Editoriale

 

Esiste un modo per riparare quello strappo profondo

prodotto da chi ha commesso un reato

 

 

Una ragazza che è venuta nella nostra redazione con la sua classe,  nell’ambito del progetto che ha messo a confronto le scuole e il carcere, descrivendo l’incontro con i detenuti osserva: “Torno ai loro discorsi, la situazione si è fatta più intima: parlano dei loro reati, c’è chi ha ucciso qualcuno e il mio pensiero non può non andare ai parenti delle vittime, non credo proprio che loro li ammirino; mi direbbero senz’altro che quel limbo che è la vita in carcere se lo sono cercato e voluto. Non li biasimo, anzi se ci fossi anch’io fra loro sarei la prima a provare rancore, forse anche a voler vendetta”. Gli studenti che sono entrati in carcere grazie a questo straordinario progetto di sensibilizzazione dei giovani, partito proprio da Ristretti Orizzonti, hanno abbandonato tanti luoghi comuni sui detenuti e sulla galera, e ce lo hanno raccontato con grande sincerità, ma con la stessa sincerità ci ricordano che è vero, ora si rendono conto che in carcere non ci stanno “reati” ma persone con le loro storie, e però guardare con occhi meno prevenuti gli autori di reati non significa dimenticare le vittime.

Ma allora fare giustizia cos’è? Rimborsare le vittime del danno subito. E che c’entra il carcere allora? Oppure si tratta di far soffrire chi ha sbagliato in modo che non sbagli più? Ma sembra proprio che queste punizioni non servano a niente, perché molti quando escono fanno le stesse cose. Forse si vuole semplicemente tenere gli autori di reato in stato di impossibilità di essere pericolosi per la società dei liberi? Eppure prima o poi queste persone escono, e sicuramente il primo dovere nei confronti delle vittime dei reati è quello di riconsegnare alla società, al momento dell’uscita, delle persone diverse, in positivo ovviamente.

Ma tutto questo non basterà mai, almeno fino a quando non si tenterà di istituire delle modalità di gestione del conflitto, tra reo e vittima di reato, che offrano anche delle vie d’uscita alle persone, che si sono trovate “ai lati opposti della legge”: un luogo del dialogo dove, senza obblighi, ci sia anche spazio per il riconoscersi, per i sentimenti reciprochi, anche per il perdono vero, quello fuori dalla retorica. È lo spazio della “mediazione penale”, che già esiste, quantomeno per i minori, e siamo convinti che occorre iniziare a parlarne per tutti. Ed andare finalmente un po’ oltre la retorica quotidiana, di cui i programmi televisivi di intrattenimento sono diventati degli esperti, con l’esibizione dello spettacolo della sofferenza, l’incitamento alla vendetta, e mai, veramente mai la ricerca di vie d’uscita che consentano, a vittime e colpevoli, di continuare a vivere. Ma continuare a vivere si può solo superando quei conflitti che, se non affrontati e gestiti, spesso impediscono di ridare comunque un senso a esistenze messe troppo duramente alla prova.

 

 

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