Storie

 

Solitudine che taglia come una lametta

Quando esplode la disperazione. Tre racconti sull’autolesionismo, tre storie di “ordinaria desolazione” carceraria, in cui chi non ce la fa usa il suo corpo per parlare della propria sofferenza

 

testimonianze raccolte da Mohamed Ali Madouri

 

A me, che sono tunisino, al mio paese hanno sempre raccontato che è in Egitto, negli anni ‘70, che le prime persone di razza araba e di religione musulmana cominciano a tagliarsi il corpo. Siamo in uno dei quartieri più poveri di Alessandria, quando i poliziotti arrivano con un autobus e con un altoparlante offrono lavoro agli uomini disoccupati. È una trappola, perché gli uomini che vanno agli autobus si ritrovano prigionieri ai lavori forzati, senza nessuna paga se non il misero cibo per la sopravvivenza. Qualche giorno più tardi un uomo si taglia le vene per non lavorare e gli altri lo imitano. Da quel momento, pian piano la consuetudine si diffonde anche negli altri paesi arabi. In carcere sono tanti i detenuti che si tagliano. Per capire meglio i motivi più profondi che li spingono a questi gesti, ho raccolto tre testimonianze di uomini che, per un motivo o per l’altro, in carcere si sono autolesionati.

 

Ezzeddine è un tunisino, emigrato 23 anni fa, e che ha conosciuto bene l’Italia di allora e quella di oggi

 

I primi anni in cui sono arrivato in Italia mi sentivo come se fossi a casa mia. Una volta gli italiani erano molto più umani e buoni di cuore. La gente era contenta di parlare con noi, era molto facile inserirsi nella società italiana. Venti anni fa non c’era tutto questo traffico di droga, tutta questa criminalità. Gli stranieri erano pochi, ma soprattutto noi africani eravamo pochissimi, per questo la gente di allora era affettuosa e aperta con noi. Dal lontano 1982 e fino al 1997 ho lavorato, anche se in nero. Ho lavorato come muratore, imbianchino, ferraiolo, saldatore e falegname. Mi sono sempre trovato bene, guadagnavo abbastanza, la mia vita era semplice e in più c’era mio fratello che lavorava in una cooperativa e mi dava una mano per andare avanti se non ce la facevo.

Poi conobbi una ragazza tossicodipendente. Mi impegnai e mi presi cura di lei, accompagnandola ogni giorno, per tre mesi di fila, al Ser.T., fino a quando uscì dal tunnel della droga. C’eravamo ripromessi di realizzare una vita semplice e serena, volevamo costruire una famiglia come tutte le altre, quello era il nostro programma futuro. Ci riuscimmo con le nostre forze, perché tranne mio fratello nessuno ci aiutò. Le cose andavano sempre bene, anche dopo la nascita del nostro bambino, che ci portò molta felicità e serenità… Ad un certo punto successe però che entrarono nella nostra vita mia suocera ed una sua amica, che volevano strapparmi la mia ragazza e mio figlio. E lei, stressata dalle continue insistenze di sua madre, incapace di far valere la sua volontà, cedette ed una sera, quando tornai a casa dal lavoro, non trovai nessuno. Soltanto un bigliettino con sopra scritto: “Vado via ma torno fra tre giorni”. La chiamai sul telefonino ma era spento, quindi chiamai mia suocera che mi rispose di non sapere nulla e chiuse la comunicazione.

Aspettai fino al giorno successivo senza ricevere nessuna notizia. A quel punto andai in questura e denunciai l’inspiegabile scomparsa della mia famiglia, e lasciai anche le loro foto ai poliziotti. Le cose andarono avanti così per un mese intero, fino a quando un giorno i poliziotti mi invitarono in questura. Andai di corsa e mi informarono che mio figlio e la mia compagna erano in una comunità, senza però fornirmi alcuna indicazione su come rintracciarli. Proprio in quel periodo mi era arrivato un invito dal Tribunale per i minorenni di Venezia: mi presentai all’udienza, il giudice, una donna, mi domandò che cosa volessi. “Voglio la mia famiglia”, risposi. Mi fu detto di trovarmi un lavoro ed avrei così potuto riunirmi con la mia compagna e nostro figlio, e quando obbiettai che un lavoro e anche una casa già li avevo, sentii pronunciare solo un “adesso vediamo…”.

Proprio quando la situazione pareva risolversi, feci un incidente in moto che complicò tutto. Una brutta ferita ad una gamba, per la quale fui sottoposto anche ad un intervento chirurgico che comportò oltre un mese di ricovero ospedaliero. La mia ragazza veniva a trovarmi tutti i giorni, mi fu molto vicina, e in quel letto d’ospedale le parlai di tutto quello che avevano messo in opera sua madre e la sua amica per separarci. Una volta dimesso tornai a casa assieme a lei. Andavamo spesso a parlare con l’assistente sociale, con la speranza di vedere nostro figlio e stargli vicino. Lei ogni volta ci diceva che si sarebbe risolto tutto, ma la sofferenza alla gamba mi impediva di lavorare e ogni giorno vedevo che l’impegno che io e la mia ragazza dimostravamo non serviva a nulla. Cominciò una strada in salita, le cose iniziarono a peggiorare, mi assalì l’incubo di non vedere mai più mio figlio, e fui preso dalla disperazione di perderlo per sempre. Mi ero infilato in un mare di sofferenza e di malinconia.

L’immagine di mio figlio era sempre nei miei occhi, e andò a finire che, con l’illusione di dimenticare il dramma che mi stava capitando, per estraniarmi da quella dura realtà, mi buttai sulla droga. Le cose andarono avanti così per otto mesi, fino a quando mi arrestarono e mi condannarono a un anno e otto mesi di arresti domiciliari, e dopo tre mesi mi portarono in carcere. Qualche giorno fa mi sono “tagliato”, ho bevuto candeggina e ho anche tentato di impiccarmi. L’ho fatto perché mi manca mio figlio, non faccio altro che pensare a lui. Mi hanno tolto la cosa più bella e più preziosa che ho mai avuto. Da mio figlio dipende la mia felicità o la mia sofferenza… Quando ho tentato il suicidio ho pensato spesso, sia prima sia dopo essermi salvato, che con quel gesto avrei fatto crescere mio figlio senza la mia presenza, senza suo padre. Però l’ho fatto comunque perché sono disperato e stufo di questa vita spietata, vedo tutto buio. Mi sono trovato in una marea di problemi, da solo, ma il mio cuore è più piccolo di tutto ciò. Il mio cervello non mi dà tregua, non vuole cancellare l’immagine di mio figlio nemmeno per un attimo. Fino ad oggi non ho nessuna sua notizia, spero che non passi ancora molto tempo perché la solitudine mi sta davvero ammazzando…

 

Asir Mohamed è un ragazzo tunisino pieno di tagli, “tutti per motivi differenti”, racconta lui

 

Nel lontano 1985, quando avevo 15 anni, mi trovavo nel carcere minorile di Bosco Marengo, in provincia di Alessandria. Eravamo in sei di nazionalità marocchina e facemmo una rissa con dei ragazzi italiani. In seguito a questa lite, per evitare altri scontri, ci divisero in due piani diversi, ma nonostante la precauzione i problemi non erano terminati. Ogni volta che per qualsiasi motivo ci incontravamo, ricominciavamo nuovamente a litigare. Qualche giorno più tardi, dopo che demmo fuoco alle celle, la direzione ci punì con l’isolamento. In isolamento avvertii forte la solitudine e la mancanza dell’affetto familiare di cui ha particolarmente bisogno un quindicenne: preso dalla disperazione, per la prima volta mi feci del male, provocandomi dei grossi tagli nelle cosce.

La seconda volta che mi tagliai risale al 1987, ed avvenne a casa mia in Tunisia. Mi ero innamorato di una ragazza che a mia madre non piaceva, lei mi diceva in continuazione di non frequentarla, ma io ero pazzo di questa ragazza. L’insistenza di mia madre mi stressò al punto che un giorno, stravolto dalla rabbia, presi una lametta e mi tagliai le braccia. Da quella volta mia madre mi lasciò in pace e… quella ragazza divenne mia moglie! Le cose in Tunisia non andavano bene: oramai mi avevano arrestato un sacco di volte, anche per cose che non avevo commesso. Agli interrogatori mi tagliavo per evitare le botte e le torture dei poliziotti. Finii in ospedale parecchie volte. Tanti altri ragazzi si tagliavano dalla rabbia di aver subito un torto e di non poter reagire, o anche per aver ricevuto una brutta notizia e persino per il tradimento della propria ragazza o della propria moglie. Ma in carcere ci si taglia soprattutto per disperazione e per solitudine.

 

Cristiano, infine, è uno dei pochi italiani che ha dei tagli in qualche parte del corpo. Lo chiamo “marocchino” perché l’autolesionismo è tipico dei nord africani

 

Nel 1993 mi arrestarono con l’accusa di omicidio per aver picchiato a morte un ragazzo del mio giro, del mondo della tossicodipendenza. Questa accusa era partita dal gestore di un bar che aveva visto il ragazzo vivo per l’ultima volta salire nella mia auto, che tutti conoscevano perché abitavo in un piccolo paese. Quando mi hanno arrestato, per il pericolo di inquinamento delle prove mi hanno isolato completamente. Mi sono ritrovato da solo in cella, con il terrore di essere condannato per un omicidio che non avevo commesso, e con la disperazione del fatto che la persona uccisa, oltre che essere un mio caro amico, era anche un amico dei miei familiari.

Pensare a sua madre, e anche ai miei genitori e agli amici, mi faceva stare molto male. Ero veramente provato, ero isolato da tutto e da tutti. Non potevo nemmeno guardare la televisione per svagare almeno un po’ la mente, non potevo ricevere posta né effettuare neppure i colloqui con i miei famigliari, mentre in quel momento avrei avuto molto bisogno di gridare ai miei cari, e a tutti quelli che mi conoscevano, che ero innocente. Preso dalla disperazione decisi allora di “tagliarmi” per poter attirare l’attenzione di qualcuno. Ma anche così facendo non riuscii comunque a far sentire la mia voce. Le ferite che mi procurai furono del tutto inutili, perché mi ritrovai di nuovo in cella con la consapevolezza di non aver risolto nulla. Mi sono rimasti soltanto tutti i tagli che mi ricordano sempre quanto funzioni poco la giustizia italiana, parlo per me, ovviamente, perché tre mesi dopo venne riconosciuta la mia innocenza, per la quale sto ancora combattendo per ottenere un risarcimento dei danni, fisici e morali.

Non mi sono mai pentito di essermi “tagliato”, anche se non so nemmeno io perché l’ho fatto. Forse perché mi sono trovato in una situazione dove mi sono reso conto che per il sistema non ero niente, non contavo nulla, per il sistema ero colpevole e dovevo essere condannato e basta. Per questo, quando guardo questi tagli, penso sempre che non devo mai mettermi nella situazione in cui mi possono incolpare di qualcosa, e mi tornano in mente quei giorni interminabili vissuti con la paranoia e la paura di passare il resto della mia vita in carcere per responsabilità altrui.

 

 

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