Prospettiva lavoro

 

Dal carcere “fiumi di dolcezza” inondano la città

A Padova entrando in carcere si è assaliti da profumi straordinari di vaniglia, cioccolata, biscotti: la galera purtroppo non è diventata più dolce, ma da quando al suo interno funziona a pieno ritmo una pasticceria, per qualche detenuto davvero la vita è meno amara

 

di Altin Demiri

 

Una pasticceria che, da dentro un carcere, inonda la città di “dolcezze” di tutti i tipi: succede da circa sette mesi nella Casa di reclusione di Padova, dove io, ad altri quattro detenuti e due maestri pasticceri “civili” che ci insegnano il mestiere, produciamo moltissimi chili di torte, pasticcini e biscotti, che vengono poi messi in vendita in molti esercizi della città, e venduti anche ai detenuti di questo istituto con una quantità crescente di ordinazioni, che significa che la qualità di ciò che produciamo è ottima.

Due parole le voglio dedicare a Gion ed Alessandro, i nostri “maestri”, ed è proprio il minimo che io possa fare nei confronti della disponibilità e della pazienza che ci dimostrano quotidianamente. Nonostante siano molto giovani, hanno meno di trenta anni, non solo ci insegnano l’antica arte della pasticceria, ma rappresentano per noi dei veri modelli di vita in quanto a sacrifici ed onestà. Ci aiutano a credere nelle nostre possibilità, ci incitano a non arrenderci mai, ad essere responsabili perché soltanto così, dicono, possiamo poi riuscire ad affrontare anche la vita libera che ci attende ma che non fa sconti a nessuno. Inoltre non ci hanno mai fatto pesare, neppure per un istante, il fatto che siamo persone detenute: hanno messo da parte qualsiasi pregiudizio, e insieme lavoriamo, seppur ognuno con le rispettive mansioni e responsabilità, assolutamente “alla pari”, il che rappresenta per me, e sono sicuro anche per i miei compagni, una bella lezione di vita.

Pur con le difficoltà comuni in un qualsiasi ambiente lavorativo, siamo un gruppo ben affiatato dove ognuno si impegna al massimo delle proprie possibilità. Non avrei mai pensato di alzarmi la mattina alle 05,30 con tanto entusiasmo, per scendere in un laboratorio attrezzatissimo ed iniziare con la cottura delle brioches per le colazioni, e poi via, mani in pasta fino alla fine del mio turno di lavoro. Fare il pasticcere in carcere significa prendere in mano la situazione e imparare, e per fare ciò ho impiegato settimane, mesi. Cosa vuol dire? Innanzitutto che ho messo a frutto in modo utile il mio tempo, invece di sprecarlo sdraiato in cella a guardare la televisione. In secondo luogo ho imparato che se ci si impegna si può arrivare dovunque: se sono riuscito a diventare pasticcere, posso fare (quasi) qualsiasi mestiere e questo mi ha fatto acquisire molta fiducia in me stesso e nei miei mezzi.

Inoltre, e questa è forse la cosa più importante, tutto ciò mi ha insegnato che si possono raggiungere grandi soddisfazioni anche senza dover scegliere il facile guadagno, insomma non è necessario rubare e commettere dei reati per soddisfare il proprio bisogno di felicità. Nessuna somma di denaro riuscirebbe a darmi la gioia che provo quando il mio lavoro riesce bene, e soprattutto quando è appezzato da chi mi ha dato questa possibilità.

Questo è, credo, il senso della pena, che dovrebbe rieducare e reinserire le persone detenute, compito abbastanza difficile se però mancano gli strumenti fondamentali per raggiungere tale scopo, e in particolare il lavoro che nella maggioranza delle carceri è quasi inesistente. Se ci viene offerta qualche opportunità è possibile un nostro profondo cambiamento, altrimenti la galera rimarrà soltanto un luogo in cui rinchiudere le persone fino alla fine della loro condanna, senza preoccupazione alcuna di quello che sarà il dopo carcere e la nostra reintegrazione sociale. E invece è assolutamente indispensabile dare un senso agli anni in cui i detenuti devono stare “isolati” dal resto del mondo.

Attualmente siamo circa 60 persone a lavorare per le numerose attività del consorzio Rebus (la cucina che produce i pasti per noi detenuti, un call-center per le prenotazioni delle viste ospedaliere, la produzione di manichini e altre lavorazioni ai capannoni). Tutte iniziative importanti in un luogo dove regna il disagio, tra persone che non hanno disponibilità economiche e alle quali, improvvisamente, viene data una occasione reale e concreta di uscire dalla cella, di fare qualcosa di veramente produttivo e di avere un reddito che consente di mantenersi e di non gravare sulle spalle della propria famiglia, che anzi in questo modo si può aiutare economicamente. Inoltre, nel mio caso specifico, sto imparando un mestiere molto richiesto nel mercato del lavoro, e quando potrò uscire avrò sicuramente un’opportunità lavorativa che mi permetterà di far vivere, dignitosamente ed onestamente, sia me che i miei familiari.

Questa esperienza mi ha gratificato enormemente, ma la soddisfazione e la meraviglia più grande doveva ancora arrivare: quando, la settimana successiva alla presentazione dei nostri prodotti, che abbiamo fatto al Caffè Pedrocchi durante un permesso premio, ho telefonato ai miei familiari, che non vedo da oltre 12 anni, ho sentito mia mamma piangere. Temevo che le sue lacrime fossero dovute a qualche disgrazia e mi sono spaventato, ed invece anche lei mi ha raccontato di avermi visto su Canale 5, che infatti arriva fino in Albania. Quindi piangeva dalla felicità di aver ritrovato, dopo tanti anni, il viso di suo figlio, e lo stupore e l’emozione sono stati due sentimenti molto forti che hanno coinvolto entrambi.

 

Il 7 aprile al Caffè Pedrocchi, in una sala gremita di autorità, personalità varie e giornalisti, eravamo presenti anche noi, tre dei cinque detenuti che lavoriamo nella pasticceria interna alla Casa di reclusione di Padova. Per un giorno siamo stati i VIP: abbiamo tagliato la colomba e l’abbiamo offerta ai presenti, che si sono complimentati e, in segno di “ringraziamento”, ci hanno letteralmente tempestato di domande. I giornalisti poi ci hanno intervistato sull’importanza del lavoro in carcere, sulla nostra esperienza e sul progetto, assolutamente innovativo, che vede la pasticceria di un carcere vendere i propri prodotti alla città ed ai cittadini.

Un pasticcere “libero” che si trova di colpo in galera

Una pasticceria che viene trasferita da “fuori” a “dentro” con le persone che ci lavorano, e che finiscono, di punto in bianco, a impastar dolci “con i delinquenti”. Con risultati sorprendenti

 

di Alessandro,

pasticcere “esterno” che lavora in carcere

 

Mi chiamo Alessandro e sono uno dei due pasticceri “civili” che, da alcuni mesi, insegnano il nostro mestiere ad alcuni detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Se ripenso a circa un anno e mezzo fa mi viene ancora da sorridere: un giorno il direttore della nostra pasticceria mi disse che, dal mese di settembre del 2005, avremmo trasferito il nostro laboratorio in carcere, ed era lì che saremmo quindi andati a lavorare. Credevo che scherzasse perché un progetto del genere non mi sembrava realizzabile, e tra l’altro non avevo mai sentito di un’iniziativa simile. E poi, pensai tra me e me, io ho deciso di fare il pasticcere, e quindi perché mai dovrei correre chissà quali rischi e lavorare con persone che di faticare avranno ben poca voglia, dal momento che proprio per questo motivo sono finite in carcere?

Comunque lì per lì non mi preoccupai più di tanto: il progetto era ancora prematuro “e sicuramente non se ne farà nulla”, mi dissi proprio per tranquillizzarmi. Ma si sa, il tempo passa inesorabile, e quando il nostro direttore cominciò a farci vedere le planimetrie dei locali e ad entrare più nel dettaglio, mi resi conto che oramai non era più possibile tornare indietro. Così mi feci quasi prendere dal panico… non per il lavoro ma per le persone e per l’ambiente che avrei trovato, una vera incognita. In agosto me ne andai in ferie e “rimandai il problema”, ma al rientro mi venne riferito che la settimana successiva ci saremmo trasferiti ed avremmo “finalmente” cominciato. Nonostante quel “finalmente”, io di entusiasmo ne avevo ben poco… Il giorno dell’ingresso in carcere fu un trauma vero e proprio: ad ogni cancello che si passava, ad ogni sbarra che si richiudeva alle mie spalle, mi sentivo sempre più in gabbia. Una sensazione bruttissima, nonostante avessi la certezza che tutte le sere sarei uscito e me ne sarei tornato libero, a casa mia…

Una volta effettuati i traslochi ed ottenute le varie autorizzazioni necessarie alla produzione, cominciammo a lavorare. All’inizio eravamo soltanto io ed il mio collega, ma un po’ alla volta arrivarono i nostri 5 “allievi”. Solo che non si trattava semplicemente di allievi come quelli che si trovano a scuola o nei vari corsi di pasticceria: stavolta avevamo a che fare con tutt’altro genere di alunni, ed avevamo quindi il grattacapo di come ce la saremmo cavata. All’inizio non sapevamo proprio come comportarci con loro, e per sbagliare il meno possibile ci consultavamo di nascosto tra di noi, oppure chiedevamo consiglio a Francesco, il cuoco che era qui dentro da più tempo di noi, oppure ci rivolgevamo al nostro direttore Tino.

Ricordo che nella fase iniziale i nostri “allievi” erano tutti molto curiosi, ci si attaccavano dietro e non ci mollavano mai, ci domandavano un sacco di cose, non si stancavano mai di chiedere, segno evidente di una gran voglia di imparare che permane ancora ed anzi aumenta, giorno dopo giorno. A mio parere sono stati molto ma molto bravi, perché dopo circa un mese e mezzo abbiamo cominciato con la produzione dei panettoni artigianali, che comportano molta manodopera: ne abbiamo sfornati circa 9mila e l’impegno dei nostri ragazzi è sempre stato al massimo, oltre le loro competenze. Quasi ogni giorno, anche una volta terminato il normale orario di lavoro, restano volentieri per affinare le tecniche ed imparare ancora meglio e di più tutte le cose nuove. Adesso produciamo una tale varietà di dolci da lasciare senza fiato, e loro sono stati veloci ed abili nell’apprendimento dei dosaggi, nella manualità, nelle cotture, insomma siamo veramente soddisfatti.

Ma lavoro a parte, che in fondo è solo un dettaglio, ciò che mi ha sbalordito è il rapporto umano che sono riuscito ad instaurare con coloro che, anche se qualcuno ha il doppio della mia età, continuo a chiamare “ragazzi”. Nella vita avranno anche sbagliato, ma mi trovo molto bene con loro e qualsiasi cosa io dica, ovviamente sempre nel modo giusto, viene accettata e condivisa. E poi sono rimasto meravigliato per il rispetto con il quale mi trattano, che ovviamente è ricambiato. E si percepisce a pelle, dal modo di fare e dai comportamenti, “che mi vogliono bene” anche se, per quasi tutte le persone che non li conoscono, sono e restano soltanto dei delinquenti. Ho anche pensato che si comportino così affettuosamente e non manchino mai di rispetto perché, avendo sbagliato, vogliono dimostrare che anche loro sono delle brave persone o che, comunque, lo vogliono diventare. Sta a noi dargliene la possibilità.

Oramai l’imbarazzo è definitivamente vinto e siamo diventati una squadra. Insegnare ai “ragazzi” mi sta facendo crescere e riflettere su tutto quello che invece prima mi sembrava banale. Dopo 9 mesi posso dire, senza difficoltà alcuna, che questa esperienza mi ha cambiato molto la vita: ho visto e toccato con mano cosa significa vivere con il rimpianto, convivere con problemi che difficilmente io potrei sopportare, anche se, per fortuna, posso solo immaginare quanto sia duro vivere senza la libertà.

 

 

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