne l’esecuzione per un mese, così da elaborare un progetto di messa alla prova. E se questo va a buon fine, il giudice potrebbe poi prevedere un affidamento con un programma di recupero, oppure una semi-detenzione in casa. Tenendo il carcere solo per i casi estremi, il sistema funzionerebbe meglio. Ma voi saprete che il ministero della Giustizia dice agli uffici periferici di non disporre troppi collocamenti in comunità perché non ci sono soldi. Non è l’esecutivo al servizio della realizzazione della giustizia, è la mancanza di soldi che frena le misure a tutela dei minori…

 

Dopo il delitto di Novi Ligure, nel febbraio del 2001, l’opinione pubblica si indignò di fronte alla possibilità che ai due imputati – invece di una condanna dura ed esemplare – fosse concessa la messa alla prova. Di che cosa di tratta e quale percentuale di successo registra?

La percentuale di fallimenti è modesta, anche perché si applica in pochi casi e con ragazzi che davvero abbiano dimostrato un cambiamento. Prima che l’imputato o il suo avvocato chiedano la messa alla prova, i servizi sociali valutano sia il contesto familiare del ragazzo, sia l’autenticità della sua volontà di maturare. Una volontà non solo dichiarata ma oggetto di comportamenti coerenti.

 

Come funziona esattamente la messa alla prova?

Si valuta la personalità per un periodo da uno a tre anni, a seconda della gravità del reato, durante i quali il ragazzo sta a casa e segue un progetto di recupero che può comprendere la scuola, il lavoro e alcune prescrizioni. La messa alla prova è prevista anche per gli omicidi, perché si presuppone che un ragazzo in età evolutiva sia in grado di cambiare qualunque cosa abbia commesso. Il giudice ha un’ampia discrezionalità: se non vede ragioni per escludere la messa alla prova, incarica i servizi – che non l’abbiano già fatto prima – di svolgere una relazione psicosociale. E quando il processo si celebra a distanza di anni dal reato, l’evoluzione può essere già stata profonda: se da tempo il ragazzo non commette reati, oppure lavora, ha trovato la ragazza, ha avuto un figlio, la messa alla prova è quasi obbligata per realizzare il suo recupero. Ad altri giovani, al contrario, capita di inserirsi in gruppi criminali e di commettere ulteriori reati: qui mancano le condizioni per una messa alla prova. Ma non è mai un campo dai contorni così definiti: alcuni ragazzi, pur gravati da diversi reati, a un certo punto invertono la rotta. Basta un evento, un incontro, una riflessione. Concedendo loro la messa alla prova, e ottenendo buoni risultati, si può richiederla anche negli altri processi pendenti.

 

Per gli adulti, seppure per certi tipi di reati, sarebbe un’utopia pensare a una misura simile?

Io non vedrei controindicazioni. Già oggi, per i reati di competenza dei giudici di pace, è previsto che si possa sospendere il processo e tentare una conciliazione, avvalendosi di una mediazione. L’imputato può impegnarsi in una riparazione del danno e, se la vittima si dichiara soddisfatta, si estingue il processo. Si potrebbe allargare questa prospettiva ad altri reati, ma ci vorrebbe un atto di coraggio. Pensate alla vicenda di Erika e Omar e al clamore dei media: si minacciava il rischio che, con una messa alla prova, i due venissero subito liberati. È vero che i giudici devono prescindere dal sentire dell’opinione pubblica, ma è anche vero che certi fatti possono suonare così gravi da spingere perfino il legislatore a cambiare le cose. Quello era uno dei momenti in cui la giustizia minorile avrebbe potuto mutare. E infatti la riforma Castelli è arrivata di lì a poco.

 

Perché, secondo lei, i delitti commessi dai minori scatenano sconcerto e morbosità nei media e nella gente più dei reati degli adulti?

Perché da sempre l’adolescente suscita curiosità, paura e diffidenza. In passato non c’era differenza di sanzioni tra maggiorenni e minorenni: un secolo fa il ragazzino sorpreso a rubare poteva essere impiccato. L’imputabilità a partire dai quattordici anni, e la diversa applicazione delle sanzioni per i minori, sono conquiste del Novecento che nascono dallo sviluppo del sapere minorile (la neuropsichiatria infantile, la psicologia dell’età evolutiva). È un sapere colto, delle scienze, che non coinvolge l’opinione pubblica. Ecco perché la gente, e la stampa, partono dallo stereotipo del bambino buono e innocente, che quando sbaglia dà maggiore scandalo. Negli ultimi anni, quello di Novi Ligure è stato l’unico matricidio-fratricidio commesso da un minore. Nello stesso periodo, ogni due mesi, un adulto uccideva il figlio o il coniuge: notizie sparate per un giorno e subito sepolte. Fossero state delle nuove Erika, si sarebbe gridato allo scandalo a lungo.

 

Torniamo alla riforma proposta dal ministro Castelli che, prima del no del Parlamento, ha provocato proteste e vasti movimenti di opinione. Cosa sarebbe successo se fossero stati aboliti i tribunali minorili per sostituirli con apposite sezioni presso i tribunali ordinari?

Inizialmente si voleva abolire solo la competenza civile dei tribunali minorili, accorpandola ai tribunali ordinari e lasciando ai primi solo il penale. Noi ci siamo opposti drasticamente: non si può scindere la sfera dei minorenni nelle categorie degli adulti, civile e penale. Per loro, il disagio rappresenta spesso l’altra faccia delle problematiche familiari: la mancanza di cure nell’infanzia può produrre devianza nell’adolescenza. Attribuire il civile a un giudice e il penale a un altro, significava applicare un canone adultocentrico al mondo minorile. Così si giunse alla seconda fase della riforma, quando Castelli propose che alle sezioni ordinarie della famiglia si accorpasse tutta la competenza minorile, penale e civile. Era grave la pretesa di attuare la riforma a costo zero: i 29 tribunali minorili si sarebbero trasferiti non si capiva presso quali tribunali ordinari, che sono 150; il personale del minorile sarebbe stato forse azzerato; i giudici non sarebbero stati specializzati, contrariamente a quanto da sempre suggerisce la Corte Costituzionale. Uno scempio. Ecco perché ci siamo opposti. Siamo pronti a pensare a un accorpamento dei temi famiglia e minori, ma su un altro piano, con una riforma che preveda fondi per sedi adeguate e la formazione del personale.

 

Tra i cambiamenti proposti c’era anche l’abolizione dei giudici onorari, gli esperti presenti nei collegi giudicanti per i minori. Che ruolo svolgono queste figure "laiche" e perché sono importanti?

Sarebbe stato un altro scempio. La logica dovrebbe portare all’esatto contrario: inserire i giudici onorari anche in tema di separazione e divorzi. Io credo che ogni materia attinente al vissuto familiare, dove non si cercano colpe ma si tentano nuovi assetti per il futuro, debba essere nelle mani di professionalità interdisciplinari. Il giudice interpreta e applica le norme; l’integrazione di saperi pedagogici, psicologici e sociologici permette una decisione matura. Ecco a cosa servono i giudici onorari.

Tempo fa si dibatteva della possibilità di abbassare a dodici anni la soglia di punibilità. Cosa pensa di questa ipotesi?

La nostra contrarietà su questo punto deriva dalle ricerche: una in particolare, condotta dal Centro nazionale per l’infanzia e l’adolescenza di Firenze, attesta che i reati commessi dagli infraquattordicenni sono sciocchezze in termini numerici. Reati ripetitivi, commessi soprattutto da ragazzi nomadi. Il problema è sociale, non penale: l’integrazione di queste minoranze e dell’inserimento scolastico dei loro figli.

 

È vero che la recidiva minorile è piuttosto alta? Da che cosa è determinata, secondo lei, un’elevata percentuale di fallimento dei programmi di reinserimento, tenuto conto delle discrete risorse umane ed economiche degli Istituti penali per i minorenni?

La recidiva del minorenne è più alta per una caratteristica che, di nuovo, lo distingue dall’adulto: l’adolescente è inserito nel gruppo dei pari, difficilmente commette il reato da solo. Quelli che noi consideriamo i suoi correi sono gli amici di quartiere. Alcuni ragazzi che lasciano la scuola passano la giornata nell’ozio, e i loro riferimenti diventano i coetanei nella stessa situazione: emarginati dalla scuola, non ancora inseribili in un’attività lavorativa per questioni di età, che vivono come sospesi, senza spazi né possibilità di inserimento. Diventano potenzialmente devianti. Il reato è il sintomo di un disagio dal quale non è l’imposizione di un giudice che può tirarli fuori. Mentre gli adulti, essendo maturi, hanno una volontà specifica per ogni singolo reato, la prospettiva esistenziale dei minori è diversa: si influenzano a vicenda e si oppongono ai grandi. Anni fa mi è capitato un episodio sintomatico: un ragazzo aveva commesso vari reati di una certa consistenza e all’udienza, nella logica di fare una messa alla prova, io gli dissi che avrebbe dovuto lavorare, stare bene con la sua famiglia e non incontrare i suoi correi. Lui aveva accettato tutto, ma arrivati qui mi disse: "Giudice, ma tu mi vuoi togliere tutti gli amici?". Per lui erano i compagni con cui si era divertito ed era andato anche a rubare. E io ero il cattivo che voleva limitargli la socializzazione. È un altro esempio di quanto sia scorretto giudicare gli adolescenti con le categorie degli adulti.

Com’è importante tener conto del "punto di vista bambino"

 

In Friuli Venezia Giulia il bambino è un soggetto in grado di poter esercitare a tutti gli effetti i propri diritti. Ne abbiamo parlato con Francesco Milanese, Pubblico Tutore dei Minori della Regione

 

di Graziano Scialpi

 

In contrasto con una tendenza nazionale che, sull’onda di sporadici episodi di cronaca, invoca una "svolta" inutilmente repressiva nella legislazione minorile, già da qualche tempo la Regione Friuli-Venezia Giulia ha avvertito la necessità di offrire una maggiore garanzia al rispetto dei diritti e della tutela dei minori. A questo scopo, è attiva da tempo la figura del Pubblico Tutore dei Minori, istituita con una legge regionale. A ricoprire, per la seconda volta, questo delicato ruolo è il professor Francesco Milanese, docente di Legislazione minorile presso l’Università di Trieste, che ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.

 

Professor Milanese, lei ha da poco iniziato il suo secondo mandato come Pubblico Tutore dei Minori della Regione Friuli Venezia Giulia. Ci vuole parlare di questa figura poco conosciuta? Come e da chi viene scelta? Di cosa si occupa? Qual è la sua importanza? Esiste solo in Friuli-Venezia Giulia, che è una regione a statuto speciale, oppure è prevista in tutta Italia? Secondo lei come potrebbe essere migliorato questo ruolo?

Il Pubblico Tutore dei Minori è un organo di garanzia emanazione del Consiglio Regionale, come tale riceve il proprio mandato dalla legge che ne definisce le funzioni. I suoi compiti sono di diversa natura: da un lato quelli promozionali, relativi alla diffusione di una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza che rispetti i diritti dei minori e che pervada tutta la pubblica amministrazione dalla scuola, ai servizi sociali, dalla cultura allo sport al tempo libero, così come ogni ambito che possa riguardarli direttamente o indirettamente; dall’altro lato compiti di garanzia, ossia la segnalazione di situazioni a rischio in riferimento a casi singoli o interessi diffusi. A queste attribuzioni se ne aggiunge una terza, importantissima, vista la vasta competenza legislativa del consiglio regionale, e cioè l’espressione di pareri sui progetti di legge e sui provvedimenti amministrativi. Essa si traduce nella possibilità per il Tutore Pubblico di aiutare il legislatore e l’amministrazione a tener conto del "punto di vista bambino" che altrimenti è difficile venga preso nella dovuta considerazione dalla politica.

A questo proposito ho presentato, di recente, a Roma alla Presidenza della Commissione Infanzia del Senato alcune riflessioni di merito nella discussione relativa all’istituzione di un garante nazionale, figura prevista in alcuni disegni di legge all’esame della Commissione stessa, richiamando l’attenzione sulla necessità di produrre un nuovo sistema di esercizio della tutela dei diritti dei minori.

Oggi siamo di fronte alla possibilità di una grande innovazione nella concezione della tutela in ambito minorile, introdotta dalla Convenzione Europea - ratificata in Italia nel marzo dello scorso anno - che impone di passare da una percezione del bambino come oggetto della nostra protezione e cura, a quella di considerarlo soggetto di diritto in grado di poter esercitare a tutti gli effetti i propri diritti, realizzando nel contempo le forme e gli spazi di un esercizio sostanziale degli stessi.

La tutela quindi non più in sostituzione delle funzioni e delle capacità del soggetto bensì come accompagnamento nel percorso educativo fino al progressivo compimento delle sue capacità.

Per quanto riguarda il miglioramento del ruolo del Tutore Pubblico intendo far crescere l’Ufficio da una parte aumentandone la visibilità, e a questo riguardo vorrei aggiungere con soddisfazione che da poco l’Ufficio gode di una maggiore dotazione organica ed è presente in tutti i capoluoghi di Provincia dove sono a disposizione del pubblico in ciascuna sede almeno una volta a settimana; dall’altra parte rafforzandone la riconoscibilità verso gli operatori, come punto di riferimento di consulenza, di mediazione e, ove si renda necessario, di controllo, ponendomi quale interlocutore di eccellenza nei rapporti con le diverse amministrazioni: regionale, degli enti locali, delle aziende sanitarie, delle scuole, dei servizi, del volontariato in relazione alle politiche per l’infanzia e l’adolescenza. Questo è un aspetto di principio sulla base del quale intendo qualificare l’attività del mio mandato anche attraverso un’attività di promozione della capacità operativa di quanti a vario titolo operano nel settore minorile. La formazione di tali operatori è un problema molto sentito perché la qualificazione dei servizi passa anche e soprattutto attraverso la preparazione di chi li fornisce e la garanzia che la stessa sia adeguata è senz’altro uno strumento per rispondere in modo sostanziale alle esigenze di tutela dei minori. Ci sono invece dei limiti ancora piuttosto evidenti sul piano normativo, che però il legislatore regionale ha dichiarato di voler superare all’interno di un progetto complessivo di riforma della difesa civica che dovrebbe trovare un importante e significativo luogo di legittimazione costituzionale nella ormai prossima elaborazione del nuovo statuto regionale.

 

Lei ha definito la famiglia come un "luogo nevralgico". Il Procuratore generale presso la Cassazione, parlando del cambiamento delle tipologie dei delitti minorili, sempre più gravi e commessi da giovani provenienti da ambienti sociali "normali", ha messo in relazione questi mutamenti con il maggiore numero di separazioni e divorzi e la conseguente crisi dei riferimenti e valori familiari. Lei condivide questo punto di vista?

La crisi di valori che ormai da lungo tempo avvertiamo anche nel nostro vivere quotidiano è un dato che purtroppo contraddistingue la società contemporanea. Allo stesso tempo è innegabile che in relazione alle situazioni di separazione e divorzio - nelle cui delicate fasi i genitori vedono affievolirsi fino a scomparire, il loro ruolo di riferimento per i figli - si registri un aumento di situazioni di disagio minorile che a volte sfociano nei casi di cronaca che tutti noi conosciamo. L’aumento del ricorso al servizio di neuropsichiatria infantile, con una domanda che supera di gran lunga l’offerta del servizio e che conta migliaia di casi, è un altro forte e allarmante segnale di questo malessere. Tutto ciò fa riflettere sul difficile, ma fondamentale ruolo della famiglia come nucleo fondamentale, cellula costitutiva della società e induce a domandarsi se essa sia ancora in grado di svolgere il suo compito primario e cioè quello di far nascere e crescere al suo interno gli individui, le persone. La risposta è senz’altro positiva. Oggi più di ieri il ruolo della famiglia va riaffermato e sostenuto con vigore. Nell’epoca attuale le famiglie sembrano essere senz’altro più isolate, più abbandonate di un tempo. Questo scenario tuttavia non può essere semplicisticamente ricondotto all’incremento del numero dei divorzi, ma piuttosto ad una "metamorfosi" della famiglia stessa e della società di cui fa parte. Non dimentichiamo che nella famiglia tradizionale i nonni, accanto ai genitori quando non addirittura in loro sostituzione, rappresentavano per i nipoti un importantissimo punto di riferimento, mentre oggi quasi sempre costituiscono un nucleo familiare a parte. Il numero dei figli era quasi sempre superiore a due, con differenze d’età notevoli, tanto che anche i fratelli maggiori avevano compiti di aiuto e di controllo verso i più piccoli.

La società inoltre, soprattutto nelle piccole realtà di paese, era strutturata in modo tale da costituire essa stessa una "rete" di protezione per i ragazzi: penso alla figura del parroco e al ruolo di aggregazione e di controllo svolto dagli oratori, penso alla maestra elementare percepita come una vera e propria istituzione di riferimento. Tutto questo è cambiato, fa parte dei nostri ricordi di un mondo lontanissimo dai figli di internet e della play-station e tuttavia la famiglia non può certo essere sostituita. Il suo ruolo primario è ancora indiscusso, ma di fronte alle nuove sfide che si trova ad affrontare, essa va sostenuta nel suo supremo compito. Solo nella famiglia infatti i ragazzi ricevono quel complesso di attenzioni, di affetto, di comprensione, di rispetto e di amore indispensabile per una sana crescita psico-fisica. Sappiamo bene come le relazioni famigliari siano uniche ed insostituibili anche quando per incomprensioni o avversità risultino difficili. Di fronte alle sollecitazioni disgregative sia interne che esterne, le istituzioni hanno il dovere di aiutare la famiglia a trovare e mantenere la necessaria stabilità e l’Ufficio del Tutore Pubblico dei Minori può offrire un valido aiuto in tal senso. Quest’anno, in collaborazione con il Centro per la Salute del Bambino, abbiamo promosso il progetto "Genitori quasi perfetti": un percorso finalizzato a promuovere le competenze della coppia genitoriale - che verrà poi ripreso a livello nazionale - e che mette ancora una volta al centro la famiglia. Anche a livello legislativo è stato più volte posto il problema di una legge ad hoc, in merito alla quale è indispensabile, a mio avviso, compiere uno sforzo di innovazione normativa finalizzata all’ottenimento di un vero e proprio testo unico sulla famiglia. Un riferimento unitario per una diversissima gamma di interventi che vedono la famiglia oggetto di numerosi e variegati rapporti con le diverse pubbliche amministrazioni.

Un testo unico capace di offrire una sintesi e di innovare la progettazione dei servizi per, e con la famiglia, nella consapevolezza che essa rappresenta appunto un "luogo nevralgico" della società, in cui a volte si consumano grandi tragedie, ma nella quale si realizzano anche splendide forme di accoglienza e di straordinaria solidarietà. A questa famiglia nella sua interezza è necessario dar voce e spazio in una società che non vuole e non può perdersi.

 

Data la sua esperienza, non crede che in termini di sicurezza sociale, piuttosto che il carcere, dal cui circuito è poi molto difficile liberarsi, sarebbe preferibile e pagante una politica di prevenzione con la creazione di luoghi di aggregazione dove i giovani, e non solo quelli tradizionalmente a rischio, invece di essere lasciati a se stessi, possano trovare chi li ascolta e cerca di proporgli quegli stimoli e quelle motivazioni che, con gli attuali mutamenti sociali, la famiglia non sembra più in grado di trasmettere?

Quando la famiglia non è in grado di garantire il necessario supporto educativo ai figli, un intervento da parte delle istituzioni è non solo indispensabile ma anche auspicabile. Pur riconoscendo un ruolo a tutti gli istituti che operano con compiti diversi, ma con uguale impegno, nel settore minorile, intervenendo nella delicata fase di correzione e di repressione di comportamenti giudicati devianti, sono convinto che lo spazio in cui occorre lavorare di più agendo con maggior vigore sia quello della prevenzione.

Ho già accennato alla funzione importantissima svolta un tempo dagli oratori: luoghi sani, in cui bambini e bambine imparavano il valore del rispetto del prossimo e della solidarietà, in cui potevano trovare sempre dei punti di riferimento. Io provengo dal mondo cattolico, ho fatto esperienza presso la Caritas, le comunità di accoglienza, l’associazionismo giovanile e quello familiare e sono convinto che tutte queste realtà, per la loro capacità di infondere e rafforzare valori e sentimenti positivi, partecipando al percorso educativo dei ragazzi, possono giocare ancora oggi un ruolo fondamentale nella prevenzione di comportamenti a rischio nei giovani. Un altro settore fondamentale che andrebbe potenziato è quello dello sport. Si dovrebbe poter garantire a tutti i giovani in età scolare la pratica di una disciplina sportiva che oltre a consentire uno sviluppo fisico armonico, aiuta a controllare ed a gestire l’aggressività attraverso l’apprendimento e il rispetto delle regole. Accanto a queste forme "tradizionali" di aggregazione se ne potrebbero senz’altro aggiungere di nuove, le più svariate, attraverso il sostegno e lo sviluppo di iniziative volte a promuovere ed a valorizzare la partecipazione dei minori in esperienze aggregative, da inserirsi nelle attività complementari e integrative scolastiche, in un contesto di collaborazione tra ente locale e scuola.

È in tale direzione che sto sviluppando un impegno specifico per la valorizzazione dei Consigli Municipali dei Ragazzi, un’esperienza di aggregazione e di educazione alla coscienza civica e alla partecipazione, comprensione e rispetto della propria comunità.

 

 

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