Ristrettamente utile

 

È fondamentale avere delle pene il più possibile vicine al reato

Una legge che va spiegata meglio alla gente. Il punto di vista di un nostro affezionato lettore sulla legge Gozzini: “Se si vuole salvare e applicare davvero questa legge, la giustizia dovrà dare non tanto la certezza della pena, quanto la prontezza della pena”

 

di Alberto Verra

 

La corrispondenza tra la redazione di Ristretti Orizzonti e uno dei nostri più attenti lettori, Alberto Verra, è iniziata quando, da “pluriderubato”, Alberto ha scritto una lettera che iniziava con un “Egregio signor ladro” e si rivolgeva direttamente a chi gli aveva svaligiato la casa. Questa volta le sue riflessioni, sempre stimolanti, riguardano invece la legge Gozzini, la paura che la gente ne ha, il modo in cui dovremmo cercare di spiegarla e farla “digerire” a chi sta fuori e guarda con diffidenza agli autori di reato che a un certo punto della pena cominciano “già” a uscire, e quel già sta a significare che a molti sembra sempre troppo presto.

 

Seguendo il vostro sito e il vostro giornale, mi è parso di cogliere che, tra gli argomenti trattati, la   salvaguardia della legge Gozzini sia più di altri giustamente sentito. Personalmente credo che questa legge sia una grande legge che andrebbe sviluppata più che tagliata, ed è questa mia convinzione che mi spinge a dirvi che per riuscire a salvare questa legge bisogna parlarne inserendola in una discussione più generale sulla giustizia: guardandola solo dal punto di vista di chi sta dentro si rischia di renderla più incomprensibile alla gente comune che sta fuori.

Mi spiego meglio: quello che affossa questa legge non sono in realtà qualche giornalista di basso profilo o l’incattivimento della società che pure esistono, ma il senso di mancanza di giustizia generale provocato da più fattori che la gente avverte. Se si vuole salvare questa legge e applicarla davvero, la giustizia dovrà dare non tanto la certezza della pena, quanto la prontezza della pena. Solo se si avvertirà una giustizia autorevole, rapida e certa, solo quando si darà una definizione condivisa sulla questione, in cosa deve consistere la pena e a cosa debba servire, solo allora la gente potrà comprendere e pretenderne l’applicazione di questa legge.

Fondamentale quindi avere delle pene il più possibile vicine al reato e che spaventino il più possibile quelli che stanno fuori con il minor danno possibile per chi sta dentro, questo farà sì che le pene potranno essere molto inferiori e farà accettare alle vittime un percorso di rieducazione e il reinserimento nella società. Le difficoltà  contro le quali va a scontrarsi oggi la legge Gozzini non sono dovute al fatto che vi è qualcuno totalmente contro questa legge, ma al fatto che, se questa si inserisce in un contesto non logico, diventa non logica anche lei.

Una giustizia che non funziona va contro gli interessi soprattutto dei detenuti che si trovano a sopportarne tutte le contraddizioni, e anche istituti come il rito abbreviato e il patteggiamento, che prevedono uno sconto di pena consistente,  favorevoli al reo singolo quindi, diventano sfavorevoli ai rei visti come “categoria” nel momento in cui bisogna spiegare alla gente l’applicazione della legge Gozzini a persone che magari hanno già avuto un forte sconto di pena. La gente non capisce e  semplicemente  rigetta in blocco ogni discorso che non sia quello della galera. Credo che quando parliamo di giustizia dobbiamo soprattutto ricercare un equilibrio affinché nessuno rimanga con il cerino acceso, l’obiettivo finale deve essere la riconciliazione e questa non può che avvenire tramite percorsi condivisi, con il massimo delle garanzie personali, senza falsi buonismi. E soprattutto dobbiamo ricordarci che la scelta di abrogare la pena di morte porta come diretta conseguenza anche il superamento del concetto di ergastolo, più sarà perfetto questo equilibrio meglio sarà per tutti.

Non ha alcun senso “rieducare” un condannato se poi

lo si tiene rinchiuso a vita in cella senza farlo rientrare in società

 

di Graziano Scialpi

 

Caro Alberto, come al solito quando ci scrivi sollevi dei problemi interessanti. Questa volta hai messo sul fuoco tanta di quella “carne” che sarà difficile risponderti esaurientemente. Andiamo per ordine. Innanzitutto i dubbi sulla giustizia di cui ti fai portavoce sono senz’altro ispirati dal buon senso. Ma anche il buon senso ha bisogno di informazioni corrette ed obiettive per poter giudicare serenamente. Ti faccio un esempio pratico. Supponiamo che una persona commetta un omicidio, venga presa e condannata a 15 anni di reclusione. In un qualsiasi telegiornale italiano la notizia verrebbe riportata da un giornalista con una contrariata faccia di circostanza che lamenterebbe che il reo in questione è stato condannato “solo a 15 anni”, segno di tempi di ingiustizia. In un telegiornale tedesco il giornalista affermerebbe invece con soddisfazione che la corte ha condannato il colpevole al “massimo della pena”. E qui poniamo il primo paletto. Non esiste una legge universale e cosmica che stabilisca: “per un tale reato è giusta una tale pena e non un giorno di meno”.

Se ci si vuole ispirare a Principi Superiori per la quantificazione della pena ci sono solo la Sharia islamica (e allora sai quante adultere si dovrebbero lapidare…) e il biblico “occhio per occhio, dente per dente” sbandierato dai cristiani (protestanti) americani per giustificare la pena di morte. Quanto a quest’ultimo basti dire che il Vecchio Testamento è stato corretto dal messaggio di Gesù, che ha predicato il perdono e salvato l’adultera dalla lapidazione prescritta dalla legge mosaica. Inoltre, checché ne dicano gli americani, non si tratta di una legge prescrittiva, ma limitativa, la cui lettura corretta è questa: se uno ti rompe un dente e proprio ti vuoi vendicare, allora rompigli solo un dente, non ucciderlo. Se ti pesta il piede, e proprio ti vuoi vendicare, pestagli il piede, non ucciderlo. Cioè vendicati, se proprio non puoi farne a meno, in maniera proporzionata all’offesa ricevuta. Ma torniamo a noi, se non esiste un Principio Superiore in base al quale quantificare la lunghezza delle pene, allora come si fa a stabilire tale lunghezza?

In realtà, almeno per quanto riguarda l’Italia, tale principio esiste ed è fortemente prescrittivo. Si tratta dell’art. Articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Il tuo stesso buon senso ti dirà che non ha alcun senso “rieducare” un condannato se poi lo si tiene rinchiuso a vita in cella senza farlo rientrare in società. Purtroppo tale principio è rimasto quasi lettera morta in quanto (nel 2006!) è ancora in vigore il Codice penale firmato da Mussolini che tutto era, tranne che un garantista che mirava alla rieducazione del condannato (ho conosciuto dei criminologi stranieri che erano sbigottiti di fronte alla severità delle pene italiane). Non solo, molte delle pene originarie sono state ulteriormente aggravate nel corso degli anni repubblicani. Negli altri stati europei non hanno avuto dei padri costituenti illuminati come i nostri. Però quando hanno rifatto i vecchi codici penali (gli altri sì che li hanno rifatti) hanno cercato di fare tesoro di tutte le esperienze del passato, di tutti gli studi più avanzati e anche del buon senso. Il risultato è che in Germania, come nella gran parte dei paesi europei più civili, la pena massima si attesta sui 15-20 anni per reati come l’omicidio (il cosiddetto “piccolo ergastolo”, se l’autore del reato è incensurato), comprensivi di benefici, spesso molto più “larghi” dei nostri. E funziona! In Finlandia, Norvegia, Svezia, la politica di pene brevi, con carceri aperte e reinserimento sociale seguito e guidato, ha portato al dimezzamento della recidiva.

In Italia no! In Italia 15 anni sono “noccioline”, è troppo poco. Adesso poi, come dici tu, con tutti gli sconti di pena previsti dal patteggiamento e dal rito abbreviato… Lasciamo perdere il patteggiamento che riguarda solo reati punibili con pene fino a 15 anni, che, con un buon avvocato e un po’ di soldi, senza l’accordo sulla pena finirebbero in gran parte prescritti (nei feroci Usa si patteggia anche l’omicidio…), è vero che il rito abbreviato comporta la riduzione di un terzo  della pena. Si tratta di un “premio” che lo Stato concede al condannato per non aver aggravato di ulteriore lavoro e di ulteriori costi un sistema giudiziario già allo stremo. Ma in concreto si tratta davvero di un premio? Si tratta davvero di un “generoso sconto di pena”? Se io fossi un giornalista serio ed obiettivo sai cosa farei? Farei una ricerca sulle condanne medie che venivano comminate prima dell’introduzione del rito abbreviato e sulle condanne medie che sono state comminate dopo.

E sai cosa scoprirei con ogni probabilità? Scoprirei che, sia prima, sia dopo l’introduzione del rito abbreviato le condanne medie, per esempio per l’omicidio, si attestano sui 15 anni. “Ma come è possibile?”, ti chiederai, “se uno prima prendeva 15 anni, adesso con il rito abbreviato deve prenderne 10”. Secondo il buon senso, tuo e dell’opinione pubblica, avresti ragione. In realtà, in Italia, le “forchette” tra il minimo e il massimo di una pena sono enormi e i giudici hanno un potere discrezionale sconosciuto in molti sistemi giudiziari.

Così se prima del rito abbreviato il giudice riteneva che per un reato la pena giusta fosse di 15 anni, con il rito abbreviato per lo stesso reato magari finisce per darne 22, di anni, così, tolto un terzo della pena, il risultato non cambia. Anzi, personalmente sarei pronto a scommettere che, se qualcuno si desse la briga di fare questa ricerca, molto probabilmente scoprirebbe che in realtà la media delle condanne negli ultimi anni si è alzata rispetto a prima dell’introduzione dei riti alternativi. Così come se qualcuno si desse la pena di andare a verificare le aride cifre, avrebbe qualche difficoltà a conciliare l’attuale clima di emergenza da trincea con il fatto che i reati, omicidi in testa, sono in costante calo dal 1992. Cioè oggi ci sono meno reati che vent’anni fa.

 

Rito abbreviato e concessione dei benefici

 

Ma veniamo alla tua obiezione sull’opportunità di applicare la Legge Gozzini a chi ha goduto di questi sconti di pena. Come dici tu è un problema di logica e la logica, parente stretta della matematica, non è un’opinione. E qui si tratta della logica di un reinserimento sociale il meno dannoso possibile per la società. Ora, se prendiamo due persone condannate entrambe a 15 anni di reclusione, una con il rito ordinario, l’altra con il rito abbreviato e il relativo sconto di pena, la logica del reinserimento e della rieducazione ci dice che il tipo di processo e l’eventuale sconto di pena sono irrilevanti: quello che conta è che abbiamo due persone che devono passare 15 anni dietro le sbarre, allo scadere dei quali torneranno entrambe libere nella società.

Credo che ti renderai conto da solo che anche il buon senso può risultare ingannevole quando suggerisce che a una di queste due persone si debba concedere una serie di benefici che hanno lo scopo di non farle perdere il contatto con la famiglia e con la realtà e di guidarla progressivamente e gradualmente nel suo reinserimento sociale. Mentre l’altra deve essere tenuta completamente staccata dalla società e dalla realtà per 15 anni, per poi essere scaraventata fuori improvvisamente e in modo traumatico, scommettendo sul fatto che questo disadattato, senza famiglia, senza lavoro, senza soldi, senza amicizie, si “reinserirà” senza fare ulteriori danni. Chiudo qui, a malincuore questo argomento che meriterebbe ulteriori riflessioni (lo spazio si restringe sempre più…) per affrontare le questioni che poni nella prima parte della tua lettera.

Hai colto bene la questione della “prontezza” della pena. La lentezza è uno dei più gravi problemi della nostra intasatissima giustizia. Devo però correggerti (non volermene) sulla questione della certezza della pena, ma quanto a questo in Italia c’è una grandissima confusione, creata da chissà chi… In Italia le pene sono certe, certissime, inesorabili. Possono magari passare 10, 12 anni dal giorno dell’arresto o della denuncia a piede libero, ma quando la pena diventa definitiva non ci sono santi e non ci sono scuse: ti vengono a prendere e ti portano in carcere. Non importa se nel frattempo hai messo la testa a posto, se non hai commesso più reati, se hai trovato lavoro e ti sei fatto una famiglia: ti vengono a prendere e ti portano dentro (e non ti resta che sperare di capitare in qualche posto dove applicano la tutt’altro che automatica Gozzini).

Il problema sono i 10, 12 anni… è questa lentezza che dà la sensazione che le pene non siano certe, che non vengano scontate. Le pene sono certe, ma non sono pronte. Oltretutto per alcuni (non per tutti) questa lentezza significa prescrizione del reato (accelerata dalla ex Cirielli) e in questo caso la pena non c’è proprio. La giustizia è lenta, così le persone arrestate e magari colpevoli (ma innocenti fino a sentenza definitiva) escono per la scadenza dei termini della custodia cautelare e la gente pensa: “Ma come? Hanno fatto questo o quest’altro e sono già liberi?”. Sono liberi sì, ma solo per il momento. Con calma, con lentezza, i procedimenti giudiziari procedono e, dopo qualche anno, quelle stesse persone torneranno dentro a scontare la loro certa, certissima pena.

 

Se otto ladri su dieci restano impuniti, accanirsi sugli unici due ladri “acciuffati” è puerile

 

Chiarito che in Italia se vieni condannato certamente sconti la pena e chiarito, spero, che certezza della pena non significa scontarla senza alcun beneficio di legge, in realtà un problema di certezza della pena nel nostro paese esiste, ma bisogna chiarire cosa significa realmente “Pena certa”. Il primo a parlare di “certezza della pena” è stato il grande Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene”, come da proverbio, molto più profeta all’estero che in patria. Ma Beccaria con “Pena certa” intendeva qualcosa di totalmente diverso dall’accezione comune. Per Beccaria pena certa significa che se qualcuno commette un reato deve essere sicuro di essere scoperto e preso. In questo senso, che è l’unico che abbia senso, certezza della pena significa non pene dure, che devono essere scontate fino in fondo, ma che non ci devono essere reati impuniti. In altri termini: se vado a rubare devo essere pressoché sicuro che mi prenderanno.

Cosa che in Italia non accade, visto che circa l’80% dei furti resta impunito. E questo è un problema di polizia, non di Magistratura garantista o di Codice penale o di Legge Gozzini. Il problema non è: “Noi li prendiamo e loro li mettono fuori (fino a sentenza definitiva)”. Il problema è che non li prendono proprio. E se non prendi otto ladri su dieci, accanirsi sugli unici due ladri che sei riuscito a prendere è puerile, oltre che perfettamente inutile. In dieci anni di carcere credo di aver capito qualcosa sulla “mentalità criminale” e cioè che il “criminale”, mentre si accinge a commettere un reato, non ci pensa proprio alla pena prevista dalla legge, a quanti anni di carcere rischia, né tantomeno al “restringimento” della Gozzini. Quello di cui si preoccupa è: quante probabilità ci sono che mi becchino? E le statistiche dicono che, nonostante l’Italia abbia forse il maggior numero di poliziotti per abitante del mondo (fino a poco fa eravamo secondi solo a Saddam Hussein), le probabilità sono a suo favore. Se la pena fosse di soli tre mesi, ma avesse la quasi sicurezza di essere preso, stai pur certo che se ne starebbe a casa. Per questo è inutile inasprire le pene o tagliare i benefici di legge. Sono “minacce” che non vengono nemmeno prese in considerazione e lo dimostra la scarsa deterrenza della pena di morte nei paesi dove viene applicata. Non serve a nulla se non a inasprire lo scontro. Ma questo lo aveva già capito Beccaria.

 

 

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