Sani - Dentro

 

La "medicina miracolosa"
che non fa sentire il dolore del carcere

 

Ma chi ha il coraggio di parlare finalmente di psicofarmaci?

 

Lettera della compagna di un detenuto

 

Per la prima volta nella rubrica dedicata alla salute pubblichiamo una lettera. Ce l’ha scritta la compagna di un detenuto che si trova in un carcere X, non occorre dire quale: in realtà, la situazione che descrive, di un uomo imbottito di psicofarmaci, la si ritrova un po’ dappertutto. Parlarne è però difficile: dispiace a molti detenuti, che temono di vedersi ridurre la dose di quei medicinali che li fanno stare un po’ meno peggio, spesso dispiace a chi si occupa della custodia e preferisce avere a che fare con persone più "tranquille". Ma bisogna anche avere il coraggio di affrontarla, questa questione degli psicofarmaci, e noi cominciamo qui, chiedendo di segnalare altre situazioni come quella descritta nella lettera che segue.

 

Cara Redazione,

vi scrivo per raccontarvi la storia, o meglio il calvario del mio convivente, tuttora chiuso in carcere. Ex tossicodipendente, 18 anni di droga, dopo il metadone, da più di 3 anni è mio compagno di vita affettiva.

Sembra retorica, ma da quando ci conosciamo lui è cambiato, non più droga, recupero tramite il mio amore e il Sert locale, con difficoltà, ma non più di tanto, credetemi, era tornato a vivere, con me, era più uomo, più equilibrato nonostante tutto, eravamo insieme, lottavamo insieme, e lui era riuscito ad avere un affidamento in prova, tramite il Sert. Ci pareva di toccare il cielo con un dito, finalmente anche fuori dai suoi strascichi legali, ovvero reati minori, ma di vecchia data, che accatastati lo marcavano con la solita parola: Pregiudicato, anzi, pluripregiudicato (reati tipici di chi si droga, ma non gravissimi come potreste pensare).

Dopo un anno e mezzo di affidamento, dopo che tutto filava liscio, nel rispetto pieno delle regole, lo ferma la Questura, mentre lui stava parlando con una persona che a sua volta aveva pendenze penali. Morale: violazione della quarta prescrizione dell’affidamento in prova: non frequentare persone pregiudicate ecc., ecc. Ma lui non frequentava proprio nessuno, si era fermato appena per dire questo: Ciao, come stai? Lavori?

E la legge non ammette ignoranza, punisce, punisce anche chi come lui stava facendo un buon percorso di recupero, a detta dello stesso Sert. Dopo pochi giorni, rientro a casa e trovo un suo biglietto, dove mi dice: "Non preoccuparti, sono in Questura, ciao ti amo".

Inizia l’incubo, l’avvocato, gli assistenti sociali, periodo di ferie, non trovo quasi nessuno, trovo lui in carcere, dolore, ma speranza sicura dell’udienza, pensavo andasse bene, invece, colpa dell’avvocato, colpa del caldo, colpa dei mesi in più arrivati, il magistrato ha deciso di lasciarlo "dentro". Lui ha cominciato ad andare in depressione, ma, sostenuto da me, pareva cercasse di superare questo stato anche iscrivendosi ad un corso interno. Ulteriore problema, trasferimento in un altro carcere per esubero di detenuti.

Lo trovo molto addolorato, triste, piange spesso, gli manco come l’aria, anche se vado a trovarlo tutti i colloqui; no, anche questa non ci voleva, ha subito un secondo trauma, ogni volta cercavo di tirarlo su, ma vedevo che stava male; ho fatto istanza con un medico esterno che lo ha trovato parecchio depresso causa la carcerazione, chiede la detenzione domiciliare e invece me lo mandano in osservazione in un Ospedale psichiatrico giudiziario, sapete come sono a volte gli psichiatri dei penali, o li riempiono di sedativi o spediscono come pacchi postali i detenuti in un bel manicomio. 30 giorni di agonia, di paura, ed io telefonavo, parlavo, domandavo cosa stava succedendo. Morale, ritorna indietro, con la diagnosi: Sano di mente (o quasi), i disturbi sono causati da un tipo di vita detentiva, quindi giustificabili da ciò, ma nonostante questo compatibili con il sistema carcerario.

Mancava solo che avessero aggiunto: arrivederci e grazie, al prossimo detenuto!!! Così che il magistrato, molto fiducioso dei pareri degli psichiatri carcerari (penale e psichiatrico giudiziario), decide di tenerlo dentro.

 

Vado a trovarlo, lui viene avanti ai colloqui che sembra uno zombie

 

Io vado a trovarlo, è sedato continuamente, è sempre in cella, viene avanti ai colloqui che sembra uno zombie, perde l’appetito, a volte fatica a camminare, non fa attività, con quella terapia in corpo non è in grado, gli stanno bloccando la sfera emozionale, molto spesso cambiano terapia, fanno cocktail, un poco di questo, un poco di quello, lui è nervoso e bloccato dentro di sé, dice che non dorme, probabilmente vuole riaprire gli occhi al suo fine pena, vedo che non ce la fa, la sua testa è come senza pensieri, fatica a parlare, le sbarre gli sono entrate nella mente, esco dai colloqui con la rabbia e il nervoso che mi divora.

Vorrei portare il magistrato qui nel carcere e fargli vedere quanto lui, il mio uomo, è compatibile con il sistema carcerario, visto che il medico lo ritiene compatibile e rischia di renderlo un vegetale, pur di fargli scontare la pena in carcere.

Nuova udienza, rimane un’altra speranza che subito dopo viene uccisa dallo stesso psichiatra, per lui è compatibile, niente detenzione domiciliare per il momento, forse una comunità chiusa. Ma pensate che lui, avendo me fuori, ci andrebbe, passerebbe da una detenzione carceraria, dove ha almeno la possibilità di vedermi, a una comunità dove mi vedrebbe molto meno? E perché poi, visto che sono più di tre anni che non fa uso di sostanze stupefacenti, solo per uscire dal carcere? Io lascio decidere a lui, anzi cerco di convincerlo a entrare anche lì pur di non vederlo così, ma lui niente.

Contatto quasi tutti i giorni il Sert, per trovare una soluzione intermedia, ma tutti sembrano avere un unico obiettivo, illuderti nell’aiuto sperato e parlare, parlare, parlare, parlare e intanto il tempo scorre; credo che i programmi Ser.T., purtroppo, siano condizionati dagli esiti di rigetto degli stessi, di programmi ambulatoriali non se ne parla, sono quasi tutti respinti. Lui fuori da quasi più di tre anni non si drogava, aveva bisogno di lavoro, e ironia della sorte, lo chiamano a lavorare dopo che era già in carcere. Assurdo ma vero. Stando rinchiuso, psicologicamente peggiora e basta, si annienta la mente e il corpo, rischia di perdere quello che aveva completamente recuperato, ma gli psichiatri del carcere hanno deciso che è meglio rinchiuderlo ancora di più. E anche se fosse lui a chiedere la "medicina miracolosa" che non gli fa sentire il dolore del carcere, acconsentire a uno scempio del genere non è da irresponsabili? forse il medico non sa che una persona può essere talmente satura di medicine che il cuore non ce la fa più e si ferma per sempre, o forse pensa che senza le medicine il mio uomo tenti il suicidio. È probabile, un depresso lo fa, ve lo assicuro, ma proprio per questo dovrebbero dargli gli arresti domiciliari e non tirare in ballo la storia dell’affidamento, che è difficilissimo riaverlo, ecc., ecc. . Il mio uomo non ha ucciso nessuno, si è sempre comportato bene, non è umano quello che sta vivendo, gli manca poco meno di un anno al fine pena, ma, se continua così, gli succede che muore mentalmente e diventa irrecuperabile o fisicamente cede.

C’è la protezione degli animali, la protezione degli ammalati, ma al detenuto chi ci pensa? Se ci pensa lo psichiatra del carcere, chi controlla le medicine che usa, la quantità? Se il mio uomo fosse compatibile con il carcere, non sarebbe preso in questo modo, non sarebbe imbottito di psicofarmaci, se stesse bene non vi avrei scritto, lui starà bene e rinascerà quando tornerà a casa, se non sarà troppo tardi. È un uomo in pena e non un uomo che sta scontando una pena, si lascia andare alla deriva, non lo riconosco più, cerco di svegliarlo dal suo torpore, ci sono tante volte che lui mi prende quasi sonno al colloquio, le mascelle inchiodate, mi arriva a piccoli passi al colloquio e con i pugni chiusi, irrigidito nel corpo e con occhi cerchiati di verde o quasi, e questo succede quando è al massimo della terapia, con il minimo (terapia serale) ha il dolore impietrito nel volto, sembra che abbia dieci anni in più. Non vi dico lo strazio, occhi sbarrati dalla paura di dovere rimanere ancora dentro, credetemi non so quale sia il male minore (o peggiore), si guarda intorno impaurito, sembra non avere altro che un grosso trauma nell’anima. Riesce ad amarmi e solo questo riesco a fargli dire dalla sua bocca, mi dice solo che mi ama e che vuole tornare a casa, per ritornare ad essere una persona, con dignità. E tutto questo dicono che è compatibile con il sistema carcerario. Questo uomo soffre troppo, di tutto, questo è il suo male, stare lontano da me, dalla sua famiglia, lo distrugge. Altre volte è stato in carcere, prima di conoscermi, e non si era mai ridotto così. Non vi aggiungo altro, sto male.

 

 

Carcere, misure e cure alternative, comunità

 

Su questi temi si è svolto a Milano, il 14, 15 e 16 marzo, un Convegno internazionale, organizzato dall’A.S.L. Città di Milano e dalla Società Umanitaria Fondazione Loria. Le note che seguono ci sono state mandate da Donatella Zoia, medico dell’Unità Operativa per le tossicodipendenze del carcere di San Vittore.

 

La prima osservazione sul Convegno riguarda la partecipazione, che è stata discreta, ma caratterizzata prevalentemente da persone e operatori che già prendono parte alla realizzazione di progetti o iniziative che hanno a che fare con il carcere. Sarebbe stato più costruttivo se la partecipazione fosse stata più ampia, soprattutto da parte di servizi territoriali che dovrebbero in ogni modo essere coinvolti di più (primi tra tutti i Ser.T., che, invece, sono stati presenti solo con pochi singoli operatori).

Fin dalle relazioni introduttive (Relazione del Dr. Paddy Costall, del Cranstoun Project, UK; Relazione di K. Van Duijvenbooden, Progetto GAVO, Olanda; Progetto "La cura vale la pena", Italia) i vari interventi hanno rilevato i vantaggi e la maggior efficacia di progetti trattamentali che si pongano come alternativa al carcere e che prevedano l’interazione di più soggetti (Tribunali; Forze dell’Ordine; Servizi Territoriali; Servizi e Associazioni non governative etc.), allo scopo di creare una rete di riferimento e di supporto per le persone con problemi di tossicodipendenza che commettono reati.

Nei Gruppi di lavoro si sono poi affrontati i temi dei trattamenti, sostitutivi e non, e della necessità di garantire terapie e trattamenti adeguati anche per le persone detenute. Si è rilevato come le proposte di terapia farmacologica siano necessarie soprattutto al momento dell’ingresso in carcere per trattare non solo i sintomi astinenziali ma anche il problema del "craving", e pertanto debba essere garantita una adeguata assistenza all’ingresso in carcere. È stata a tal fine presentata la bozza delle procedure per il trattamento metadonico nelle carceri della Lombardia, elaborate da un gruppo di lavoro interdisciplinare costituito a livello regionale.

In un Gruppo di lavoro è stato sottolineato come anche in carcere i trattamenti sostitutivi debbano essere integrati con il percorso trattamentale socio-assistenziale di reinserimento. A tale scopo è necessario realizzare una presa in carico multipla da parte dell’equipe trattamentale, che deve prevedere diverse figure professionali.

È importante poi ricordare che in carcere non bisogna limitarsi a offrire un supporto farmacologico ed un eventuale programma per l’uscita dal carcere, ma, non appena possibile, è necessario proporre trattamenti di tipo psicoterapico da realizzare, preferibilmente, attraverso esperienze di gruppo, perché il gruppo offre più facilmente spazi di mediazione, gioco, ironia, in un contesto di comunicazione tra pari, che permette di iniziare anche durante la detenzione un serio programma trattamentale. È quindi ancor più necessario creare una rete di servizi, affinché i programmi iniziati in carcere possano continuare anche dopo la scarcerazione e perché le figure di riferimento restino costanti per questi pazienti.

Un ampio spazio è stato dato, sia nelle sedute plenarie sia nei gruppi di lavoro, all’esperienza di agopuntura auricolare per il trattamento delle dipendenze (Acudetox). Si tratta di una terapia già molto utilizzata all’estero, sia in America (dove è nata) che in molti paesi europei che, dopo averla sperimentata, hanno attuato veri programmi di trattamento che prevedono, come base, anche l’auricoloterapia.

In Italia questo trattamento inizia ad essere utilizzato per alcune dipendenze, e al Convegno è stato illustrato il Progetto Pilota che si sta realizzando nel Carcere di San Vittore.

Sono state infine presentate le raccomandazioni europee per il trattamento dei tossicodipendenti detenuti, raccomandazioni che sono state elaborate nell’ambito della Conferenza Carcere e Droga del 1998 e che si chiede siano rispettate da tutti i governi europei.

 

 

Suicidi in carcere, un disastro annunciato

 

Annunciato, perché le condizioni di sovraffollamento, il disagio psichico sempre più diffuso, la paura di "non farcela" a ricostruirsi una vita rendono i detenuti soggetti pesantemente a rischio

 

di Francesco Morelli

 

Un suicidio ogni cinque giorni nel 2001, oltre 250 negli ultimi quattro anni. Questi dati non si riferiscono a una regione e nemmeno a una grande città ma ai detenuti nelle carceri italiane, dove ci si uccide con una frequenza 10 volte maggiore rispetto alla media nazionale.

Potrebbe sembrare scontato, visto che la detenzione comporta un tale impoverimento esistenziale (in termini di rapporti sociali, di autonomia personale e autostima) da rendere preferibile la morte, a volte, piuttosto che il trascinarsi di una vita così opaca. Niente di più sbagliato. Ad uccidersi non sono quasi mai i detenuti con le pene più lunghe, che verosimilmente avrebbero maggiori motivi per cadere nello sconforto; inoltre, il fenomeno dei suicidi ha assunto le attuali proporzioni soltanto dalla seconda metà degli anni ‘80, un periodo di particolare importanza nella storia delle carceri.

In materia di suicidi e autolesionismi l’Amministrazione penitenziaria ha emanato per la prima volta una Circolare nell’aprile del 1986, invitando i direttori delle carceri ad una maggiore vigilanza su questo fenomeno, che evidentemente iniziava ad essere preoccupante.

Il 1986 fu l’anno della legge Gozzini, che introdusse i permessi-premio e ampliò altri benefici penitenziari previsti dalla riforma del 1975. Questo provocò un cambiamento straordinario nella vita dei detenuti e, di conseguenza, in quella degli istituti di pena.

Prima di allora i rapporti erano basati unicamente sulla forza, quando i carcerati volevano ottenere un certo risultato (ad esempio il trasferimento di un direttore sgradito) facevano rivolte che lasciavano sul campo morti e feriti: tanto nessuno aveva da perderci…

I benefici, venendo concessi soltanto a chi si comporta bene, rappresentarono, tra le altre cose, anche un efficace strumento di controllo a livello collettivo: fu sufficiente la speranza di ottenerli per dissuadere i più dall’uso della violenza come metodo di rivendicazione.

Prima la rabbia e la violenza venivano spesso riversate sugli altri (non solo nelle rivolte, ma anche in scontri tra detenuti); dal 1986 in poi molte più persone cominciarono a sfogarle su di sé.

 

Col tempo i rapporti famigliari e affettivi si deteriorano

 

Diversi possono essere i motivi che spingono a questo atto estremo di ribellione alla sostanziale impotenza cui il carcere moderno costringe molte persone: il crescere vertiginoso del numero dei detenuti, il fatto che hanno cominciato a finire in carcere soggetti sempre più "deboli", come i tossicodipendenti, e negli ultimi anni tanti stranieri, il disagio psichico sempre più diffuso.

I suicidi sono diventati progressivamente un problema sempre più serio, tanto che nel dicembre del 1987 l’Amministrazione ha istituito il "Servizio nuovi giunti", avendo individuato nel periodo immediatamente successivo all’arresto quello a maggior rischio di atti autoaggressivi.

Questo Servizio, presente in tutte le carceri (almeno in teoria), si concretizza in un colloquio tra le persone appena arrestate e uno psicologo, che dovrebbe essere in grado di capire se queste persone corrono il rischio di uccidersi. Non sempre la previsione si rivela esatta, evidentemente, perché la maggior parte dei suicidi avviene appunto nei primi giorni di detenzione.

Va anche detto che, se pure lo psicologo si accorgesse che una persona è "a rischio", la sicurezza assoluta che non si faccia del male potrebbe ottenersi solo con il suo ricovero in una struttura psichiatrica, dove usano ancora i letti di contenzione e simili "accorgimenti". Nel carcere la precauzione solitamente adottata è rinchiudere questa persona in una cella liscia, un parallelepipedo senza nessun oggetto all’interno e nessun appiglio alle pareti. Ma anche in queste condizioni qualcuno è riuscito ad uccidersi, annodandosi attorno al collo una striscia di stoffa strappata dalla camicia. Sarebbe necessaria una sorveglianza ininterrotta, oppure togliere a queste persone anche la biancheria… ma non credo sarebbe questa la soluzione lo stesso.

Questi interventi, di tipo costrittivo, vanno possibilmente sostituiti dal sostegno psicologico alla persona. Sostegno che dovrebbe essere sempre presente, quale strumento di prevenzione, in particolare rispetto alle categorie di detenuti maggiormente a rischio: i tossicodipendenti, i malati, chi entra in carcere per la prima volta, etc.

Il "Servizio nuovi giunti" non garantisce poi la copertura di tutto il periodo della detenzione, superato lo shock dell’ingresso si presume che la strada sia tutta in discesa… ma a volte accade il contrario. Col tempo i rapporti famigliari e affettivi si deteriorano, se c’erano speranze di uscire presto si rivelano vane, sono tanti i motivi per i quali una persona detenuta può avere la tentazione di "farla finita".

Chiedere aiuto in modo esplicito agli operatori non è semplice (ammesso che uno voglia essere aiutato), anche perché la paura di essere ricoverati all’O.P.G. "per accertamenti" fa ormai parte dell’immaginario di ogni detenuto: chi è tornato da quei posti ne porta i segni per tutta la vita, a livello mentale.

Se ci fosse maggiore attenzione ai "messaggi" che una persona in difficoltà lancia, anche senza volerlo, forse si potrebbero evitare buona parte dei suicidi tra i detenuti.

Ma chi dovrebbe raccogliere queste richieste di aiuto? I medici… che spesso ti "visitano" in 30 secondi e poi ti prescrivono le solite "gocce per dormire" (più dormi, meglio è)? Gli operatori dell’area trattamentale… che sono pochissimi e vedono le persone una o due volte all’anno? Gli agenti… per i quali stai quasi sempre facendo la commedia? I compagni di detenzione… e poi loro a chi lo possono riferire?

 

 

 

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