Parliamone

 

Ritorno a casa 

 

Quando ti presentano il conto e la tua vita va in pezzi, poi arriva il carcere e un difficile percorso per ritornare a casa. Dove ti aspetta una figlia con la quale devi ricostruire tutto

 

di Patrizia

 

Ebbene sì, arrivano così i mandati di esecuzione, senza preavviso, sconvolgendo la vita ma non solo la tua. Per un reato del 1987 sono stata condannata in contumacia, assieme al mio compagno, a 6 anni di reclusione, così a distanza di 12 anni si sono aperte per noi le porte del carcere.

Cosa posso dire? È stato un male?

Ho riflettuto molto su queste due domande e con il tempo ho potuto rispondere a tutte e due.

Non viaggiavo molto bene in quel periodo (estate 1999), ogni tanto mi facevo di eroina e se sai di sbagliare, ma ti vergogni di chiedere aiuto, chissà dove puoi arrivare, così ho pensato che il carcere in un certo senso mi ha salvata. Il male è che ho dovuto lasciare una figlia di 6 anni e ho perso il lavoro. Al momento di andarmene la bambina non c’era, mia suocera aveva pensato bene di mandarla al mare, così, quando sono partita, né io né lei abbiamo subito il trauma della separazione.

Sono ricordi che non dimenticherò mai, ogni volta che ci penso arrivano le immagini e le sensazioni forti di quei momenti, sensazioni che ho provato solo alcuni giorni dopo l’arresto, perché quando ho lasciato casa non riuscivo a pensare a niente, ero come in trance, non ho nemmeno salutato mia suocera e mia sorella con un abbraccio, solo un ciao, come se dovessi tornare dopo poco tempo ... e invece ...

Arrivo in carcere a Udine, già lo conoscevo per esserci stata un paio di mesi in passato, ma non ci resto molto perché ho una condanna alta per un Circondariale, e così vengo trasferita a Venezia. Volevo farla finita, ecco la prima cosa che ho pensato, mi sentivo persa, fragile e avevo tanta paura, avevo le compagne che mi tranquillizzavano ma la mia fantasia galoppava, mi immaginavo chissà che carcere e invece ... mi viene da sorridere ora che ci penso.

Fuori ti fai un’idea che, se non hai l’esperienza o l’informazione corretta e reale, è di gran lunga lontana dalla realtà.

I primi mesi nel carcere della Giudecca sono stati un letargo, solo la mia mente era sveglia, sveglissima, io sono una donna che in ambienti che non conosco non parla molto, però sono riflessiva, valuto e peso le situazioni. Pensavo molto a casa, a mia figlia, alla famiglia e scrivevo, ho pianto anche ma mai davanti alle compagne, è una cosa che non sopporto, tutte hanno problemi e soffrono.

Poi ho smesso di prendere la terapia e ho avviato dei colloqui con quella che sarebbe stata la mia psicologa durante la permanenza in carcere. Lì ho cominciato a risvegliarmi, a prendere coscienza dei miei problemi, del mio passato e di dover fare qualcosa. Ho cominciato a lavorare e a conoscere l’ambiente che, mio malgrado, mi ospitava.

La cosa più difficile è stata telefonare a mia figlia, ci ho messo mesi prima di farlo, avevo paura di piangere e invece avrei dovuto rassicurarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, per lei il papà e la mamma erano via per lavoro e finché non avessi avuto la possibilità di dirle la verità, doveva rimanere così. È stata dura, molto dura, ma con l’aiuto della psicologa e delle mie sorelle che venivano a colloquio ce l’ho fatta, da quella difficile esperienza è scattata una molla che mi ha fatto crescere, maturare e responsabilizzarmi su quella che sarebbe stata, da allora in avanti, la mia vita, affrontare i miei problemi, le difficoltà anche quotidiane mi ha dato una forza che, senza il carcere, non credo avrei capito di avere.

Ho frequentato dei corsi che mi hanno aiutata a passare il tempo, ho ripreso in mano il mandato di esecuzione, il Codice di Procedura Penale e l’Ordinamento Penitenziario, mi sono cercata gli articoli che riguardavano il mio reato e ho cominciato a esaminare le varie possibilità per un reinserimento, una misura alternativa, le varie richieste, domandine, gli operatori a cui dovevo fare riferimento, mi sono documentata e ho partecipato alle attività che più mi stimolavano, come per esempio far parte della Redazione di "Ristretti Orizzonti", un’esperienza senza dubbio positiva, che mi ha fatto crescere, comunicare, confrontare e conoscere molti aspetti del carcere, delle persone che ci vivono e dei problemi che ci sono.

 

Quante volte ho immaginato come sarebbe stato il mio ritorno a casa

 

I colloqui con la mia famiglia, le lettere con il mio compagno e le telefonate a mia figlia mi hanno spinto a fare sempre meglio, certo i momenti brutti in carcere ci sono sempre e se non trovi un modo per sfogare la tensione, la rabbia, l’impotenza perché sei chiusa e più di tanto non puoi fare, puoi andare fuori di testa e diventare quello che in realtà non sei. In carcere vieni a conoscere i mille aspetti, le mille reazioni che l’essere umano ha dentro di sé. Ci sono problemi di convivenza, malumori per delle notizie ricevute, battaglie personali per tutto quello che non funziona all’interno di un Istituto, e se non trovi il giusto equilibrio il primo a rimetterci sei tu... sempre.

Quello che certamente mi ha aiutato è sapere che la famiglia stava bene, che mia figlia, nonostante tutto, cresceva bene e andava a scuola felice e con ottimo profitto, beh... queste sono le cose che ti fanno sperare in un futuro, in una vita fuori assieme a loro, e allora penso che quello che faccio per me stessa lo faccio anche per loro, per ritornare da loro.

Con il passare dei mesi si avvicinava anche la possibilità di accedere a una misura alternativa al carcere, avendo una figlia minore di 10 anni potevo ottenere la detenzione domiciliare, quante volte ho contato i mesi presofferti, preparato la richiesta di liberazione anticipata per lo sconto di pena (previsto nel caso di buon comportamento e partecipazione al trattamento rieducativo) e calcolato il periodo in cui avrei potuto presentare l’istanza! Ecco dove cominciano l’agonia e la tensione, ma anche la speranza e la voglia di riscatto e la fiducia, quando c’è la possibilità di raggiungere una meta, un obiettivo, quando c’è un qualcosa per te che ti aspetta fuori, e lo sai che meriti un’altra possibilità... speri!

Quante volte ho immaginato come sarebbe stato il mio ritorno a casa, l’abbraccio con mia figlia, come avrebbe reagito, e il percorso che avrei dovuto fare per riprendere quel rapporto affettivo interrotto più di due anni prima, ma la realtà come sarebbe stata? Insomma, si può lasciare una realtà, ma dopo qualche anno tante cose possono cambiare e se non ti tieni in contatto anche "dentro" con il "fuori" puoi trovarti disorientata, provare angoscia e terrore.

Sono uscita dal carcere prima di Natale, alla notizia mi è balzato il cuore in gola, la tensione e il nervosismo accumulati nell’attesa della risposta da parte del Tribunale si sono dissolti in un attimo e sono subentrate la felicità, lo stordimento, e in uno stato di agitazione ho cominciato a fare i bagagli. La cosa più difficile? Lasciare le compagne con cui, durante quel lungo periodo, avevo condiviso tantissimo, ma è inevitabile che succeda.

Arrivo a casa, non sento nemmeno il peso della valigia, cammino ma mi sembra di stare ferma, cerco di capire se chi mi aspetta a casa sta notando tutte queste mie sensazioni, mi sento persa e mi chiedo: "Cosa ci faccio io qui?". Ripenso a dentro e ho voglia di piangere... ma c’è lei che mi osserva dalla finestra, io però non me ne sono accorta, lo dirà lei più tardi alla nonna che mi ha vista arrivare. Salgo in casa e la vedo, un groppo in gola e gli occhi che bruciano, ci abbracciamo senza dire niente, non è molto a suo agio e per questo nemmeno io, mi osserva moltissimo ma non dice niente, io la guardo, le faccio qualche complimento, cerco di sciogliere quel misto di tensione e imbarazzo ma ho paura di dire o fare qualcosa di sbagliato, per fortuna che ci sono i miei suoceri…

Ho cominciato subito a sistemare casa perché non volevo pensare, avevo bisogno di un po’ di tempo, poi tra una cosa e l’altra è cominciato il dialogo tra me e lei, adesso va abbastanza bene e, sono sicura, andrà sempre meglio. Sono passati 2 anni e 5 mesi dal giorno dell’arresto e quello che ho pensato, sentito e imparato in quel periodo non lo dimenticherò di certo, ci sarà sempre qualcosa che mi farà ricordare quell’esperienza, il carcere sembra un mondo a sé, lontano, ma in realtà è molto vicino, fa parte della società, e ricordare può fare solo che bene, per me almeno è così.

 

 

In pochissimi l’hanno veramente aiutato
a tornare definitivamente libero

 

Gli ultimi anni di vita e di "semiprigionia" di Horst Fantazzini raccontati dalla sua compagna: sono un po’ la storia di tutti quelli che vivono con fatica le dure regole della semilibertà

 

di Patrizia (Pralina) Diamante

 

Volevo raccontare la mia personale esperienza, diciamo straordinaria poiché ho condiviso cinque anni della mia vita con una persona molto speciale: Horst Fantazzini, il "rapinatore gentile" che negli anni ‘60 era diventato una leggenda che riempiva tutte le pagine dei giornali, e che è morto tragicamente in carcere cinque giorni dopo il suo ultimo arresto, nel dicembre dell’anno appena trascorso. Un’esperienza però anche assolutamente ordinaria, perché simile a tante altre vicende umane e sociali di mogli e compagne di detenuti.

A partire dalla mia storia, si può allargare il discorso e capire che è un fatto più vasto, che riguarda tutti gli affetti vissuti in condizione di prigionia o di semiprigionia, o di "semilibertà" per usare un termine falso. Falso perché non può esistere una libertà spezzata in due, o la si concede senza condizioni, oppure è una trappola che può indurre una persona, specialmente se già provata psicologicamente da tanti anni di carcere, alla disperazione.

Conobbi quello che voleva diventare mio marito (ma non ci sono stati né il tempo né le condizioni per sposarci ufficialmente) cinque anni e mezzo fa, per corrispondenza. Eravamo entrambi appartenenti al movimento anarchico. All’inizio era un po’ uno scherzo, io redigevo una fanzine che si chiamava "Groucho fuma" (dalla poesia di Salvatore Salemi) e con l’amica Dada Knorr avevamo scritto un libro che s’intitolava "La nostra Idioma".

Lui, come spesso succede ai carcerati, ingannava il tempo leggendo, aveva persino conseguito una laurea in letteratura. Gli piacque il mio linguaggio ironico, demenziale, caustico, assolutamente folle, come diceva lui: "Tu giochi con le parole come se fossero stelle filanti, coriandoli colorati". Era affascinato dal mio modo di scrivere, e conosceva le mie doti come pittrice. Ci innamorammo quasi subito. Bene, per farla breve, anche lui che era pittore, grafico ed eccellente scrittore (nel 1976 Giorgio Bertani di Verona pubblicò il suo libro autobiografico "Ormai è fatta!" sui tragici fatti di Fossano del 23 luglio ‘73 (dai quali è stato tratto un film), e per quattro anni a partire dall’ottobre del ‘96 ci fu uno scambio colorato, folle, intensissimo di lettere, di disegni, di poesie, di ritagli di giornale, di fotocopie e quant’altro ci veniva in testa in quel momento...

Il carcere tende a sopprimere i colori, a fermare il tempo, a restringere gli spazi, ad annullare la personalità, a far regredire le persone ad uno stato di dipendenza assoluta, ad uniformare i comportamenti, ad esprimere regolamenti anche in campo affettivo, a separare gli amanti; quindi le nostre lettere erano abbastanza "strane" e talvolta provocatorie in un ambiente come quello, ma assolutamente necessarie per mantenere un contatto e restituirci un calore e una presenza l’uno dell’altra che ci mancava moltissimo.

Per anni le lettere e quelle poche e brevi telefonatine concesse, hanno sostituito la presenza quotidiana, hanno acceso le nostre fantasie erotiche, hanno significato una speranza di una vita libera, insieme.

Una volta o due al mese lo raggiungevo a colloquio, scoprendo un mondo che prima non conoscevo e che mi rimarrà impresso per tutta la vita.

Capivo o non capivo l’assurdità di certi regolamenti, che vietano di portare a colloquio questo e quello, non potevo cucinare per lui e mi adattavo solo per poterlo vedere e per non creargli ulteriori difficoltà. Nelle sale d’attesa incontravo tanti familiari, mogli, genitori e figli di detenuti, e cercavo di instaurare con loro un rapporto di cordialità e di gentilezza, perché li consideravo miei "compagni di sventura". Vedevo le loro difficoltà che non erano dissimili dalle mie.

Innanzi tutto per accedere a colloquio si sottostava ad una serie di pratiche burocratiche interminabili e ci facevano aspettare una vita, ma non potevamo tenere l’orologio una volta entrati in quel girone dantesco: il tempo era ed è in mano loro.

Il contatto troppo stretto era ed è tuttora vietato, per noi c’era sempre un tavolo oppure in certe carceri c’è addirittura ancora il muretto nel mezzo, ma come si fa a tenere due amanti separati? per un bacio in più "non regolamentare" si rischiava e credo si rischi ancora di venire espulsi dal colloquio. Tutto quello che potevamo concederci era "strappato" con la velocità e con l’astuzia, quando i controlli si allentavano un po’...

Con queste cose assurde, ma fatte apposta per fiaccare i parenti, per indurli a non andare più a trovare i propri cari, dato che la "droga" comunque entra lo stesso... abbiamo continuato per anni, e finalmente è arrivato un primo permesso.

All’inizio coi suoi permessi era un’euforia continua, eravamo felicissimi, pieni d’entusiasmo e di sana allegria, persino un po’ matti, ma davvero la gioia di poter fare l’amore finalmente era troppo grande !

Passavamo ore intere a coccolarci, a guardarci negli occhi, a studiare i nostri corpi, a sciogliere tensioni e rabbie, ad esprimerci una felicità incontenibile, grandissima, che gli altri tuttavia coglievano e ne erano persino imbarazzati... forse invidiavano un pochino la nostra irruenza, la nostra spontaneità, l’amore grandissimo che ci stavamo regalando. I nostri occhi brillavano come fuochi nel mare.

Ma i permessi erano un po’ come una vacanza alle Bahamas da quell’inferno, e quando arrivò con la "semilibertà" il lavoro esterno come magazziniere, Horst usciva alle sei del mattino per tornare dentro alle dieci di sera... all’inizio sembrava molto bello, in lui c’era molta curiosità e molta voglia di riscattarsi da una vita intera passata dietro le sbarre, di tornare ad una vita quasi normale da operaio "come ai vecchi tempi" in mezzo alla gente di Bologna, la sua bella città; di recuperare l’affetto dei figli, di dimostrare che "poteva farcela", di sistemare la sua casa, di riunirsi a me e a mio figlio Chicco; poi sopraggiunsero delle difficoltà enormi.

 

Una delle rare notti che dormimmo insieme sognò d’essere in cella

 

Il ricatto di dover tornare ogni sera alle dieci era sopportabile all’inizio, poi diventò una trappola, una spada di Damocle sulla testa che gli pesava moltissimo, che non lo faceva dormire, che gli dava un tormento enorme. Era anche molto stanco e debilitato a livello fisico, il lavoro non era proprio il massimo; credo che fosse provato da tanti anni di carcere anche duro, in condizioni estreme. Nei decenni passati, in seguito ai fatti di Fossano aveva subito vari interventi chirurgici, era uscito da due tentativi di suicidio, da un coma e da un feroce pestaggio all’Asinara.

Aveva dei problemi di salute abbastanza seri che non manifestava per paura di tornare in carcere (ai semiliberi non è concesso il diritto di curarsi fuori, non hanno nemmeno il diritto di avere un medico di famiglia).

Questa sua situazione era di particolare disagio sia per lui che per me, per la gravità della sua posizione giuridico-carceraria (aveva un Fine pena calcolato intorno al 2.017), ma credo che si possa paragonare ad altre situazioni di semiliberi che si ricongiungono coi loro cari.

Le nostre poche ore giornaliere insieme erano condizionate da questo ricatto, e le persone che aveva intorno, i figli, gli amici o coloro che si spacciavano per amici, non riuscivano a capire questo nostro stato d’animo. Non siamo stati molto fortunati e le persone che abbiamo avuto intorno non erano proprio dei mostri di sensibilità.

In poche ore di libertà "concesse" è difficile ed alla fine impossibile viversi qualsiasi cosa in modo tranquillo, spesso eravamo costretti ad accavallare tempi, appuntamenti, interessi, ma la vita sociale, della quale aveva bisogno, non si conciliava con i nostri momenti d’intimità. Stare con gli altri; sistemare la casa, accudire un cane, andare a fare la spesa, uscire fuori o stare in casa da soli, a letto, a fare l’amore: non era possibile di viversi tutto insieme contemporaneamente. La smania in lui cresceva. Crescevano anche le mie insicurezze. La dipendenza dall’istituto del carcere era tale che una delle rare notti che dormimmo insieme, nell’ultimo periodo, sognò d’essere in cella. Era sempre più stanco e sempre meno motivato a continuare una vita in condizioni durissime.

Forse tentò una rapina per questo, o per dimostrare a se stesso e al mondo di non essere una persona finita, perché era ribelle per natura, il figlio di un anarchico leggendario che negli anni ‘20 sparava ai fascisti o perché ingenuamente sperava di farcela e avrebbe avuto più soldi per noi, dato che il Natale era alle porte e Bologna già scintillava di luci e traboccava di doni...

Horst ribelle, anarchico, bandito ? Rapinatore per una tensione di libertà, o prigioniero di un mito ? Mi diceva sempre: "Sono stanco di fare il martire, ho sopportato troppa galera".

Sta di fatto che molti ci "ricascano" e poi ritornano dentro. Ributtando i loro cari in un tormentone senza fine. La galera è anche un po’ per noi che viviamo il carcere come l’estremo ricatto sulla nostra vita.

Molti dicono che andare dentro è più facile che restare fuori. E di certo, vivere l’affettività con una persona detenuta è difficile, ma forse con una persona in semilibertà è ancora più difficile. Si dovrebbe concedere la libertà piena, completa, e se ci sono dei problemi dare a queste persone la possibilità di curarsi, non per restituirle alla "normalità" ma perché siano veramente felici.

A parte le considerazioni politiche e sociali, sul fatto ad esempio che "in carcere ci vanno solo i poveracci" (come scrissi per il suo funerale, avvenuto il 29 dicembre scorso) il carcere è un’istituzione classista per eccellenza, nel carcere non troverete mai una sola persona che veramente conti: la legge non colpisce mai le persone ricche o gli uomini di potere, poiché è fatta su misura per loro...

Sono convinta che se Horst avesse avuto più tempo da dedicare al nostro rapporto senza altre persone negative intorno, ed a progetti di lavoro gratificanti che oltretutto conosceva bene (grafica, computer e scrittura), sarebbe stato meglio, si sarebbe sentito maggiormente realizzato, meno umiliato, e forse non avrebbe tentato l’impossibile.

Molti parlando a vanvera (poiché non conoscevano Horst) hanno giudicato questa vicenda, tirando somme approssimative, tirando l’acqua al loro mulino o speculando politicamente sul suo gesto o addirittura sulla sua morte, in pochissimi l’hanno veramente aiutato a tornare definitivamente libero.

Sto scrivendo un libro su tutta la vicenda. C’è del rosa, ma anche del giallo e del nero. Un punto interrogativo sull’epilogo tragico di quest’uomo.

Restano per me amare considerazioni sulla vita di questa persona in particolare, ma anche sulle condizioni che abbiamo vissuto, e che vivono i detenuti e i "semiliberi" con le loro famiglie...

Un caro saluto alla redazione di "Ristretti Orizzonti" e a tutte le famiglie che hanno a cuore la condizione dei loro cari "ristretti".

 

 

 

Le celle scoppiano. Di donne

 

Gran Bretagna: un terzo carcere maschile riconvertito per far fronte al "record" di detenute

 

Il direttore delle carceri inglesi, Martin Narey, ha annunciato ieri che una terza prigione maschile dovrà essere convertita e trasformata in carcere femminile. Questo perché il numero (un record, ha sottolineato Narey) delle detenute sta aumentando rapidamente. Attualmente, su 68.357 detenuti, le donne sono 4.045. Un numero record appunto, o "semplicemente incredibile" come ha detto ancora Narey.

(…) Nel rapporto pubblicato dall’associazione "Nacro, Women Behind Bars" (donne dietro le sbarre) si cita il fatto che quattro detenute su dieci rischiano di rimanere homeless una volta uscite dal carcere e si sottolinea l’inutilità di punizioni detentive per la stragrande maggioranza delle donne attualmente dietro le sbarre.

"Sono donne - scrive Nacro - che saranno pesantemente segnare dall’esperienza anche una volta fuori dal carcere perché manca quasi totalmente quel sostegno vitale a reinserire le detenute nella comunità, ad aiutarle a trovare lavoro, casa, a ricostruirsi una vita".

Per Nacro se "questo governo è davvero intenzionato a combattere l’esclusione sociale e a prevenire il crimine, allora deve cominciare a creare iniziative all’interno delle comunità".

 

Da Il Manifesto, 28 novembre 2001

 

Chi entra in carcere da emarginato uscirà da escluso

 

di Francesco Morelli

 

La mancanza di "sostegno vitale" dopo il carcere, nella difficile fase del reinserimento, è quello che rende spesso pesante la condizione dei detenuti, in Inghilterra come anche in Italia e un po’ ovunque. È il futuro del dopo carcere che a volte spaventa, più del presente del carcere. La riflessione che segue è dedicata esattamente a questo, alla difficoltà, per uomini e donne detenuti, di fare previsioni sul proprio futuro.

 

Il "coraggio" di pensare al futuro

 

Ci sembra di pensare fin troppo a questo "benedetto" futuro: riempiendolo di tanti progetti, verosimili o meno; parlandone a volte con sicurezza spavalda… forse per esorcizzare la precarietà, che è onnipresente nella vita in carcere.

Proviamo, allora, a fare un bilancio sui ventitré numeri di "Ristretti": quanti sono gli articoli pubblicati che parlano del nostro passato, quanti del presente e quanti del futuro? Quelli del "terzo tipo" sono davvero pochi, anche perché è più facile raccontare le storie vissute, piuttosto che impegnare fantasia e disciplina in costruzioni astratte ma ragionevoli.

Ma sul futuro scriviamo poco anche per un altro motivo, perché significherebbe dover analizzare con serietà il presente, i problemi attuali e quelli che dovremo affrontare all’uscita dal carcere. L’ammettere che "fuori" ci aspettano delle difficoltà, più o meno grandi, rappresenta un passaggio fondamentale del nostro personale percorso di consapevolezza, ma rappresenta anche una ferita per il nostro orgoglio (o addirittura una caduta d’immagine, per qualcuno).

Purtroppo l’esperienza mi insegna che i compagni pieni di certezze sul proprio futuro sono spesso i primi a mettersi nuovamente nei guai dopo la scarcerazione, a volte anche in tempi rapidissimi: qualcuno torna dentro; altri muoiono, per droga o "sotto lavoro" (in sparatorie); altri ancora scompaiono chissà dove. La casistica sarebbe abbastanza numerosa ma, forse, è superflua, perché di vicende del genere ne conosciamo molte tutti quanti.

Il carcere, essendo la nostra realtà quotidiana, è vissuto come Il Problema, giustamente direi, a patto che non si dimentichino i problemi, le contraddizioni, le situazioni che ci hanno condotto qui. Non per fare "riesami critici" (quelli li chiede l’istituzione, semmai), ma perché durante la detenzione dobbiamo sviluppare la lucidità e le risorse personali necessarie a risolvere quelle stesse difficoltà, che immancabilmente ritroveremo all’uscita dal carcere.

Chi entra in carcere da emarginato uscirà da escluso, perché la separazione forzata indebolisce i rapporti sociali e le relazioni che pure resistono assumono connotazioni patologiche: di attaccamento insensato, di possessività, di dipendenza, e così via.

Chi è entrato povero uscirà poverissimo, dovrà misurarsi con i problemi della sopravvivenza, dovrà trovare l’umiltà di chiedere sostegno e sperimentare anche qualche ingiustizia, perché le persone "socialmente deboli" diventano facilmente vittime dello sfruttamento di quelle "socialmente forti". Questo vale per tutti, uomini e donne.

La condizione delle donne detenute ed ex detenute richiede, poi, delle ulteriori riflessioni. La prima si riallaccia all’inchiesta sulle "famiglie dentro", che abbiamo realizzato quest’estate sia a Padova sia alla Giudecca: vicino a una donna detenuta molto spesso c’è la figura "negativa" di un uomo, che ha avuto un peso determinante nelle sue scelte e, infine, nei suoi guai con la giustizia.

Anche se i numeri su cui ragioniamo sono piccoli, la percentuale che se ne ricava è chiara: le donne detenute, con un compagno anch’egli in carcere, sono sei volte più numerose rispetto agli uomini detenuti che hanno una compagna carcerata.

Viceversa, gli uomini detenuti che hanno fratelli o genitori in carcere sono molto più numerosi delle donne: l’influenza negativa della nuova famiglia che si forma con il proprio compagno è quindi prevalente nelle donne, quella della famiglia d’origine è prevalente negli uomini.

A questo punto è necessario chiedersi se l’uscita dal carcere e il reingresso nella società comporti difficoltà sensibilmente differenti tra le donne e gli uomini.

Il secondo spunto di riflessione viene da un articolo del "Manifesto" che si occupa della detenzione femminile in Gran Bretagna dicendo, tra le altre cose, che quattro donne detenute su dieci rischiano di restare homeless quando usciranno dal carcere.

Un’indagine simile sarebbe opportuna anche in Italia, mi pare, perché dalla rilevazione del problema si arrivi anche a programmare interventi adeguati: infatti noi dobbiamo fare la nostra parte, mettendoci tutto il nostro impegno, ma anche gli altri soggetti sociali devono fare la loro parte. Se il problema è la particolare debolezza, sociale e personale, delle donne ex detenute, il territorio deve produrre azioni di sostegno specifiche: l’attivazione di consultori, il coinvolgimento in momenti di rilevanza culturale per l’intera collettività, insomma dei progetti mirati ad una reintegrazione globale delle persone, non soltanto al loro reinserimento lavorativo, insufficiente a garantire una qualità della vita accettabile.

 

 

 

La grande fuga dall’Est

 

Oggi tutti sono disposti ad ascoltare le storie di donne-schiave redente e salvate, ma sono tante le donne che hanno scelto consapevolmente di liberarsi in fretta dalla miseria, anche prostituendosi

 

di Aleksandar Stefanovic

 

La testimonianza di Aleksandar è "dura" perché, di questi tempi, non è molto facile dire: le donne che arrivano dall’Est per prostituirsi molto spesso lo fanno consapevolmente. È più facile pensare che siano tutte schiave, ma è più onesto misurarsi con la realtà, e cercare di capire cosa succede davvero, lasciando da parte i moralismi e le storie edificanti. Le schiave ci sono, senza dubbio, le donne costrette a vendersi anche, ma la vita è sempre più complicata delle favole. E allora, qualche volta, è meglio dire come stanno le cose: che tante ragazze dell’Europa dell’est scelgono di battere le strade delle nostre città perché sanno che è la via più dura, ma anche la più veloce per uscire in fretta dalla miseria. Torniamo a parlarne perché pensiamo che non tutte queste donne, forse, vogliono essere "salvate", ma che a tutte va offerta una alternativa alla strada.

 

La Redazione

 

Negli ultimi anni il problema della prostituzione viene trattato insistendo, con un senso di forte allarmismo, sulla questione delle donne-schiave tenute prigioniere e sfruttate dai loro protettori. E tutto questo si basa soprattutto sulle testimonianze delle ragazze più sfortunate, sulle indagini della Polizia, sui racconti di chi (associazioni, amministrazioni pubbliche etc.) si occupa di queste donne, e tutto sembra scritto da un unico giornalista o regista. La storia viene spesso accettata e venduta sotto forma della favola triste delle Cenerentole del nuovo millennio, poiché questo approccio fa comodo alla società, mentre quasi nessuno mostra interesse per la vera natura del fenomeno.

Io vengo da un paese dell’Est europeo e ho una certa conoscenza del mondo della prostituzione, e ritengo che sarebbe ora di dire qualche parola di verità in più.

È senz’altro vero che alcune di queste ragazze sono state portate via dal loro paese con l’inganno e, dopo una serie di maltrattamenti, sbattute sul marciapiede, ma credo vada chiarito che si tratta di una minoranza, mentre per la maggior parte le cose stanno così: la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo e l’arrivo della democrazia hanno trasformato la classe media borghese dei paesi dell’est in una cosa incomprensibile ed inspiegabile per la gente della ricca Europa occidentale. In poche parole, una buona fetta di popolazione si è trovata nelle condizioni che non le consentivano di acquistare il pane e il latte quotidianamente, per non parlare di altre cose meno necessarie, ma sempre importanti. I paesi come Ucraina, Romania, Moldavia e le parti della ex Jugoslavia distrutte dalla guerra sono stati colpiti in modo particolarmente duro. Basti pensare che un salario mensile valeva fino a poco tempo fa 10.000-15.000 lire.

Gli investitori provenienti dall’occidente, soprattutto dall’Italia, potevano così acquistare a buon prezzo le fabbriche fallite, assicurando agli operai qualche briciola in più rispetto alle aziende pubbliche, ma tutto questo non permetteva un tenore di vita decente. Loro, gli stranieri, avevano portato però il sogno americano, sogno di una bella vita, e tutti cominciavano a parlare del denaro facile che si poteva guadagnare in Europa, che calcolato nelle valute locali suonava come una cifra astronomica.

Tutto questo ha spinto al grande esodo. La prima ondata verso l’occidente era composta da donne di una "certa esperienza" nel campo. La stragrande maggioranza è venuta in Italia per un semplice motivo: la legge del mercato. Dopo pochi mesi molte tornavano con delle valige gonfie e una quantità di denaro inimmaginabile per i comuni mortali. Questo ha spinto anche le cosiddette "ragazze per bene" a pensare che partendo per un certo periodo, dimenticando la vergogna, l’educazione cristiana, la famiglia, avrebbero potuto tornare con una base economica sufficiente per iniziare una vita "normale".

 

Un’industria ben collaudata per andarsene dalla miseria dell’Est

 

Il fenomeno nel frattempo aveva cominciato a mostrare un aspetto imprevisto: molte di queste ragazze non tornavano, scomparivano oppure finivano come cadaveri sfigurati, storie tragiche per le quali la Polizia non trovava quasi mai un colpevole. Questi fatti hanno contribuito alla comparsa di gruppi di maschi, provenienti dalla stessa miseria, che vedevano la possibilità di un guadagno facile offrendo loro una protezione dai clienti violenti, organizzando i viaggi all’estero e l’ingresso nel paese per il quale occorreva un visto. Quasi tutti venivano in Jugoslavia per procurarsi i documenti, poiché grazie ad essi ottenevano lo status di profughi, allontanando così il pericolo di espulsione. Una città vicino a Belgrado, di nome Pancevo, era diventata un vero e proprio centro di reclutamento per le ragazze e i ragazzi, cosiddetti body guard, provenienti quasi esclusivamente dalle fila di ex sportivi, che nel vero senso della parola dovevano proteggere le ragazze, salvando molte volte le loro vite.

Bisogna anche dire che l’aggravarsi della crisi economica faceva aumentare il numero di persone interessate ad andarsene all’estero. Ovviamente la parte del leone apparteneva a coloro che organizzavano queste donne e trovavano loro un "posto di lavoro" (un pezzo di marciapiede di una delle metropoli europee), con la garanzia di non essere disturbate nella loro attività. Vedendo la possibilità di enormi guadagni (media di un milione al giorno), vedendo che a volte c’erano anche clienti che offrivano il matrimonio e la salvezza, molte di loro hanno deciso di voltare pagina.

Alcune poi sporgevano denunce alla Polizia, a volte basate su storie almeno in parte inventate, ottenendo in cambio il permesso di soggiorno. Così evitavano l’obbligo di versare la somma concordata prima della partenza dalla miseria (leggi: paese d’origine), dalla quale da sole non sarebbero mai potute uscire. Una volta sistemate tornavano ad esercitare il mestiere, dopo aver cambiato città, poiché potevano contare su una certa esperienza e spesso anche sulla protezione di qualche poliziotto in cambio di qualche favore. In carcere finivano sempre pesci piccoli, mentre i veri capi restavano e restano tuttora fuori dalla portata delle reti della giustizia, grazie soprattutto alla corruzione ben radicata nei paesi dell’est. A fianco di storie di violenza e sfruttamento, c’è dunque anche una realtà molto diversa, una vera e propria industria, ben collaudata, nella quale le parti conoscono bene le proprie posizioni, anche perché il livello di istruzione delle ragazze dell’Est europeo è molto spesso elevato, e quindi la storia dell’inganno nella maggior parte dei casi è da scartare. E poi è umano, è comprensibile che pochissime di loro accetterebbero di lavorare in condizioni pesantissime, faticare e logorarsi per una cifra alla quale possono arrivare in un solo giorno.

 

 

 

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