Controinformazione

 

La vendetta? “Commissioniamola ai detenuti”

Ma come si fa a contrastare la subcultura del taglione, che da sempre vige nel mondo della malavita, quando a invocare vendette di sangue è la stessa società “civile”?

 

di Graziano Scialpi

 

Politici, intellettuali, figure istituzionali e gente comune, più o meno velatamente, invocano la morte per gli assassini del piccolo Tommaso. Giuliano Ferrara, in una sua trasmissione, ha affermato che se Berlusconi si fosse dichiarato favorevole alla pena capitale avrebbe vinto sicuramente le elezioni. Nel carcere di Parma i detenuti protestano, battono sulle sbarre perché non vogliono tra loro gli autori dell’efferato crimine. Anche nella Casa di reclusione di Padova, come in tutti gli istituti di pena italiani, prevalgono affermazioni del tipo: “Se mi capitano per le mani gli stacco la testa”. E qualche giornalista è persino giunto ad auspicare che siano i reclusi a fare vera giustizia di quegli assassini.

Non voglio parlare del rapimento e dell’uccisione del piccolo Tommaso. Se ne è parlato già troppo e troppo male. Ho anche io un figlio che ha avuto quell’età, ed ho una nipotina che è sua coetanea. Spero basti questo a chiarire cosa posso pensare di quello che è accaduto. Quello di cui vorrei parlare è la reazione della società civile, della gente onesta e perbene. Possibile che nessuno trovi perlomeno bizzarro che la gente perbene la pensi allo stesso modo dei detenuti? Possibile che nessuno si preoccupi che la società civile abbia le stesse reazioni dei “criminali rinchiusi in carcere”? Nessuno si sente a disagio? Io provo un forte disagio.

Da anni, in redazione, ci battiamo perché tra noi detenuti si superino questo tipo di reazioni emotive. Lottiamo perché tutti usino la ragione e, per quanto difficile, applichino anche agli altri la comprensione che invocano per se stessi. Ma come si fa a contrastare la subcultura del taglione che da sempre vige nel mondo della malavita, quando a invocare vendette di sangue è la stessa società “civile”? Io mi trovo, giustamente, in carcere perché in un momento della mia vita le mie pulsioni emotive hanno preso il sopravvento sulla razionalità. Cosa dovrei pensare quando ad aver perso il lume della ragione sembrerebbe essere l’intera società? Il dolore, il senso di ingiustizia, l’orrore di fronte a casi come quello di Tommaso sono umani. Così come è umano provare un impulso alla vendetta violenta. Bisognerebbe essere dei santi per non provarlo. Ma dare voce a questo impulso, cercare consensi per questo impulso, rinfocolare l’un l’altro questo impulso e trovare una pseudo giustificazione nel fatto che questo impulso è condiviso da molti è un altro paio di maniche. Che fine ha fatto la ragione? Dove è finita quella razionalità che sempre dovrebbe essere lì a dirci: “Guarda che quell’impulso è sbagliato. Viene dal lato oscuro e irrazionale che c’è in ciascuno di noi. Non seguirlo, non dargli nemmeno voce. Ignoralo. Quando l’esplosione emozionale si sarà un po’ attenuata ti accorgerai che era profondamente sbagliato”.

Abbiamo impiegato secoli di eccidi e vendette per scoprire questa razionalità e altri secoli sanguinosi per coltivarla e farla crescere fino a poter vivere in uno stato di diritto, dove è la legge a governare e non la faida di sangue. È una razionalità ancora così fragile, così poco radicata che basta il gesto, per quanto orrendo, di due balordi per sconfiggerla? Quando, nel 1946, l’assemblea costituente ha scritto la nostra Costituzione, l’Italia era appena uscita da due anni di lotta fratricida che hanno visto consumare stragi orrende, eccidi di interi villaggi, dalla nonna più anziana all’ultimo neonato. Tutti i rappresentanti avevano partecipato a questa lotta, molti erano stati imprigionati e si erano salvati per caso. Tutti o quasi avevano parenti e amici che erano stati torturati e uccisi barbaramente. Eppure hanno scelto di porre fine alla spirale del sangue che chiama sangue e hanno abolito la pena di morte. Solo tenendo ben presente da dove usciva l’Italia e i lutti che si portava dietro si può apprezzare il coraggio di una simile scelta di civiltà.

Per quanto mi riguarda mi auguro che gli assassini di Tommaso vengano processati velocemente ed equamente e che subiscano una dura condanna. Non una condanna esemplare, perché le condanne altrui non sono mai di esempio per gli altri. Ma una lunga pena che dia loro il tempo di rendersi conto di quello che hanno fatto. Ci vorrà del tempo, forse tanto, forse poco, ma se sono sani di mente prima o poi se ne renderanno conto e allora si ritroveranno a tu per tu con la propria coscienza. Quel giorno, per loro, il ritrovarsi chiusi in carcere sarà il male minore.

Tommaso, vittima di un gruppo di balordi disperati

e del diritto di cronaca

Quell’invito ai detenuti a linciare gli assassini di Tommaso. Noi che siamo “dentro” ci aspetteremmo, da chi è fuori, sollecitazioni a essere migliori di quelli che siamo o siamo stati, non istigazioni a essere peggiori

di Marino Occhipinti

 

Della tragica vicenda del piccolo Tommaso conosciamo ormai ogni minimo particolare, compreso purtroppo il terribile epilogo. Evito perciò di soffermarmi sulla cruda dinamica dei fatti, perché non potrei né saprei aggiungere nulla di nuovo dopo tutto quello che hanno detto e scritto in merito televisioni e giornali, passando spietatamente al setaccio la stessa vita privata della famiglia Onofri pur di offrire in pasto al pubblico qualche scampolo di scoop. Ed è anzitutto su questo modo di fare informazione a tutto campo, senza rispetto nemmeno per le vittime, che voglio provare a fare qualche considerazione.

Per un mese abbiamo assistito a una diretta senza sosta, dove in un crescendo spasmodico di informazione a tutti i costi sono stati interpellati non solo amici e parenti degli Onofri, psicologi e psichiatri, criminologi e investigatori, “opinionisti” più o meno autorevoli e competenti, ma anche stuoli di generici vicini di casa, di passanti, di persone prese a caso per strada e sbattute in video come testimoni dell’angoscia e dello sdegno collettivi: tutti a dire la loro anche quando non avevano in effetti nulla di importante e significativo da dire. Ma il culmine dell’invadenza mediatica lo si è raggiunto proprio quando – rinvenuto il corpicino senza vita di Tommaso – avrebbe dovuto finalmente prevalere la pietà, il rispetto per la tragedia e per il dolore privato delle persone in essa direttamente coinvolte.

Il giorno stesso in cui è stata effettuata l’autopsia (della quale ci sono stati comunicati gli esiti in tempo reale, naturalmente), alcuni giornalisti hanno avuto perfino la sfrontatezza di piazzare un microfono in bocca alla madre di Tommaso, distrutta e ammutolita dal dolore, per chiederle se avrebbe mai potuto perdonare i carnefici di suo figlio (e chi mai potrebbe perdonare, all’indomani di un simile misfatto? E in ogni caso il perdono, ammesso che possa mai esserci, non è una disposizione d’animo “a comando”, e neppure una folgorazione, ma semmai l’esito finale di un processo interiore lungo e sofferto). La stessa domanda, il giorno dopo, qualche altro “intraprendente” giornalista ha avuto la faccia tosta di riproporla a lei e a suo marito mentre, con un mazzo di fiori in mano, si soffermavano in preghiera davanti alla buca sull’argine del fiume Enza dove il loro bambino era stato sepolto dai suoi assassini la sera stessa del sequestro.

Immagino che noi detenuti non veniamo dipinti, nel mondo esterno, come campioni di sensibilità e delicatezza. Eppure siamo stati in molti, dietro alle sbarre, a trovare intollerabili quelle reiterate intrusioni nella vita di persone già schiacciate dal peso di una tragedia sconvolgente; e a chiederci se sia lecito, in nome della libertà di stampa e del diritto di cronaca, consentire simili forme di violazione della privacy e di profanazione del dolore. Se a porre un argine a certi plateali eccessi non provvedono – come sarebbe giusto e doveroso – la coscienza personale e la deontologia professionale degli operatori dell’informazione, non dovrebbe quantomeno intervenire d’ufficio, comminando adeguate sanzioni, un’autorità superiore di indirizzo morale e comportamentale come il Garante della privacy?

E poi: qualcuno si prenderà mai la briga di identificare e di punire i responsabili di quella clamorosa fuga di notizie che, già nei primi giorni del sequestro, ha proiettato sul padre di Tommaso l’ombra ripugnante della pedopornografia, per via del ritrovamento di quei file compromettenti in quella  certa cantina? Certo, anche in questo caso i media hanno le loro colpe, perché non si sono lasciati sfuggire l’occasione per pescare e rimestare oltre misura nel torbido; ma la responsabilità principale va cercata a monte, in chi - fra gli inquirenti - ha permesso che divenissero di pubblico dominio fatti e circostanze tremendamente ambigui e morbosamente strumentalizzabili, che dovevano perciò essere indagati e chiariti in una situazione di assoluto, ermetico riserbo.

Qualche considerazione, infine, vorrei riservarla al neppure tanto velato invito al linciaggio degli assassini di Tommaso che è giunto in questi giorni alle carceri da parte di alcuni esponenti politici e di giornalisti anche influenti. Ho trovato una certa velenosa voluttà nel descrivere e nell’enfatizzare l’ostilità dei “detenuti normali” nei confronti dei “detenuti-mostri” Alessi e Raimondi: come se la società civile – lei che per definizione è “per bene”, e che quindi non si può sporcare le mani – scaricasse sui suoi figli degeneri (loro che possono, perché tanto le mani se le sono già insozzate) il compito di fare per suo conto il “lavoro sporco”.

Certo, è vero che questa squallida e terribile vicenda ha suscitato orrore in carcere non meno che fuori; ed è anche vero che secondo una certa mentalità coatta, per fortuna sempre più minoritaria, chi si è macchiato di simili infamità andrebbe fatto a pezzi. Ma noi che siamo dentro, da chi è fuori ci aspettiamo sollecitazioni a essere migliori di quelli che siamo o siamo stati, non istigazioni a essere peggiori. Che Abele si rivolga a Caino, per vendicarsi senza macchiarsi di sangue, è semplicemente avvilente.

Dai “benefici facili” ai detenuti, agli altrettanto facili allarmismi

I presunti automatismi contabili della tanto ingiustamente vituperata legge Gozzini. “Il serial killer Donato Bilancia va in permesso”: ovvero le follie dell’informazione

 

a cura di Marino Occhipinti

 

Il serial killer Donato Bilancia va in permesso: la notizia è stata sparata così, in modo provocatoriamente affermativo, nei titoli d’apertura di Studio Aperto del 9 aprile, all’indomani del funerale del piccolo Tommaso. Vero che poi, nel corso del servizio, quel perentorio “va” è stato sostituito da un prudentemente ipotetico “potrebbe andare”, ma il pugno nello stomaco a una pubblica opinione già scossa e avvelenata dalla tragedia di Parma è stato comunque inferto, e certo ha contribuito a fomentare ulteriormente quel clima di avversione preconcetta nei confronti della legge Gozzini e dei benefici penitenziari da essa introdotti che si respira sempre più distintamente nel Paese.

Di fronte a una simile provocazione (“Il serial killer Donato Bilancia va in permesso”), lanciata peraltro subito dopo una serie di servizi di taglio fortemente emotivo dedicati ai funerali del piccolo Onofri e alle indagini sui suoi carnefici, per una volta ho provato anch’io, nel chiuso della mia cella, a ragionare con la testa di un qualsiasi comune cittadino, e a collegare la (falsa) notizia del permesso concesso al pericolo pubblico di ieri all’orrore ancora bruciante suscitato dal pericolo pubblico di oggi, l’assassino (o gli assassini) di Tommaso. Con un simile accostamento non ho dubbi che sarebbe fatalmente scattata anche in me, come in tutti, l’allarmante equazione che segue: se lasciano uscire in permesso uno come Bilancia, con diciassette omicidi e tredici ergastoli sul gobbo, fra qualche anno faranno uscire senz’altro anche Alessi.

Ma le cose non stanno così, e proporle in questi termini è più che inesatto: è gravemente fuorviante. A parte il fatto che gli omicidi seriali di Bilancia e la tragedia di Parma rappresentano comunque due fenomeni estremi, e che come tali hanno ben poco da spartire con la cosiddetta “delinquenza comune” (quella che affolla  effettivamente le carceri e per cui l’Ordinamento penitenziario prevede la possibilità di accesso a forme premiali, come i permessi), va precisato ancora una volta che i cosiddetti “benefici penitenziari” (permessi, semilibertà, affidamento) non sono dei diritti ma, appunto, dei benefici, e che vengono pertanto concessi o negati all’infuori di ogni automatismo. A essi un detenuto può aspirare solo dopo aver scontato un congruo periodo di carcerazione e a condizione che la Magistratura di Sorveglianza – cui è affidata in modo di fatto insindacabile ogni decisione in questa delicatissima materia – ravvisi nel suo comportamento in carcere (buona condotta) e nella sua maturazione morale e sociale (revisione critica del proprio passato criminale) i requisiti ritenuti indispensabili per l’avvio di un suo graduale reinserimento nella società.

Qualsiasi detenuto, scontata una parte consistente della propria pena, può fare “istanza di permesso premio”, come si dice in gergo; e quindi è possibile che una domanda del genere l’abbia avanzata anche Bilancia. Ma una simile richiesta vale meno di zero se non è supportata da tutta una serie di riscontri positivi che nel caso di Bilancia, con tutta evidenza, non sono ipotizzabili. È il caso di ricordare infatti che la Magistratura di Sorveglianza assume le sue decisioni sulla scorta di una serie di elementi forniti sia dal personale penitenziario (direttore, educatori, agenti di Polizia Penitenziaria, psicologi, assistenti sociali) che dalle forze dell’ordine (legami rescissi oppure no con la criminalità organizzata, pericolosità sociale), e che nel valutare ogni singolo caso viene naturalmente preso in considerazione anche l’allarme sociale suscitato, all’epoca in cui vennero commessi, da crimini di particolare gravità ed efferatezza.

Mi pare giusto dire che si tratta di un argomento molto delicato, e controverso, anche per noi detenuti. Alcuni mesi fa, in una delle consuete discussioni che organizziamo nella redazione di Ristretti Orizzonti, alcuni di noi sostenevano che – nel concedere o meno i benefici – la Magistratura di Sorveglianza dovrebbe limitarsi a valutare il nostro comportamento detentivo, astenendosi dal richiamare ancora una volta in causa natura e gravità del reato che ci ha portato in galera; altrimenti – osservavano – continuiamo a essere identificati all’infinito solo e soltanto nel nostro crimine, indipendentemente dal percorso di recupero morale e sociale che stiamo compiendo, e viene vanificata così ogni prospettiva di un nostro effettivo ritorno a una vita normale. Pur concordando sulla necessità di essere messi al centro di ogni valutazione come persone e non solo come autori di reato, altri di noi osservavano invece che il buon senso prima e l’opportunità, poi, di salvaguardare la legge Gozzini (quella che ha introdotto i benefici penitenziari, e che finisce regolarmente sotto accusa, spesso a sproposito, ogni volta che viene consumato un reato particolarmente allarmante), impongono che la concessione dei permessi e degli altri istituti premiali sia sottoposta a un “filtro” molto rigoroso. Diversamente, bastano pochi fallimenti gravi (si pensi soltanto ai casi Izzo e Dorio, e alle violente ripercussioni polemiche che hanno innescato) per mettere in crisi tutto il sistema e per dare fiato ai protervi sostenitori del “chiudeteli dentro e buttate via la chiave”.

Di fronte a problemi tanto delicati, occorrerebbe un’informazione più sobria e responsabile, pronta sì a denunciare i fallimenti, quando in effetti avvengono, ma anche a mettere nel giusto rilievo il loro carattere eccezionale.

 

Le galere sono piene di persone che sono “nei termini” per andare in permesso ma che in permesso in effetti non vanno

 

La legge Gozzini e i benefici penitenziari che ha introdotto non possono insomma continuare a essere demonizzati ogni volta che un singolo “beneficiato” ne approfitta per commettere nuovi crimini, dimenticando che nella stragrande maggioranza dei casi chi accede agli istituti premiali si attiene alle regole. Non dispongo di dati precisi, per quel che riguarda i permessi premio; per quel che riguarda invece la semilibertà (misura che consente al detenuto di lavorare all’esterno, di giorno, per tornare poi la sera in carcere) questa mia affermazione è ampiamente suffragata dalle statistiche dello stesso ministero della Giustizia, dalle quali risulta che solo dieci dei 3500 detenuti ammessi a questo beneficio nel corso del 2005 ne hanno approfittato per commettere nuovi reati (0,29 per cento). Dieci casi comunque “di troppo”, che non hanno scusanti; ma proporzionalmente non sufficienti, mi pare, per mettere in discussione l’istituto stesso della semilibertà, che è stato portato a buon fine dalla stragrande maggioranza (99,71 per cento) dei detenuti che ne hanno fruito.

Ma vorrei tornare ancora un momento a Donato Bilancia – e all’allarme suscitato dalla falsa notizia della concessione di un permesso a suo favore – per fare un po’ di chiarezza sui presunti automatismi contabili (tot anni scontati, tot benefici) della tanto ingiustamente vituperata legge Gozzini. Se da un lato risponde al vero che essa fissa in dieci anni (otto, se uno si merita la liberazione anticipata per buona condotta) la soglia minima oltre la quale ogni detenuto, qualunque sia l’entità della condanna inflittagli (fatta eccezione solo per i cosiddetti “reati ostativi”, come il sequestro di persona e l’associazione mafiosa, i cui autori possono accedere alle misure premiali solo nel caso abbiano collaborato con la giustizia), può fare istanza di permesso premio, nella realtà la concessione di tale beneficio è tutt’altro che scontata. Non a caso le galere sono piene di persone che sono “nei termini” per andare in permesso ma che in permesso in effetti non vanno, perché la magistratura di sorveglianza non ritiene realizzate nei loro casi quelle condizioni (le ripeto: buona condotta detentiva, revisione critica del passato criminale, cessata pericolosità sociale, eccetera) ritenute indispensabili per l’avvio di un loro graduale reinserimento nella società.

Mi viene in mente in proposito un caso doppiamente emblematico, perché riguarda l’autore di un crimine che a suo tempo destò un altissimo allarme sociale e perché è ritornato d’attualità proprio nelle scorse settimane: mi riferisco a Luigi Chiatti, condannato a trent’anni di reclusione per avere ucciso, nel 1993, due bambini. Ebbene, nel 2001 giornali e televisioni dettero gran rilievo al fatto che, entrato nei “termini”, avesse presentato alla Magistratura di Sorveglianza un’istanza di permesso premio. Dai toni scandalizzati dei titoli e dei commenti, si sarebbe detto che il “mostro di Foligno” avesse già un piede fuori dal carcere, e invece quel tanto strombazzato permesso a distanza di quasi sei anni dalla richiesta non gli è ancora stato concesso. E difficilmente gli verrà concesso anche in futuro, visto che è proprio delle settimane scorse la notizia che la Cassazione, alla quale Chiatti si era rivolto vedendosi rigettare l’ennesima richiesta di permesso premio, ha confermato il no espresso a più riprese, nel suo caso, dalla Magistratura di Sorveglianza.

In conclusione sono persuaso che, se prevalesse la corretta conoscenza dei fatti e l’equilibrio dei commenti, i cittadini italiani potrebbero dormire sonni più tranquilli: la legge Gozzini non è fatta per proteggere i “lupi” e per metterli nelle condizioni di replicare i loro delitti, e la Magistratura di Sorveglianza – come è giusto che sia – decide se accordare o no i benefici da essa previsti caso per caso, con grande rigore e senso di responsabilità.

Cronaca giudiziaria: tra disinformazione ed esercizio del terrore

Un libro su Donato Bilancia e l’incubo di un possibile permesso premio

 

di Stefano Bentivogli

 

Con “Diciassette omicidi per caso” di Ilaria Cavo, edito da Mondadori, continua la serie di libri sui serial killer nostrani. Si tratta di un’opera sulla vicenda criminale di Donato Bilancia che a cavallo tra il ‘97 ed il ‘98 uccise 17 persone e fu in seguito condannato a tredici ergastoli. Di questo libro parla Diego Pistacchi su Il Giornale del 10 aprile 2006, ed a ragione direi perché il libro chiude con una minaccia incombente, da cui il titolo dell’articolo terrificante: Donato Bilancia tra due anni è già fuori. Io speravo che l’autrice del libro si fosse resa conto che le cose non stanno come le racconta Bilancia e si informasse un po’ meglio sull’istituto del “permesso premio”. Ma come stanno davvero le cose? Secondo quali leggi Donato Bilancia dopo 10 anni di carcere (ossia tra due anni) uscirà in permesso premio e dopo 20 anni (ossia tra 12 anni) in semilibertà?

Se si vuole attirare l’attenzione sull’eventualità che un killer seriale esca dal carcere dopo dieci anni per i permessi premio, previsti dall’Ordinamento penitenziario, in quanto si ritiene che questi sia ancora pericoloso, ben venga. Occorre però sapere ciò di cui si scrive e non fare del terrorismo basandosi sulla scarsa conoscenza delle leggi e soprattutto fidandosi di quello che afferma Donato Bilancia, che è libero di dire quello che vuole, grave è se una persona che scrive un libro su di lui pare in qualche momento pendere dalle sue labbra come se fosse di fronte ad una autorità delle Scienze Giuridiche. Tanto è vero che lunedì 17 aprile la stessa Ilaria Cavo, ospite al TG La7, rilancia di nuovo l’allarme su Bilancia libero, e parla di “diritto” al permesso premio (che è una falsità bella e buona) e di maglie terribilmente larghe della giustizia. Il conduttore ovviamente rinforza la questione citando il caso del brutale omicidio del piccolo Tommaso Onofri nel quale è coinvolto Mario Alessi, altra persona che era impropriamente in libertà (anche qui il problema non è la legge o ancor più i permessi premio, bensì un processo che va avanti da sei anni).

Sono stato qualche anno nello stesso carcere, il Due Palazzi di Padova, dove Donato Bilancia sta scontando la sua pena; mi è capitato di incrociarlo qualche volta nei lunghi corridoi dell’Istituto, era sempre scortato da un paio di agenti e non gli era permesso avere contatti con nessuno. Per uscire in permesso premio, come per le misure alternative alla detenzione o la semilibertà, esistono, a seconda del tipo di reato commesso, dei periodi minimi di detenzione che bisogna avere scontato. Ma se è vero che, per chi ha uno o più ergastoli, è possibile, dopo dieci anni scontati, chiedere e ribadisco chiedere e ripeto chiedere, permessi premio, di lì al fatto che questi gli vengano concessi c’è di mezzo la decisione di un magistrato.

Per l’esattezza si chiama Magistrato di Sorveglianza e soprassiede sia a questo tipo di beneficio, sia alla liberazione anticipata per buona condotta (90 giorni di sconto di pena per ogni anno di pena). Beh, io conosco ergastolani con un ergastolo solo, e non 13, per i quali, dopo oltre 12 anni di pena scontati, di permessi premio ancora non si parla. Ma questo perché chiunque, ladro di polli o serial killer che sia, per uscire in permesso premio, oltre ad aver scontato il periodo di carcere per lui previsto, deve:

aver mantenuto una condotta meritevole del beneficio premio

aver partecipato attivamente alle attività trattamentali

aver rivisto in maniera critica il proprio passato criminale e quindi non far presagire la ricommissione di reati

non essere sospettato di voler evadere.

A questo si aggiunge che di solito vengono fatte anche delle indagini  sulla pericolosità del detenuto da parte delle forze di Polizia e dei Carabinieri. Ma anche se tutto questo fornisce un quadro positivo il permesso non è mai certo: ho visto rigettare istanze di permesso premio perché il fine pena era molto lontano (ma la pena scontata era sufficiente per inviare un’istanza ammissibile), oppure perché si trattava di detenuto recidivo (anche se la ex-Cirielli non era ancora in vigore).

Insomma, il magistrato ha la massima discrezionalità nel motivare una non concessione, in fondo si tratta di un beneficio, e anche di un gesto di fiducia e non di un diritto. Certo se uno non accetta il rigetto della sua istanza può sempre impugnare il decreto in Cassazione, ma non è facile che un altro magistrato, che non ti conosce, sconfessi la decisione del suo collega.

E difatti così è successo a Luigi Chiatti, omicida di due ragazzini, al quale fu riconosciuta in appello la seminfermità mentale, la pena ridotta dall’ergastolo a trent’anni, più tre anni di Casa di Cura e Custodia a pena finita, come misura di sicurezza. Era nei termini per chiedere il permesso, lo ha chiesto ed ha ottenuto un rigetto, è ricorso in Cassazione e il rigetto è stato confermato. Così ogni volta che vedo scritto, come nel caso di Bilancia, “tra due anni è fuori” mi chiedo:

  1. Ilaria Cavo (l’autrice del libro) semina terrore perché i magistrati prendono decisioni a vanvera, oppure non conosce la legge?

  2. Diego Pistacchi, giornalista de Il Giornale, ha letto il libro o ha riportato il contenuto di una pagina senza verificare come stavano realmente le cose?

  3. Possibile che i giornalisti, quando si occupano di giudiziaria, scrivano spesso delle colossali inesattezze (dal libro sembra che Bilancia abbia ottenuto questo colloquio col magistrato e che questo sia un buon segno: a Padova non è così raro parlare col magistrato, ma di lì ad avere il permesso premio…). È grave se quando si parla di detenzione si è poco attenti e corretti, come se l’ambito non lo meritasse, e poi chi è che si prende la briga di controinformare?

Sembra evidente che ad esempio dove, come per Chiatti, è stata riconosciuta una patologia tale da conferirgli la seminfermità mentale, non ci si è fermati ad ottenere l’ergastolo a tutti i costi ma si è pensato ad una grave questione psichiatrica da affrontare prima di pensare alla libertà.

Bilancia  invece ha scontato una “detenzione comune”, da sano di mente, da genio del male e non da psicopatico, allora invece di scrivere che “tra due anni è fuori” e tra “12 è in semilibertà” perché non iniziare a chiedersi cosa ci fa Donato Bilancia in un carcere non attrezzato per cure psichiatriche adeguate? E perché si continua a parlare di queste persone come in grado di intendere e volere,  pienamente responsabili, quindi pienamente recuperabili secondo percorsi che per altri, pur in modo discutibile, consentono di arrivare ad un livello di pericolosità sociale accettabile?

Eppure, ogni volta si parla di Bilancia come persona che sa quello che dice, lo si va ad intervistare con l’ossessione di capire se si è pentito o no, se è sincero o meno, si dimentica che sono persone con problemi serissimi per le quali il piano razionale non segue dei parametri “normali”. Al suo caso vorrei aggiungere quello di Izzo, quello di Minghella, ma ce ne sono altri, gente che una volta fuori è tornata ad uccidere, eppure la recidiva nelle vicende di omicidio è veramente un caso eccezionale.

 

Ogni volta si apre il fuoco sulla legge Gozzini e si cerca di restringerla fino a cancellarla

 

Emerge ormai però sempre più evidente che esistono omicidi ed omicidi, e che le nostre aule di Tribunale, una volta che viene accertata la piena capacità di intendere e volere, si disinteressano se sono evidenti i connotati di un gesto che può presupporre la serialità ed affidano il condannato al circuito ordinario di esecuzione della pena. A questo punto si scopre che in molti casi, e Bilancia è uno di questi, ci sono condannati che incontrano più spesso i giornalisti che lo psichiatra, e tornano alla ribalta della cronaca magari se partecipano a spettacoli teatrali o concorsi di poesia, e succede che per persone che sono state responsabili di fatti inquietanti l’osservazione della personalità sia simile a quella  che viene fatta per chi sta scontando una condanna per rapina al supermercato.

Non c’è una questione di ampie maglie della legge, né una necessità di rendere i criteri per concedere i benefici ancora più restrittivi. Si tratta di cercare di capire, là dove vengono commessi errori veramente gravi, quali sono state le cause. Ad esempio, per i casi come Minghella ed Izzo, di chi è stata la responsabilità nel concedere le misure alternative? E nell’eventualità che vengano appurate delle colpe, cosa è stato fatto affinché di questi casi ne succedano sempre meno? Invece ogni volta si apre il fuoco sulla legge Gozzini e si cerca di restringerla fino a cancellarla, in direzione del vecchio carcere custodiale, quello afflittivo e basta, quello anticostituzionale.

Per quanto conosco la magistratura padovana, benefici e misure alternative si concedono, ma mai a cuor leggero, e figuriamoci se addirittura si prepara un’istanza di permesso premio due anni prima dei termini di legge e in un colloquio vengono offerte dal magistrato certezze sulla concessione di un beneficio che, per casi molto meno gravi, comporta  sempre attese e attente verifiche.

Ma perché non sono andati direttamente dai magistrati a chiedere come stanno le cose? Forse sarebbe emersa una realtà molto meno morbosamente affascinante, la storia di un essere umano che ha ucciso in modo orribile 17 persone innocenti, di un uomo di cui si cura ogni tanto qualche volontario o qualche operatore e per il quale un carcere normale non ha i mezzi per progettare alcuna forma di umanizzazione della pena: è una vita isolata tra gli isolati, cui dare un senso è veramente difficile, è una mente che si illude ancora di poter manipolare qualcuno per tornare al centro dell’attenzione, ed invece viene puntualmente usata da tanti per soddisfare quel fondo di perversione che abbiamo un po’ tutti quanti.

Ce ne sono altri meno famosi di lui, ma molto simili a lui, forse per loro sarà più semplice passare inosservati ma ugualmente non curati. È di questi forse, di quelli sui quali libri non se ne sono ancora scritti, che ci si dovrebbe interessare di più, perché alcuni rischiano di trovare il disinteresse e basta. Sono un po’ come “residui manicomiali”, una nuova categoria criminologica alla quale si continuerà a chiedere pentimenti e redenzioni, invece che ipotizzare percorsi di risocializzazione che tengano conto della loro particolare diversità, che sappiano coniugare l’attenzione per l’elevatissima pericolosità sociale con la tutela del loro essere persone la cui vita non è meno sacra delle altre.

Questo mi piacerebbe diventasse argomento di studio ed approfondimento, e non gli ormai soliti “incontri col mostro”, che rischiano di assuefarci e hanno molte volte il vizio di essere pieni di stereotipi e di informazioni non corrette, se non addirittura contrarie alla realtà.

Se uno chiede al primo che passa…

La strana idea del carcere che ha il mondo dei “regolari”

 

di Flavio Zaghi

 

Se uno chiede al primo che passa che idea ha del carcere, quello che rischia di sentirsi rispondere è: Il carcere? Un posto dal quale è più facile uscire che entrare. Questo infatti è ciò che si sente sempre più spesso dire in giro, sembra che il carcere sia un posto che se uno vuole starci, ci sta, altrimenti prende e se ne va, senza problemi. La televisione, molti giornali spesso gonfiano, giocando su questi luoghi comuni, ogni notizia che ha a che fare col carcere, sfruttando informazioni che chiunque, con un minimo di buon senso, tratterebbe con un po’ di cautela, tenendo d’occhio che la bilancia non penda né dall’una, né dall’altra parte.

La gente ascolta e guarda la televisione e legge i giornali, le notizie che risaltano, quelle più scandalose. Quando per esempio esce dal carcere un mafioso, grazie alla bravura di avvocati, gli stessi poi che sono in parlamento e al servizio dei politici, per decorrenza dei termini o per un vizio di forma, in tanti iniziano a chiedersi: ma come è possibile? Oppure si limitano a dire che è una vergogna e tutto finisce lì.

Succede che una qualunque persona, imputata di rapina o di furto, entra in carcere, viene interrogata dal Giudice, e poi, se è convalidato l’arresto, viene lasciata dentro in attesa di giudizio, senza aver riportato nessuna condanna  e nella condizione ancora di presunto innocente. A volte capita, non si capisce bene come ma capita, che passano i mesi e gli anni e del processo neanche a parlarne; è ovvio che dopo i tempi di carcerazione preventiva l’imputato vada a decorrenza dei termini e si veda improvvisamente aprire le porte del carcere. Cosa dovrebbe fare, rifiutare di tornare in libertà? Torna libero, riacquista la libertà che non si aspettava e aspetterà il processo che il più delle volte viene poi celebrato dopo parecchi anni.

Nessuno però si domanda: ma questa persona, dopo sei-sette-dieci anni, sarà ancora la stessa persona o sarà cambiata? Può anche essere che si sia creata una condizione di vita diversa da quando aveva commesso il fattaccio, e magari ha messo su famiglia e si è trovata un lavoro. La lenta ma inesorabile macchina della giustizia va avanti lo stesso per la sua strada, e alla fine si arresta e si incarcera questa persona, e poco importa se si rischia di distruggere quanto di buono può aver fatto per dare un taglio netto col passato. La perdita della famiglia, del lavoro, della casa, passa tutto in secondo piano quando la giustizia presenta il suo conto. È la legge stessa in casi come questi ad aver creato un delinquente, lo ha fatto entrare in un circolo vizioso dal quale difficilmente potrà uscire. Tutt’altra cosa sarebbe stata se questa persona avesse scontato subito la condanna per il male commesso, successivamente avrebbe avuto la possibilità di ricrearsi un’esistenza, la vita normale che ha diritto ad avere chi ha sì sbagliato, ma ha pagato e forse ha anche capito la lezione.

È diverso dal dire: hai sbagliato oggi che hai quarant’anni, paghi poi quando ne hai cinquanta o cinquantacinque. Cosa siamo, delle tartarughe che vivono due o trecento anni? La vita quella è, quando sei a cinquanta, sessanta calendari, che cosa vuoi o riesci ancora a costruire?!

 

Anche “la legge è uguale per tutti” è un modo di dire

 

Quando poi sento che in carcere ci stanno i fessi, perché quelli furbi non si fanno prendere, mi girano le scatole, perché è anche vero, però è altrettanto vero che il carcere è sempre più pieno di gente di un ceto sociale che è l’ultimo in basso: tossicodipendenti, persone con problemi anche psichici, poveracci che non possono permettersi una difesa all’altezza della situazione.

Altra cosa che si sente spesso, e che suona alle mie orecchie in modo proprio stonato, è quando si paragona il carcere ad un hotel di lusso. Bisogna veramente essere fulminati per sostenere un’idiozia del genere, oppure bisogna essere come certi politici, dotati di scarsa preparazione in materia di giustizia ed esecuzione della pena, ma prima di tutto privi di umanità. Quando sento fare questo paragone del cazzo, carcere-albergo di lusso, mi viene sempre in mente l’ex-ministro De Lorenzo, lui allora era rimasto in carcere sì e no sei mesi, e quando poi lo hanno fatto vedere nell’aula di tribunale al processo, pareva uno zombie. È strana la vita, quando arrestano me poi di solito nel giro di qualche mese metto su qualche chilo a causa dell’inattività e della sedentarietà, lui invece sembrava più un ostaggio in mano a qualche gang di sequestratori senza scrupoli; chiedete a lui se il carcere è paragonabile ad un albergo di lusso.

Io in questa catena di hotel ho dovuto vedere di tutto: mi è toccato dormire per terra a San Vittore, su di una coperta perché non c’erano brande, alle Vallette mi è andata un po’ meglio, ho trovato mezzo materasso, a Padova poi al circondariale eravamo in tre in un buco neanche adatto per una sola persona, col cesso lì in bella vista, neanche un separé per evitare di essere almeno testimoni anche oculari delle necessità fisiologiche dei propri compagni. Questi sono gli alberghi di lusso? Vi assicuro invece che non è il caso di stupirsi se più di qualcuno cerca di filarsela alla chetichella oppure non lascia la mancia quando finalmente potrà andarsene libero.

 

 

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