Parliamone

 

La scommessa: fare incontrare non due ruoli,

il reo e la vittima, ma due persone

La mediazione penale raccontata da Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione di Milano

 

Federica Brunelli è avvocato, collaboratrice di Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di mediazione penale, e lavora da oltre dieci anni nell’Ufficio per la Mediazione di Milano. L’abbiamo incontrata in carcere a Padova, nella redazione di Ristretti Orizzonti. E ci siamo buttati a capofitto in una discussione animata su questo straordinario modo di mettere in contatto vittime e autori di reato.

 

Federica Brunelli: La mediazione è un tema che ha radici antiche. Forme di mediazione si trovano in diverse culture: per esempio nelle culture delle c.d. società tradizionali dell’Africa, dell’Asia troviamo la figura del saggio, della persona riconosciuta da tutti, che svolge un ruolo di facilitazione quando sorgono delle difficoltà, dei conflitti. Questo per dire che, quando parliamo di mediazione, non stiamo scoprendo qualcosa di nuovo e di sconosciuto. Ma qual è il compito della mediazione? Mediazione e giustizia riparativa non sono sinonimi, la mediazione è uno strumento della giustizia riparativa (la giustizia riparativa ha molti altri strumenti che non sono soltanto la mediazione), uno strumento particolare perché è l’unico che presuppone l’incontro, il faccia a faccia tra chi ha commesso un reato e la persona che lo ha subito (se ragioniamo in termini di diritto penale) o più semplicemente l’incontro tra due persone che hanno un conflitto (se ragioniamo in termini più generali).

La giustizia riparativa è una modalità per “rispondere alle domande di giustizia”, differente da quelle che incontriamo abitualmente, perché – ed è questo il nucleo fondamentale – si configura come un modello di giustizia “relazionale”: quando viene commesso un reato, quando si tiene un comportamento che fa del male a qualcun altro, che umilia, che degrada, la giustizia riparativa propone di guardare ciò che è accaduto da un punto di vista differente da quello che abitualmente prendiamo in considerazione. Proviamo a esemplificare: se io faccio una rapina, questo fatto immediatamente che cos’è? È la violazione di una legge dello Stato, una violazione dell’articolo 628 del Codice penale. La giustizia riparativa considera che questo fatto, prima di essere la violazione di una norma, rappresenta un fatto che “rompe una relazione”. Si prova a guardare il reato da un punto di vista diverso, come se mettessimo degli occhiali un po’ diversi da quelli che portiamo abitualmente, e guardassimo la realtà da una angolatura differente.

Allora, per la giustizia riparativa, quando viene commesso un reato per prima cosa viene rotta una relazione. Proviamo a pensare a due persone che si conoscono: è possibile che nella mia relazione di amore, di amicizia, con un collega di lavoro, un vicino di casa io possa avere, a un certo punto, delle difficoltà, può accadere anche un reato; ebbene è abbastanza evidente che in questo caso il reato rompa una relazione. Però proviamo a pensare a due persone che non si conoscono: io che arrivo a Padova a incontrarvi e uno in stazione mi ruba la borsa. È una persona che non conosco, non l’ho mai vista prima, probabilmente non la vedrò più, una persona che con me non condivide proprio niente: fra me e questa persona che relazione c’è? Il prof. Ceretti propone di chiamare questa relazione “patto di cittadinanza”. Cosa vuol dire? Vuol dire che noi tutti siamo legati da una serie di norme implicite, di attese di rispetto e di onore, di aspettative che abbiamo gli uni nei confronti degli altri, l’aspettativa per me che vengo a Padova è il fatto che posso scendere dal treno, arrivare fin qui tranquilla, senza che mi succeda niente di male. Ebbene, se arriva una persona che mi ruba la borsa questa aspettativa di fiducia e di rispetto si rompe. In questo senso, anche fra due persone che non si conoscono si rompe qualcosa di molto importante, non una relazione di amicizia o di conoscenza, ma questo patto, il patto per cui io mi aspetto di essere onorato dagli altri, di essere rispettato, di potere andare a Padova senza che mi succeda niente di male.

La giustizia riparativa lavora su questa rottura, sulle conseguenze negative che si producono, cercando di capire se esiste un modo per riparare la relazione che si è spezzata. Quindi non c’è l’idea che è stata violata una norma e io applico una punizione, non mi metto in un’ottica in cui c’è una persona che ha commesso un reato e quindi deve subire una punizione, ma mi metto in un’ottica diversa, considero che si è rotta una relazione e provo a chiedere alle due persone di quella relazione di tentare di costruire insieme qualcosa per il futuro, provare a vedere se questo strappo in qualche modo può essere riparato. La mediazione fa proprio questo, è uno strumento di giustizia riparativa perché si occupa di vedere se è possibile una riparazione attraverso l’incontro delle due parti, e quindi è una giustizia diversa perché nella giustizia tradizionale, che si fonda spesso su una “non attività”, la persona che ha rubato la borsa, una volta che viene arrestata, non è che possa fare molto, così come quando viene processata. Può subire la sua condanna, attendere la pena.

Nella giustizia riparativa l’idea è che dal “subire” si può incominciare invece a “fare” qualcosa, quindi io non aspetto semplicemente la condanna ma posso darmi da fare e posso darmi da fare insieme all’altro.

Cosa si propone alle persone? Di incontrarsi in una stanza, un luogo protetto, dove i mediatori hanno il compito di facilitare questo incontro, restituendo per prima cosa la parola ai protagonisti di quella vicenda. Il mediatore parla poco, parlano molto le parti, hanno loro delle cose da dirsi. Che cosa succede in un incontro di mediazione? Si restituisce la parola, questa cosa è molto importante per chi è stato vittima così come è importante per chi ha commesso il fatto. Spesso l’esperienza processuale delle vittime è un’esperienza molto insoddisfacente, non si riesce a prendere la parola se non per testimoniare e dire come sono andati i fatti, le vittime di solito vengono ascoltate solo sui fatti oggettivi, non su tutto quello che è davvero loro successo.

 

Le vittime hanno spesso un grande desiderio di vendetta

 

Subire la rottura di una relazione può lasciare delle conseguenze molto importanti nelle persone perché cambia proprio la vita, la vita non è più quella di prima. Ci sono fatti più gravi e fatti meno gravi: nell’Ufficio per la Mediazione c’è capitato di avere una signora anziana che era stata scippata della sua borsa, magari lei che usciva tutti i giorni di casa, da allora non è più uscita, non è andata più a fare la spesa in quel posto lì. Ecco, queste possono sembrare delle cose di poco conto ma in realtà sono veramente delle piccole “morti interiori”. Nella mediazione una vittima può dire quello che le è successo, può dire anche tutta la sua rabbia, la paura, l’angoscia e il desiderio di vendetta. Le vittime hanno un grande desiderio di vendetta, non un piccolo desiderio di vendetta, un grandissimo desiderio di vendetta, che viene poi gestito dallo Stato attraverso il sistema di giustizia (dal processo all’applicazione di una pena). In mediazione questo desiderio di vendetta può essere detto, e il fatto di poterlo dire è gia un passo molto importante, perché permette di riconoscerlo e magari di provare a trasformarlo in un’altra cosa: passare da un desiderio di vendetta a un desiderio di riparazione, è un percorso che, se la vittima riesce a compierlo può risultare davvero molto importante, può aiutare molto. Prendere la parola, interrogare l’altro, esprimere fino in fondo i propri vissuti, in questo senso essere attive: per le vittime è faticoso, ma può essere importante.

Noi abbiamo fatto una ricerca sull’attività dell’Ufficio per la Mediazione, dove lavoriamo con autori di reato minorenni, e la ricerca ci ha detto che, tra le vittime che vengono chiamate da noi con la proposta di mediazione, soltanto il sessanta per cento accetta di fare la mediazione. Il quaranta per cento dice di no, non ne vuol sapere, non la vuole fare, e non è una piccola percentuale. Poi su questo sessanta per cento che accetta di fare la mediazione il novantanove virgola otto circa è contento di averla fatta. Quindi se una vittima accetta di fare la mediazione è poi quasi sempre soddisfatta dell’esperienza, ne sente il beneficio. Parlare all’autore di reato può essere importante per una vittima, perché la mediazione lavora sul “riconoscimento”, e spesso il riconoscimento più significativo può essere restituito soltanto dalla persona che l’ha tolto, non c’è niente, non c’è neanche una parola del giudice che possa davvero restituire un riconoscimento pieno così come chi quel rispetto me l’ha tolto, ed è per questo che molte vittime vengono. Magari perché dicono: io vengo, gli dico tutto il male che penso di lui e poi vado a casa. Benissimo, è una buona ragione perché incomincino a venire in mediazione, dopo di che bisogna ovviamente lavorare su questa situazione.

In mediazione anche chi ha commesso il fatto può essere attivo perché anche lui prende la parola in prima persona. È uno spazio di libertà in cui le cose importanti che ciascuno sente possono essere espresse e riconosciute, diventano tema di lavoro comune, anche la rabbia, perché no? La rabbia c’è nell’uno e c’è molto spesso anche nell’altro.

L’autore di reato, chi ha commesso l’ingiustizia è attivo in mediazione soprattutto perché può fare un gesto positivo, e questa è l’idea di fondo: io ho fatto una cosa negativa e posso farne una positiva, posso provare a riparare, e capite bene che la riparazione è qualcosa molto spesso di simbolico che non ha niente a che vedere con il denaro, è magari solo una parola, una richiesta di scuse sincere non strumentali; questi gesti possono avere grandissimo valore e spostare la prospettiva, perché finalmente se ho commesso un reato non aspetto di subire una punizione ma posso essere attivo e fare qualcosa attraverso l’incontro con l’altro, fare qualcosa che vada bene per me e vada bene per te, che ripari me e che ripari te.

 

Piero Paviola (Ristretti Orizzonti): Quando trovate le persone che fanno parte del quaranta per cento che rifiuta la mediazione, cercate in qualche modo di convincerle, magari informandole che le persone che accettano di partecipare alla mediazione sono contente di aver aderito a questa iniziativa?

 

Federica Brunelli: È importante questa domanda, perché permette di sottolineare che la mediazione è sempre volontaria, non può mai essere imposta; quest’argomentazione noi la usiamo, diciamo: guarda, la nostra esperienza ci dice che chi la fa è contento. Però ci vuole anche molto rispetto nel non pensare che la mediazione possa essere la cosa giusta per tutti, perché magari davvero, per certe vittime, non c’è bisogno di mediazione, magari io posso avere veramente solo bisogno della parola del giudice e basta. Quindi ecco, molto rispetto anche nei confronti di questi no; ovviamente noi ci lavoriamo su un no, magari diciamo: venga a fare un colloquio da sola. E dopo il colloquio, se la persona ancora dice di no, va bene, si rispetta, però un po’ ci si lavora, sul consenso.

Di regola, per invitare le persone in mediazione, prima scriviamo una lettera e poi telefoniamo; la prima telefonata è complicatissima, spesso si fa alla sera perché le persone di solito la sera sono a casa e tu entri nella famiglia di una persona, spesso è ora di cena, arrivi e dici: buonasera, sono un mediatore e le propongo di fare questa cosa qui. Mi è capitato tante volte che mi gridassero sulla testa, davvero, c’è chi mi dice: ma lei è impazzita, ma lei non sa che cosa sta dicendo. Però magari poi ci sono delle telefonate dove queste persone non riattaccano, stanno li e ti dicono: “Lei non si rende conto di cosa mi è successo”, e allora lì si può iniziare a lavorare, si può incominciare a dire: c’è uno spazio anche per le vittime, in cui si può essere accolti e avere un ascolto tutto per sè. Ci si può lavorare, su questa cosa, però non è semplice.

 

Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Come scegliete le persone da avviare alla mediazione?

 

Federica Brunelli: A livello di forma è sempre l’autorità giudiziaria che ci deve incaricare, quindi il giudice che guarda quel caso e dice, per esempio: queste due persone ritorneranno a vivere una accanto all’altra, quindi, indipendentemente dal fatto che venga scontata una pena, poi si ritrovano ad essere sempre vicini di casa, allora il giudice decide che lì ha senso lavorare sul conflitto perché loro poi ritorneranno a vedersi e quindi hanno bisogno anche di definire che cosa dovrà succedere fra loro da quel giorno in poi; può essere il giudice che lo ritiene utile oppure una richiesta dell’interessato, formalmente è tuttavia sempre il magistrato che ci incarica. Quando invece lavoriamo sul territorio, perché ci sono anche dei centri che non sono di mediazione penale ma di mediazione sociale, un cittadino che ha un conflitto, non di rilevanza penale, può rivolgersi ai mediatori chiedendo di fare una mediazione. In quel caso, per esempio, sono i diretti interessati che possono venire portando il loro conflitto, quindi anche la richiesta del singolo interessato può essere il motore di inizio.

 

Gianfranco Gimona (Ristretti Orizzonti): Leggo che il mediatore non fa progetti, non dà consigli, non propone soluzioni, non interpreta, non spiega perché si produce una certa situazione, una certa reazione, perché si produce quella particolare emotività… Mi chiedo allora: se tutto questo non è, qual è il suo ruolo?

 

Federica Brunelli: È vero, il mediatore non giudica, non ha il compito di dire chi ha torto e chi ha ragione. In un conflitto penale dove c’è il borseggiatore che ha derubato la poveretta che è arrivata in stazione, chi ha torto o ha ragione in qualche modo viene già definito per legge, le persone arrivano e hanno due nomi: autore di reato e vittima. La scommessa in mediazione è provare a fare incontrare non due ruoli ma due persone, che sono molto di più del loro ruolo. Non c’è giudizio perché il mediatore non deve lavorare sul torto o sulla ragione, su quello lavora il giudice, ciò che può provare a fare il mediatore è usare un linguaggio, una parola che riconosce, la parola “riconoscimento” è la parola importante in mediazione. La parola che riconosce che cosa? Riconosce le conseguenze di quel fatto per l’uno e per l’altro, quindi la mediazione lavora molto su come ciascuno ha vissuto quel fatto e non sul fatto in termini materiali e oggettivi. Un mediatore non fa delle indagini, non va a chiedere: ma lei quando ha preso la borsa dove si era nascosto? Queste sono domande che la vittima può fare perché può essere interessata a sapere alcuni aspetti di quanto le è accaduto (per esempio se è una vittima causale o se invece è stata scelta, questa è una domanda importante per le vittime, e la risposta ce l’ha soltanto l’altro, e la vittima può misurare la verità di quella risposta solo incontrando l’altro), ma al mediatore non interessa investigare i fatti, quanto far emergere i vissuti legati a quei fatti.

La mediazione non lavora sulla materialità ma sul vissuto, su ciò che quel fatto poi ha prodotto, tutta la paura che la vittima ha avuto, come si è sentito l’altro nel rubare la borsa, cioè il poter lavorare su un piano esistenziale dei conflitti, non fattuale. Quindi si usa una parola che riconosce, innanzi tutto, per esempio, le emozioni legate a quel fatto, c’è un grande lavoro che viene fatto sul riconoscimento dei vissuti che riguardano le emozioni e c’è un grande lavoro che riguarda anche il riconoscere i temi fondamentali che quel conflitto ha violato.

Un tema tra vittima e reo potrebbe essere la questione del rispetto e della fiducia, questi sono dei temi su cui si può lavorare in mediazione e si può incominciare a prendere la parola su questi temi che attengono non al ruolo ma alle persone, perché sono convinta che sia la vittima che l’autore del reato possano dire qualcosa sul rispetto, ed è a questo livello di temi del conflitto che forse ci possiamo incontrare in un modo diverso.

Il mediatore poi non è uno psicologo perché non prende in carico le persone e non pretende di spiegargli la causa di un certo meccanismo, non è questo, ci sono dei superprofessionisti che lo fanno. Il mediatore non ha neanche le capacità per farlo, il mediatore lavora molto sulla relazione, quindi non fa un lavoro o sull’uno o sull’altro, ma fa un lavoro sulla relazione, sempre diretto a facilitare l’individuazione di possibili gesti per riparare; egli ha perciò sempre due persone e lavora sull’aspetto relazionale che si è rotto. Si può paragonare ad un costruttore di ponti, c’è un bellissimo racconto di uno scrittore che si chiama Claudio Magris, lui ha scritto questo racconto sul ponte quando c’è stato il bombardamento del ponte di Mostar, che è un fatto che l’aveva molto colpito, il ponte era proprio un simbolo e lui scrive tutto questo racconto sulla costruzione del ponte. Secondo me assomiglia molto a quello del mediatore, questo lavoro, per cui quando poi sei sul ponte non sai più da che parte stai, se sei salito di là o se si salito di qua. Questo ponte ha una potenza perché è fatto di un lavoro collettivo di mani.

 

L’esperienza della commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica

 

C’è un’esperienza che secondo me vale la pena di citare, è quella della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, che ha riguardato il Sudafrica nel ‘94. Voi sapete che il Sudafrica ha vissuto un lungo periodo di apartheid e che nel ‘94, con la salita al potere di Nelson Mandela, questo regime è finito, e il problema più importante è diventato far convivere bianchi e neri, perché poteva scoppiare la guerra civile all’inverso, cioè poteva esserci una vendetta dei neri contro i bianchi, e quindi ci si sarebbe ritrovati al punto di partenza. Cosa hanno fatto? Hanno provato ad usare la giustizia riparativa. Hanno detto: la verità in cambio dell’amnistia, di una rinuncia a punire. Hanno fatto una cosa molto coraggiosa e l’hanno fatta rispetto a degli eventi che non sono stati forse classificati come genocidio, però sono eventi che si possono definire estremi, irreparabili, sono state uccise migliaia di persone. Hanno sostanzialmente istituito delle commissioni che andavano di villaggio in villaggio e ascoltavano le vittime che desideravano raccontare la propria storia di vittima, o i parenti delle vittime; alle vittime veniva data la possibilità di incontrare i responsabili di quei fatti, di confrontarsi con gli autori dei crimini. Gli autori avevano la possibilità di dire la verità, dire effettivamente quello che avevano fatto e questa loro ammissione di verità gli dava diritto ad un’amnistia, sostanzialmente il fatto che non c’era punizione se veniva restituita al Paese la verità a partire da questo confronto con le vittime. Le commissioni hanno permesso di ricostruire una verità storica di quello che era accaduto (tra l’altro tutte le sedute della commissione venivano trasmesse alla radio, per cui non c’era il filtro dei mass media, era proprio ascoltare direttamente la voce dei protagonisti). Questo lavoro ha permesso anche di ricostruire una memoria personale, individuale e collettiva, e ha avuto in molti casi un effetto liberatorio per le vittime; molti hanno potuto sapere dov’era sepolto il corpo del loro caro. Restano comunque dei fatti irreparabili, però questa commissione ha permesso, a mio modo di vedere, di accedere ad un’idea di riconciliazione, alla possibilità di dire che noi possiamo riprendere a vivere gli uni accanto agli altri senza la vendetta.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Dalle nostre discussioni sono emersi fondamentalmente due punti di vista opposti, c’è chi alla mediazione crede poco e chi crede molto, questo soprattutto per due motivi: chi ci crede poco è chi ad esempio ha commesso reati contro il patrimonio, prendiamo la rapina in banca, perché poi il discorso che emerge è questo: “Mi sono fatto vent’anni per delle rapine in banca, non ho fatto materialmente del male a nessuno”, oppure “Perché ho spacciato 20 grammi di droga mi sono fatto un numero sproporzionato di anni di carcere, devo anche andare a chiedere scusa a qualcuno?”. Mentre invece per chi ha fatto reati contro la persona il discorso già cambia, forse c’è una consapevolezza diversa, avendo fatto del male a qualcuno magari questa esigenza si sente perché si sente il bisogno di riparare qualcosa, ecco credo che questo abbia già un senso e credo che abbia anche un senso per chi è stato offeso sentirsi dire qualcosa. La questione è semplice: se qualcuno ti fa un torto preferisci che ti ignori e che si giri dall’altra parte se ti incontra, oppure che almeno ti chieda scusa?

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): A volte la situazione è un po’ più complessa, c’è anche un timore vero: ho gia fatto un danno, non è che vado a rigirare il coltello nella piaga, questa persona magari sta cercando di dimenticare, mi ripresento nella sua vita a riattizzare braci che forse era meglio lasciare perdere. Questo soprattutto per i reati gravi, per i reati minori questo problema si pone molto meno e il tempo che è passato magari ha alleviato le ferite.

 

Federica Brunelli: Ho fatto tante mediazioni, alcune volte anche su casi cosiddetti irreparabili e i dubbi che avete voi continuo ad averli anch’io, e secondo me chiunque si appresta a proporre l’attività di mediazione deve averli. Che cosa faccio quando sono passati dieci anni dal fatto, chiamo la vittima, magari è una persona che si è già sistemata le sue cose, che non ha più voglia? Io credo che la regola sia di non fare mai passi avventati e pensare sempre molto bene prima di muoversi. È  anche vero che ci sono delle situazioni di vittime che, anche dopo tanti anni, hanno il desiderio di fare questa cosa, per cui non credo ci possa essere una regola, ma ci sia proprio il valutare caso per caso, cioè in un caso può essere molto importante, in un altro magari apparentemente simile può avere molto meno senso. Spesso mi chiedono: ma per quali reati si può fare, per quali no? Io rispondo che non c’è una classificazione, può esserci un furto per cui la mediazione ha un gran senso, e un furto in cui non ce l’ha per niente. Una volta eravamo in Tribunale e abbiamo fatto una lezione ai Giudici di pace, i quali sapete possono usare la mediazione, abbiamo proposto di fare una simulata, chiedendo: c’è qualcuno che vuole provare a raccontare un fatto che gli è capitato? E c’è stato un signore, un giudice, che ha alzato la mano da lontano, per dire: “Io, io, ce l’ho il conflitto, io, io”. È  venuto lì, e ha raccontato un furto in casa, che gli era successo venticinque anni prima, e che lui aveva ancora in mente, perché oltre al fatto che gli avevano portato via il braccialetto o la catenina, vi era tutta la questione della violazione della sua vita privata che non aveva dimenticato, era stato un reato che lo aveva toccato molto, nell’intimità. Per lui questo fatto della sua casa, che era luogo di amore, di sicurezza, violata, invasa da una persona estranea, è una cosa che gli è rimasta dentro.

La mediazione però è volontaria, deve essere volontaria per l’uno e per l’altro. È vero che spesso viene usata questa parola “riparazione”, anche per quanto riguarda l’ambito dell’esecuzione penale, nell’affidamento è prevista una forma di riparazione, e spesso nasce una gran confusione. Allora: la riparazione è tale se nasce volontariamente dalle persone, se è frutto il più possibile di un lavoro condiviso, la riparazione non è una pena, il fatto che un condannato “debba” versare del denaro tutti i mesi a titolo di riparazione non ha nessun senso, se è qualcosa che nasce dall’imposizione e non dal consenso, perché diventa una pena vestita da riparazione. È molto pericoloso l’uso che se ne fa perché l’intento è buono, cioè il prendersi cura anche degli aspetti di legame sociale, di ricostruzione delle relazioni, poi però se viene usato per applicare una pena in più non stiamo facendo riparazione. Per cui il lavoro che cerchiamo di fare è innanzitutto di capire come anche nell’ambito dell’esecuzione penale si possa realizzare attività riparativa in un modo corretto, che discenda da un desiderio effettivo delle persone e che non sia confusa con il risarcimento del danno. Tutto questo non è facile, ci si sta davvero lavorando molto sopra ma ci si sta anche molto pensando, perché se delle sperimentazioni devono essere fatte, vengano fatte per bene. Dopo di che, a mio parere se la costruiamo nel modo giusto a me non spaventa il fatto che ci possa essere anche una strumentalità, io la vedo sempre, per esempio, nei minori che vengono a fare le mediazioni. Nel procedimento minorile il fatto che ci sia una mediazione ben riuscita può dare dei benefici e gli autori di reato, i ragazzini spesso accettano di venire non perché hanno la sacra ispirazione che devono incontrare la loro vittima, vengono perché l’avvocato li manda a calci nel sedere, è il giudice che lo chiede per cui capiscono che gli conviene, che qualcosa di buono comunque ne verrà fuori. Ma va bene anche così, nel senso che la strumentalità è un dato che c’è, con cui si deve fare i conti, ed è una strumentalità, però, che davvero si perde tantissimo durante l’incontro di mediazione, e la cosa qualificante che la fa venir meno non è tanto la bravura del mediatore, che ovviamente su questa strumentalità ci deve saper lavorare, ma è la presenza della vittima, perché cambia, perché quando tu sei seduto lì, con l’altro vicino a te che ti chiede conto di quello che hai fatto, le cose cambiano.

La maggior parte delle mediazioni, per quanto riguarda i minori, viene fatta durante la fase preliminare, ci è capitato di fare qualche mediazione anche per qualche minore che si trovava in carcere, ma di solito è proprio il giudice che decide chi inviare alla mediazione. Molto spesso si tratta di condanne a piede libero, quindi magari delle messe alla prova o dei giovani che si trovano in comunità, le mediazioni fatte con giovani che si trovano già in carcere sono molto poche, di solito si cerca di farla subito, cioè il magistrato la propone nelle indagini preliminari, perché se la mediazione va bene potrebbe contribuire a una rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, attraverso una delle misure già previste nel processo minorile, oppure alla concessione di una messa alla prova.

Per quanto riguarda gli adulti, adesso abbiamo le prime sperimentazioni. Con gli adulti per ora stiamo lavorando molto con i giudici di pace e quella è una normativa tutta particolare, tra l’altro, secondo me, è una normativa rivoluzionaria anche se un po’ bistrattata, perché per la prima volta, per tutta una serie di reati, non è prevista la pena detentiva. E non si tratta di reati piccoli, sono reati importanti, perché sono tutti quei reati che di solito riguardano proprio la convivenza, la vicinanza fra le persone, per esempio: le minacce, le ingiurie, le lesioni lievi, alcuni furti, sono tutti di competenza del giudice di pace, e il giudice di pace per questo genere di reati non può usare una pena detentiva, ma deve promuovere delle forme di giustizia riparativa e può anche farsi aiutare dai mediatori, quindi lì lavoriamo molto con persone adulte.

Se penso alle mediazioni che ho fatto trovo che sono molto più semplici paradossalmente le mediazioni su casi gravissimi, che le mediazioni su casi che sono poco gravi ma dove i sentimenti delle persone sono incancreniti. Per esempio, fare la mediazione tra due vicini di casa  è spesso veramente difficilissimo, molto più difficile che lavorare invece su un fatto di rapina grave, oggettivamente grave, dove le emozioni sono forse più esplicite, più chiare.

Questa è una giustizia attenta a ricucire i legami, per cui tutte queste persone o i membri della comunità, sono importanti per la giustizia riparativa, perché se il compito è di ricucire qualcosa che si è rotto, è vero che qualcosa si rompe fra vittima e autore di reato, ma è vero anche che si rompe con il condominio, i nostri vicini di casa, il piccolo paese, il quartiere, dove tutti sanno, tutti parlano. Allora, sono delle dimensioni sulle quali si può lavorare, sempre però partendo dalle persone interessate, per cui può essere per esempio che la riparazione che decidiamo di costruire possa riguardare anche la collettività. Vi faccio un esempio sempre dal minorile: ho fatto una mediazione tra due gruppi di giovani, c’era il gruppo delle vittime e il gruppo degli autori di reato, quelle che sui giornali maldestramente vengono chiamate le “Baby Gang” e lì il fatto era successo in un piccolo centro e si era prodotta questa situazione, per cui il gruppo delle vittime non poteva più attraversare la piazza del paese perché c’erano gli altri che la occupavano e ogni volta che loro passavano di lì succedeva qualcosa di spiacevole, una volta li avevano anche menati, per cui questo gruppetto delle vittime doveva fare tutto il giro per arrivare dall’altra parte della piazza. Abbiamo fatto la mediazione, è andata molto bene e però poi alla fine mi ricordo che uno di loro ha detto: “Sì, noi qui ci siamo chiariti, abbiamo capito un sacco di cose che non avevamo capito prima, ma a quelli lì che stanno fuori chi glielo spiega che noi ci siamo chiariti?”. E allora loro avevano costruito la riparazione in quest’ottica e avevano per esempio deciso che poteva essere significativo se i due leader dei rispettivi gruppi fossero andati a bere una birra insieme nella piazza del paese, come gesto dimostrativo nei confronti di tutti gli altri. Questo è un esempio molto semplice che però ci fa capire come, a volte, la riparazione decisa dagli interessati può tener conto anche di questi contesti più ampi.

Bisogna anche aggiungere che vittime, per la giustizia riparativa, non sono soltanto coloro che hanno subito, ma vittime sono molte più persone, sono sicuramente i parenti di chi ha subito, a volte loro stessi subiscono i riflessi di quello che è accaduto, ma sono anche i parenti di chi ha commesso il fatto, e questa è una prospettiva che la giustizia riparativa prende in considerazione rispetto agli altri modelli, che invece non lo fanno, perché nessuno si occupa di queste vittime che la sociologia chiama “vittime secondarie”. Però se dobbiamo ricucire delle relazioni, tutte queste persone sono importanti, poi bisogna vedere come farle entrare in questo lavoro, magari non faranno loro la mediazione, però sicuramente sono delle persone di cui la giustizia riparativa si prende cura perché sono importanti.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): E quando parliamo di reati gravi e ci sono queste situazioni in cui le vittime in qualche modo si organizzano, si mettono insieme in un comitato, come vi ponete? A me sinceramente fanno un po’ paura perché mi sembra che siano dei gruppi, delle associazioni in cui è difficile rielaborare quello che hanno subito stando tra di loro, ho l’impressione che si moltiplichi invece il desiderio di vendetta. Mi piacerebbe capire se avete avuto rapporti con queste associazioni e cosa ne pensate.

 

Federica Brunelli: Il discorso è complesso ma il fenomeno dell’associazionismo delle vittime, se da un lato ha dato dei risultati importanti e ha rappresentato un punto di riferimento vitale per chi ne fa parte, dall’altro lato può essere strumentalizzato. Prima, quando dicevamo che la mediazione può essere utilizzata in modo sbagliato per dei fini che in realtà non sono riparativi ma retributivi, pensavo al fatto che a volte, anche a livello politico, si parla di vittime non perché c’è un interesse alle vittime, ma perché il prendersi cura delle vittime nasconde politiche di tolleranza zero, di durezza, non per fare un lavoro di ricucitura, ma per inasprire la situazione.

Da un altro punto di vista è vero che un’associazione tutela, protegge, rappresenta una vittima, la rafforza, ma è anche vero che è importante poter pensare di fare un passo avanti, di non rimanere inchiodati al ruolo di vittima per sempre. È un passaggio difficile. 

Io conosco Paolo Bolognesi, il presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna, lo incontrai a Modena e nacque, fra lui e il nostro gruppo di mediatori, un dialogo complesso e un confronto importante. Abbiamo ragionato molto insieme sulla specificità degli accadimenti di cui egli è vittima e abbiamo riflettuto insieme sul tema del “bisogno di verità” come base necessaria a qualsiasi apertura verso forme di giustizia riparativa, e di come senza verità per una vittima sia impossibile fare dei passi avanti. C’è un’immagine che Bolognesi ha usato in un’intervista che abbiamo realizzato per la rivista Dignitas, e che mi ha colpito molto, quella della medaglia. L’autore del reato e la vittima sono come le facce di una medaglia, sono unite in modo indissolubile, per sempre, sono appiccicate; però se guardi una faccia non vedi l’altra e viceversa, non riescono mai a staccarsi, non hanno mai modo di prendere un po’ di distanza per guardarsi. Ecco, per Paolo la mediazione è un’opportunità per prendere questa distanza e per accedere a uno sguardo reciproco, indipendentemente dalla gravità di un reato.

Che senso ha la mediazione per le persone già condannate?

Vittime che si sentono dimenticate, persone detenute che ritengono di essere forse punite ben oltre le loro responsabilità: la Giustizia oggi non soddisfa nessuno. E se si provasse a dare più spazio alla mediazione e a mettere più spesso in contatto le due parti in gioco?

 

discussione in Redazione

 

L’incontro in redazione con Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la mediazione penale di Milano, e poi la voglia di saperne di più sui percorsi di Mediazione e di capire se e quanto la mediazione possa avere un senso anche per le persone detenute, ci hanno spinto a discutere ancora di questa questione cercando di far venire fuori tutti i dubbi, le curiosità, le paure che questo possibile confronto con le vittime suscita.

 

Paolo Moresco: Io trovo che ci sia una differenza nettissima tra la mediazione che sarebbe più appropriato definire “sociale”, rispetto a quella più propriamente “penale”. Nell’ambito della mediazione penale poi è importante chiarire che c’è una altrettanto netta differenza tra la mediazione per i minori e quella del Giudice di pace, da una parte, e dall’altra i casi invece che sono più enigmatici, anche se secondo me più interessanti, che riguardano chi ha già una condanna esecutiva. Su questa questione sarebbe estremamente importante il contributo di qualcuno direttamente coinvolto, che potrebbe essere per esempio anche quel padre di un detenuto che ha raccontato la sua esperienza su Ristretti, visto il raccordo che c’è tra la persona esclusa dalla società perché punita, la società stessa, e chi è escluso indirettamente, quindi i famigliari e i parenti di chi ha commesso un reato. Questo è fondamentale, perché a volte c’è molta più vicinanza di quanto si immagini tra il padre dell’assassino e il padre della vittima.

Un altro aspetto che mi pareva interessante è che questa mediazione penale, per essere più efficace, dovrebbe avere un punto di partenza già in fase processuale o subito dopo. Io quando pensavo a quello che ha detto Federica Brunelli, cioè che per avviare una mediazione prima mandano una lettera alle vittime e poi telefonano, anche dopo molti anni, mi rendevo conto che un approccio del genere deve essere traumatico per queste persone, anche se viene fatto con tutta la gentilezza possibile. Oggi la giustizia dice: Bene! Ho dato trent’anni di pena a quella persona lì che ha ammazzato tuo figlio, per cui sei risarcito, vattene a casa. In pratica credo che il rapporto finisca lì, se ci fosse invece un minimo di continuità, nel senso che lo Stato non desse a queste persone l’impressione di essere abbandonate e si facesse vivo ogni tanto, sarebbe molto più facile, ad un certo punto, innestare poi questo discorso della mediazione.

 

Elton Kalica: Io mi sono fatto un’idea su quello che è la mediazione penale: ci sono i casi in cui la mediazione penale è necessaria, quando il giudice per esempio sa che c’è un conflitto tra le due parti, che può sfociare in gesti inconsulti con un epilogo tragico, e quindi dice al mediatore: guarda che ci sono i due vicini di casa che si scannano ogni giorno, cerca di porre pace. Oppure c’è uno che potrebbe uscire dal carcere in misura alternativa e ricorre alla mediazione per avere quella pace o quel perdono che gli permetta di rientrare più serenamente nella società.

Una delle categorie per le quali la mediazione penale avrebbe un senso ritengo siano quei casi di omicidio, dove le vittime si associano e sembra vogliano dire: no, finché noi siamo vivi il colpevole non esce in permesso o in semilibertà. Ecco, questi sono dei casi dove la mediazione forse trova la sua maggiore e impegnativa opera. Poi ci sono altri casi come il furto, dove la mediazione penale può fare poco: io ho letto gli esempi che faceva proprio Federica Brunelli in un’intervista precedente, in cui diceva che anche la foto che uno ha nel portafoglio ha un valore affettivo, e se uno gli ruba il portafoglio lui si arrabbia, non tanto per i soldi che ci sono dentro ma perché gli è stata toccata una cosa anche più importante. Sono d’accordo che ognuno ha i suoi affetti personali, ha un suo ambiente intimo in cui non vuole che altri si intromettano, e si sente giustamente violato se succede. Però una volta che questa violazione è avvenuta, una volta che il colpevole è in carcere che sta scontando la pena, la mediazione avrebbe lo scopo di far incontrare la vittima con l’autore del reato, e quindi spiegargli che con quel gesto non solo gli ha rubato i soldi ma gli ha toccato gli affetti. Io però in questi casi non vedo tutta questa necessità di una mediazione penale.

Voglio fare due esempi a riguardo, ne faccio uno su di me un po’ particolare, perché le vittime in questo caso sono prima di tutto i miei genitori, e uno in astratto. Quando io ho fatto qui in Italia un reato, quale ha poca importanza, i miei genitori non mi hanno più rivolto la parola per un anno, e dicevano giustamente: ci hai buttato addosso la vergogna. Essendo due persone che hanno una condotta di vita regolare, non avevano mai avuto problemi con la giustizia e avere un figlio in carcere per loro era tragico e traumatico. Ogni volta che mia madre mi rinfacciava che mi aveva dato tutto e che io l’avevo ricambiata in questo modo, non so neanche come spiegarlo, ma mi infliggeva un dolore ulteriore rispetto a quello che già provavo per conto mio.

A me non importava niente di essere in galera, non mi faceva tanto male il fatto di essere in carcere, ma mi facevano più male le parole dei miei. La prima volta che sono venuti a colloquio, dopo un anno, li ho sentiti pieni di rancore, e dopo cinque minuti mi sono alzato perché volevo interrompere il colloquio, gli ho detto che se erano venuti qui dall’Albania per ricordarmi queste cose, che già tormentano la mia mente, e dirmi che io non sono stato riconoscente nei loro confronti per tutto il bene che mi hanno fatto, a questo punto era meglio che tornassero a casa e non venissero più a trovarmi, perché se ogni volta che venivano mi rinfacciavano la mie colpe, mi facevano soffrire la galera in modo più angosciante. Questo mi fa pensare che anche la mediazione penale  con le vittime dei reati sia un po’ così, un percorso che può finire per rendere ancora più pesante la condizione di chi sta in carcere.

Poi voglio fare un esempio in astratto. Mettiamo che sono straniero e mi trovo a camminare per le vie di  Milano, mi manca tutto, vedo una finestra aperta ed entro dentro rubando i gioielli, vado a venderli, tra gli ori c’è un anello che per la persona derubata aveva un grande valore affettivo, per me invece ha solo un valore commerciale. Il ricettatore mi dà i soldi ed io con quelli riesco a sopravvivere. Il giorno dopo mi arrestano, e mi viene detto del male che ho fatto, perché quell’anello per il proprietario aveva un valore affettivo molto importante, essendo un oggetto che nella famiglia si tramandavano da generazioni. Cosa posso dire, certo mi dispiace, ma se mi ritrovo un’altra volta per strada ed ho bisogno di lavarmi e mangiare, rubo ancora gli ori, perché con questi ho la certezza che mangerò, di certo non penserò se l’anello o il bracciale hanno un valore affettivo, come si dice, lo stomaco è in diretto contatto con la testa.

Se poi fossi un tossicodipendente, quei soldi mi farebbero acquistare la droga che mi serve, dell’anello proprio non me ne frega niente, o meglio nemmeno mi sfiora che cosa possa rappresentare per il proprietario, di certo sono soldi che mi servono per la mia sopravvivenza. La mediazione per me in questo caso non ha nessun effetto liberatorio o educativo, alla vittima può far bene perché si sfoga, ma il detenuto che utile dovrebbe trarre, se non passare delle ore peggiori di quelle che passa in cella, e che spesso sono già in condizioni disumane, in luoghi sovraffollati, con pene altissime? È questo che non riesco a capire, forse c’è qualche passaggio che mi sfugge.

 

Paolo Moresco: Io credo che invece in quei casi sia utile. Prendi uno che ha fatto una rapina o uno scippo, penso che l’effetto della mediazione sia più che altro di tipo preventivo, cioè tu hai fatto una cosa pensando di creare un danno che vale trenta, io ti faccio vedere attraverso quella persona che ha subito che il danno in realtà è stato sessanta-settanta, pensaci un pochino quando torni fuori prima di farlo un’altra volta. Il peso specifico di un fatto è diverso per chi lo fa e per chi lo subisce, e questo mettere a confronto le due cose ti aiuta un po’ a capire che fai più male di quanto pensassi.

 

Ornella Favero: In fondo il ladro, il rapinatore ha sempre l’idea di fare un reato contro il patrimonio, cioè non considera quasi mai la violazione, il danno psicologico rispetto alla vittima. Ho sentito, per esempio, detenuti raccontare che quando andavano a rubare non è che avevano questa grande percezione del violare l’intimità di una persona entrando nella sua casa, mettendo le mani su oggetti con cui ha un legame affettivo, penetrando a forza nella sua vita. Confrontandosi con uno che ha subito un furto questa cosa diventa molto più chiara.

 

Marino Occhipinti: Io credo semplicemente che la mediazione non sia rieducativa come la ritiene Paolo, con questa idea che: tu pensi di aver fatto male trenta, io ti faccio vedere che hai fatto male sessanta, allora non lo fai più. A questo io non credo per niente. Io penso che se arrivi a fare la mediazione questa cosa qui dovresti averla già percepita, non è che vai a fare la mediazione per imparare a vedere il male che hai fatto, se tu non l’hai ancora capito non fai neanche la mediazione.

 

Elisa Nicoletti (volontaria): Mi pare di capire che la mediazione dovrebbe avere la funzione di permettere ad entrambe le parti di spiegarsi: non solo a chi ha subito il danno di dirti: “Tu mi hai fatto del male, non sai quanto mi sia pesato”, ma anche il colpevole deve aver la possibilità di spiegare le motivazioni che ci sono dietro il perché ha fatto quel che ha fatto. Io penso che se succedesse a me, mi potrei arrabbiare molto se qualcuno invadesse la mia sfera privata, però mi servirebbe che mi desse delle motivazioni, io sono un certo tipo di persona che ascolta, invece ce ne sono tante altre che hanno solo voglia di sfogare la rabbia, però un confronto con alcuni può portare a qualcosa di buono.

 

Ibrahim Hegab: Scusa, ma la persona derubata secondo me pensa semplicemente: perché devo pagare io i casini della tua vita, i tuoi problemi perché li devo pagare io?

 

Ornella Favero: È ovvio che fare la mediazione non significa creare un idillio, con la persona derubata che “visse felice e contenta” perché ha capito le motivazioni del ladro. Mi ricordo proprio l’atteggiamento di Alberto Verra, di quel signore  “pluriderubato” che ha voluto confrontarsi con noi scrivendoci una lettera  che iniziava con “Egregio signor ladro”, e anche lui, in fondo, si è messo in una logica di mediazione, perché non è che giustificava, ma tentava di capire l’altro che aveva davanti e cosa l’aveva portato a fare quel tipo di scelta. Dopo di che, ripeto, non è che stiamo dando un quadretto dove si risolve tutto con la mediazione, però è un terreno interessante.

 

Sandro Calderoni: La mediazione penale che viene messa in atto appena è stato commesso il reato o a breve distanza per me ha un senso. Ma a distanza di anni che senso ha? Questo non riesco a capire, è per questo che dico che non ci trovo un fine, a prescindere dal fatto che possa o no essere strumentale ad ottenere dei benefici da parte dell’autore del reato. Una persona che ha subito un reato grave che sollievo può trarne quando si è già fatta una ragione di quello che è successo?

 

Marino Occhipinti: È un po’ quello che diceva Paolo. Nel mio caso la prima cosa che leggi quando l’associazione delle vittime interviene da qualche parte è “non hanno mai chiesto perdono”, magari poi se lo fai ti mangiano la faccia, però la prima cosa che dicono è sempre questa qui. Allora ci sarà un significato. Il tema è difficile, una delle domande che mi ero segnato di fare a Federica Brunelli era proprio quella lì: come arrivare dopo quindici-venti anni a chi ha avuto ucciso un famigliare e non rischiare di riaprire certe ferite. Ma tu pensi che dopo un anno sarebbe stato più semplice?

 

Paolo Moresco: È diverso il discorso che facevo io, non dico che il rapporto tra la vittima e quello che ha commesso il reato si debba cercare di ripristinarlo subito, per carità! Dico che il rapporto tra chi media, che in questo caso è la giustizia o un operatore di giustizia, deve esserci sempre, non può arrivare ad un tratto. Lo Stato, chiamiamolo così, dovrebbe ogni tanto chiedergli come sta, interessarsi della sua situazione. Se gli viene a dire dopo dieci anni: “Ha voglia che facciamo questo discorso?”, e per dieci anni però gli ha chiesto come sta e se ha bisogno di qualcosa, forse è più credibile. Questo è il senso che dico io.

 

Sandro Calderoni: Io sono convinto invece che se una persona vittima di un reato viene contattata a distanza di un anno o anche prima, magari ti insulta o ti tirerà dietro tutto quello che vuoi, però comunque ha una soddisfazione, un riconoscimento importante.

 

Marino Occhipinti: La mediazione deve essere una cosa volontaria e non imposta da qualcuno, uno può avere un percorso di un anno, un altro di dieci anni, un altro di vent’anni; cioè non è che si può codificare e dire che per gli omicidi si deve provare la mediazione dopo tre anni, per il furto dopo sei mesi, per la rapina dopo un anno e mezzo. C’è un percorso, la mediazione è una cosa volontaria, chi se la sente di farla magari ci prova, chi non se la sente non ci prova, e lo stesso vale per le vittime.

 

Ornella Favero: In realtà, un lutto non si chiude mai, soprattutto un lutto di questo tipo. Perché se è una morte naturale lo affronti, te ne fai una ragione, invece un lutto per un omicidio è una ferita che comunque non si rimargina. Ma qui parliamo di mediazione perché è un percorso faticosissimo, perché è difficile stabilire dei tempi in cui questa cosa ha un senso e quando invece non lo ha più, e anche perché ognuno di noi reagisce in modo diverso, quindi può darsi che una persona che ha subito un danno forte abbia proprio bisogno dopo anni di “riconciliarsi” con questo evento della sua vita, e a volte magari il farsi vivo della persona che ha commesso il reato può essere traumatizzante, ma può essere anche importante e liberatorio.

 

Paolo Moresco: Sono convinto anch’io che una ferita di quel genere lì non si chiude mai, però l’odio è un elemento di stabilizzazione. Tu hai un rancore invincibile nei confronti degli autori di questo gesto, è una certezza quel rancore, tutto ad un tratto mi togli questa certezza e mi presenti questa persona che è l’origine del mio male, a quel punto mi salta tutto. Ha perfettamente ragione Marino, a livello di reati di quel tipo la mediazione è una cosa che va gestita con tempi che sono diversi per ogni storia, al massimo puoi prepararla facendo in modo che al processo segua un’attenzione, da parte della giustizia, nei confronti dei parenti delle vittime.

 

Elton Kalica: Io vedo la mediazione come un servizio, chiamiamolo così, che lo Stato fa alla vittima, lo Stato dice alla vittima: “So che stai male, so che la pena che abbiamo dato a chi ti ha fatto del male non ti soddisfa perché dentro di te continui a soffrire, io mi offro di metterti in contatto con quello che ha commesso il reato, così gli puoi dire quello che pensi, perché so che dopo avere fatto questo forse ti sentirai meglio”. Mi pare che questo sia il principio. Ci sono dei casi in cui la mediazione è necessaria e altri in cui se nasce va bene, altrimenti va bene lo stesso.

 

Paolo Moresco: Una cosa interessante mi sembra la mediazione sul territorio: per chi ha un grosso reato e magari dopo una condanna di molti anni torna a casa, lì mi sembra fondamentale la mediazione, e faccio un esempio che conosco, quello di un gioielliere che fu ammazzato durante una rapina, anni fa, in una zona abbastanza centrale di Milano. Due o tre anni dopo uno della banda fu liberato, perché era in fase terminale di Aids, però la vedova non lo sapeva e se l’è visto fuori. Gli avevano dato la sospensione pena perché ormai gli restava molto poco da vivere, ed è successo che è passato vicino al negozio per recarsi dalla sorella. Ma, dico io, vorrai preparare questa povera donna a questa cosa? Lei è anche una donna intelligente e quando ha saputo com’era la vicenda si è messa il cuore in pace, ma il primo effetto è stato traumatizzante.

 

Ornella Favero: Questo mette in luce che la mediazione penale prevede una diversa attenzione per le vittime, che poi lo faccia il mediatore o lo faccia qualcun altro, però il concetto è che nel difficile rapporto tra vittima e chi ha commesso il reato c’è anche questo problema: che a volte la persona che ti ha fatto del male può uscire dal carcere e tu che hai subito la violenza te la puoi ritrovare di fronte senza nessun tipo di preavviso. Lì il concetto di mediazione comunque dà alla vittima un ruolo e un’attenzione diversa.

 

Graziano Scialpi: È impensabile però che si avvisi la vittima di reati del genere che l’altro sta uscendo dal carcere, perché se dopo una di queste vittime o un parente l’aspetta fuori con la pistola, come ti giustifichi?

 

Altin Demiri: Quando ero ancora piccolo, mi ricordo che nel mio paese è uscito dal carcere uno che era stato dentro per omicidio, all’epoca aveva ammazzato un vicino. Dopo tanti anni di carcere, prima di farlo uscire, hanno chiamato i famigliari della vittima nella sede del comune per avvisarli che questa persona stava per uscire, anche per evitare brutte reazioni e per fargli capire che questa persona ormai aveva pagato e dovevano lasciarla stare.

 

Elton Kalica: In Albania c’è sempre stato questo problema, se uno prendeva una coltellata aspettava che il colpevole uscisse dal carcere anche dopo anni e gli restituiva la coltellata. Allora c’erano i poliziotti del quartiere che ti convocavano in questura e ti dicevano: “Guarda che questo domani esce, non fare niente perché ti teniamo sotto controllo e se fai qualcosa ti mandiamo subito in galera”. Io credo che la mediazione penale può essere forse facilitata nei casi più pesanti di omicidio, dove all’inizio c’è stata una confessione del reato commesso, se uno ammette le proprie colpe subito. Se se ne parla dopo anni, c’è il rischio che si pensi che il detenuto vuole i benefici, e quindi accetta o cerca la mediazione in modo strumentale.

 

Marino Occhipinti: Secondo me quando si tratta di essere già in esecuzione pena c’è sempre l’ombra della strumentalizzazione: tu scendi alle attività perché vuoi i benefici, fai il bravo per ottenere i benefici, lavori per lo stesso motivo, ogni passo che facciamo qui può essere considerato strumentale. Allora io penso che se una persona vuol fare una cosa la fa, e poi gli altri che pensino pure quello che vogliono, bisogna anche imparare, non dico a fregarsene perché è impossibile, però a correre dei rischi.

 

Ornella Favero: Però in tutte queste considerazioni che mi sembrano interessanti, secondo me poi è importante anche tenere conto di una cosa, che con qualsiasi motivazione uno arrivi alla mediazione, anche con qualsiasi interesse, perché siccome siamo persone è inutile che facciamo finta di non essere mossi anche da un qualche interesse, io credo che sia meglio dirlo. Dopo di che penso che però il percorso di mediazione rimette in gioco tutto. Se anche tu parti con l’intenzione di fare questa cosa per trarne dei benefici, poi la devi fare, devi trovarti davanti alla vittima, quindi secondo me la mediazione è un po’ anche questo: bisogna avere fiducia nel fatto che ti rimette in gioco comunque, anche se tu ci arrivi con motivazioni, diciamo, basse e utilitaristiche, però il percorso credo che ti possa lo stesso rovesciare come un calzino.

 

Arqile Lalaj: Io vorrei fare una domanda: per quanto riguarda reati come il mio, il traffico di droga, dove non c’è una vittima ben definita, come si configura, in che modo si può fare una mediazione?

 

Ornella Favero: Federica Brunelli parlava del fatto che comunque, nel commettere un reato, c’è stata la violazione di un patto di cittadinanza. Arqile dice: io spacciavo o facevo traffici di droga, quindi non c’è una vittima chiara, precisa. È vero, però secondo me c’è un problema sociale, comunque c’è una scelta etica da rimettere in discussione, un cinismo rispetto al patto sociale che va considerato.

 

Marino Occhipinti: Secondo me la mediazione deve avvenire fra soggetti, se lì manca uno dei soggetti cosa medi? È vero che tu hai infranto un patto sociale, non è che non hai fatto niente di grave, hai fatto un reato, però manca un soggetto della mediazione ed i soggetti devono essere almeno due.

 

Ornella Favero: Sono d’accordo, ma sono convinta che c’è un momento in cui comunque la mediazione penale e la mediazione sociale sono contigue, perché qui non è esattamente solo mediazione sociale. Secondo me le due cose si incrociano, io non farei una divisione netta, perché sarebbe come dire: allora lui no perché non si individuano chiaramente le vittime, lui invece sì perché ha una vittima precisa.

 

Marino Occhipinti: Magari può avere pure più importanza la mediazione sociale, perché quella individuale ricuce uno strappo solo, quella sociale diciamo che ricuce una serie di strappi.

 

Paolo Moresco: Secondo me si riesce forse a capire il discorso della mediazione in generale, se si parte da questo presupposto: che il soggetto che attiva un percorso del genere non è né la vittima né chi ha commesso il reato, è una cosa che si chiama società e ad un certo punto dice: vorrei che certi momenti di pressione e di incomprensione si sciogliessero, per cui è nel mio interesse, come società, mettere in discussione queste situazioni di contrasto per appianarle.

Nell’Albania dei miei antenati si mediava per opporsi all’occupante

La mediazione rispondeva a una necessità di disciplinare la convivenza

senza richiedere l’aiuto delle autorità

 

di Elton Kalica

 

La mediazione penale in un certo senso mi incuriosisce. Naturalmente apprezzo la molteplicità di valori che la mediazione trasmette, perché da un lato sembra essere un istituto che tenta di migliorare il livello della vita della vittime del reato, e dall’altro canto è anche una forma utile di intervento dello Stato che dice ai cittadini di non essere soltanto quello che punisce i colpevoli in nome del popolo, ma di essere anche quello che pensa a conciliare reo e vittima perché in fondo, una volta eseguita la punizione, non bisogna dimenticarsi che tutti tornano ad essere liberi, eguali e fratelli. Tuttavia ciò che in realtà mi incuriosisce è il fatto che mentre in Italia lo Stato sta cercando di utilizzare la mediazione per riempire quella frattura che viene creata dalla commissione del reato prima e dalla punizione del reo poi, in Albania lo Stato ha sempre cercato di sostituirsi alla mediazione con la propria giustizia, in quanto la mediazione era una forma di antagonismo alle istituzioni.

Ma per spiegare meglio questo divertente contrasto devo partire da lontano. Purtroppo, l’Albania ha sempre avuto tutte le caratteristiche per soffrire: ha un piccolo territorio con un numero modesto di abitanti, e per questo è sempre stata un boccone desiderato, e spesso azzannato dai nostri ingordi vicini di casa. Bisogna ritornare agli Illiri per trovare una forma di governo autoctona, perché poi a dettare legge in quel pezzo di terra dei Balcani saranno i romani, i veneziani, i greci, i turchi, i serbi, gli austriaci, gli italiani, i tedeschi, ma non gli albanesi, fino alla Repubblica Popolare del Lavoro che si istaurò con la conclusione della Seconda Guerra mondiale.

Accanto alle disgrazie l’Albania ha sempre avuto però anche una grande fortuna, quella di avere un territorio composto per due terzi da alte montagne. Sono state quelle montagne il riparo e la salvezza degli albanesi quando dovevano sfuggire alle invasioni ottomane, alle rappresaglie serbe o al genocidio greco. Chi non voleva sottomettersi agli stranieri scappava verso l’alto seguendo le aquile tra i percorsi calcati dagli stambecchi, mentre chi sceglieva di rimanere nelle città, vicino al mare, si adattava all’occupante di turno, che imponeva la sua religione, insegnava la sua lingua e faceva rispettare le sue leggi.

Per questa ragione, l’occupante poteva governare nelle città dove aveva il totale controllo degli abitanti, mentre gli era impossibile cercare di amministrare la giustizia sulle montagne, dove era difficilissimo addirittura riuscire a costruire un posto di polizia, immaginarsi un tribunale. Non è un caso che quasi tutte le insurrezioni o le battaglie hanno avuto per protagonisti spedizioni punitive che si avventuravano tra i monti per fare riconoscere l’autorità a quelli che vivevano per conto loro e che erano automaticamente considerati banditi.

Ma in realtà questi scontri erano molto rari. Le spedizioni militari erano costose e i tributi che queste popolazioni avrebbero portato alle casse di Istambul, di Atene e di Roma erano così scarsi che il gioco non valeva la candela. Quindi le popolazioni “ribelli” rimanevano per lungo tempo libere dai doveri e dai diritti che l’autorità sanciva con le sue leggi. La vita sociale che conduceva la popolazione delle montagne portava però anche conflitti tra gli individui, e questi contrasti dovevano in qualche modo essere risolti per non dare inizio alla sopraffazione e a una autogiustizia sproporzionata e interminabile. Quindi questa gente si era accorta da subito che vi era una necessità di disciplinare la convivenza, senza richiedere l’aiuto delle autorità.

Così nacque il Kanun, il codice non scritto, che Kadare chiama lo ius albanicae. L’osservazione dei suoi precetti era affidata, oltre alla coscienza degli individui, ai consigli degli anziani, ritenuti i più saggi, che si costituirono in ogni villaggio. Queste persone dovevano attivarsi ogni volta che nasceva un conflitto e cercare di risolverlo, ma vi era un problema molto grande. Essi non avevano la possibilità di infliggere punizioni per il semplice motivo che non avevano a disposizione l’utilizzo della forza, quindi la maggior parte del loro operato si concentrava soltanto sulla mediazione. Si cercava quindi di conciliare le parti proponendo loro un rimedio equo e soddisfacente, avvalendosi della loro influenza personale e applicando i precetti del Kanun che veniva trasmesso tra le generazioni.

Nella vita non si finisce mai di subire e di causare torti, piccoli e grandi, rimediabili e non. È facile imporre a qualcuno di restituire la gallina appena rubata la notte prima o pagare un dazio per l’onore leso, mentre esistono offese che sono fuochi difficili da spegnere. Ad esempio l’omicidio era un reato che il Kanun aveva sì cercato di disciplinare, ma lasciando pur sempre la punizione del reo in mano della famiglia della vittima. Sostanzialmente ogni villaggio doveva costruire un rifugio di pietra senza finestre dove chi commetteva un omicidio poteva trovare riparo fino a quaranta giorni dopo il fatto, il tempo necessario che doveva bastare al consiglio degli anziani per mediare e far conciliare le famiglie. Nel frattempo nessuna vendetta poteva essere compiuta nei confronti del reo, a condizione che non uscisse dal rifugio, e i suoi famigliari potevano portargli da mangiare e da cambiarsi ogni giorno. Così come ogni giorno gli anziani mediatori potevano recarsi a casa della vittima, analizzare l’accaduto, capire i motivi e concordare insieme il peso della punizione. Se in quei quaranta giorni non si riusciva a calmare il desiderio di vendetta, allora i mediatori stabilivano le persone che potevano essere colpite dalla rappresaglia. Il reo abbandonava il rifugio e sceglieva se tornare a casa e attendere il suo fato, oppure scappare. Se non altro, il lavoro della mediazione evitava che si attuasse una vendetta sproporzionata subito dopo il reato, e si adoperava a fare luce sui motivi del conflitto e sulle persone coinvolte.

Per quella parte della popolazione albanese che viveva tra le montagne questo sistema era non soltanto una necessità, ma anche una forma di ribellione verso un’autorità straniera che pretendeva di amministrare la giustizia. Questa è venuta a cadere quando, dopo la seconda guerra mondiale, si costruì in Albania la prima repubblica con istituzioni interamente indipendenti da forze straniere. Ovviamente il nuovo governo popolare edificò in breve tempo strade e centri urbani con i rispettivi posti di polizia e Tribunali anche tra le montagne, sostituendo così l’antico Kanun con il codice civile e il codice penale e stabilendo le relative procedure. Nel giro di un decennio la mediazione che veniva svolta dal consiglio degli anziani sparì, in quanto lo Stato dimostrò grande efficienza almeno in quello che riguardava la punizione dei colpevoli di reati. Non c’è più stata mediazione penale fino al giorno d’oggi, fino al nuovo millennio.

Nessuno avrebbe mai pensato che, a distanza di cinquant’anni, la rivoluzione socialista avrebbe fallito i suoi obiettivi e il regime proletario sarebbe sprofondato insieme al suo apparato statale. Immediatamente nel nord dell’Albania, dove un apparato statale sfasciato difficilmente può garantire giustizia e protezione, la gente ha iniziato a risolvere le controversie con la violenza, portando a interminabili faide e a vendette trasversali.

Questa situazione ha fatto rinascere i consigli degli anziani, che si sono attivati per cercare, attraverso la mediazione, di fermare le guerre spietate che si espandevano tra i membri di sempre più famiglie. Il nuovo governo, riconoscendo la propria impotenza, ha subito riconosciuto anche l’utilità di questa struttura, creata dalla società civile per riempire il vuoto lasciato dallo Stato.

 

 

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