Sprigionare gli affetti

 

Diverso amore

Pregiudizi duri a morire. Il coraggio di parlare della propria

omosessualità, e la consapevolezza che la condizione di un gay

è ancora più penosa dietro le sbarre che altrove

 

di Guido Conti

 

Ci vuole coraggio, a parlare di omosessualità in carcere e a farlo partendo da se stessi. Ci vuole coraggio, perché il carcere è un luogo in cui mostrarsi maschi è a volte una forma di difesa, un modo per sentirsi più forti e per avere ancora del potere. è un luogo in cui resistono tanti pezzi del passato: l’idea della famiglia intoccabile, delle donne con poca autonomia personale, degli uomini tutti d’un pezzo. è per questo che è importante rompere certi tabù, e affrontare temi considerati “scabrosi”. Guido Conti, detenuto di San Vittore (ora lavora all’esterno) lo fa senza mezze misure, con grande sofferenza e con la consapevolezza però che la sincerità aiuta a farla finita con certi luoghi comuni, con certi piccoli razzismi, con certe insopportabili forme di emarginazione, ancora più insopportabili perché messe in atto da chi si lamenta di essere a sua volta emarginato.

 

Qualcuno potrebbe pensare che la condizione di omosessuale in carcere sia meno afflittiva di altre: in fondo non si soffre della mancanza di rapporti con l’altro sesso, o si soffre meno, e proprio questa mancanza negli altri a volte potrebbe tornar utile al raggiungimento di obiettivi che in altre situazioni sarebbero impossibili. La gente troppo spesso reputa la sessualità altrui in modo grossolano, facendola scadere quasi a livello bestiale. Ho sentito dire che la “mancanza” in qualche modo bisogna pur riempirla, per cui in certe condizioni è facile lasciarsi andare a comportamenti lascivi, “contro natura”: tutta una vulgata su questo registro è fin troppo nota, tanto da passare alla fine per veritiera.

Invece, contro l’immaginario distorto della peccaminosa mentalità popolare, la condizione di un gay è ancora più penosa dietro le sbarre che altrove, al limite della sostenibilità. Dovete sapere che il carcere rimane uno degli ultimi baluardi del maschilismo vecchia maniera, quello fascista e violento per intendersi, e chiamarlo “da caserma” sarebbe un appellativo fin troppo soft. Qui gli omosessuali non sono solo emarginati, si trovano piuttosto a vivere una condizione subumana, da reietti, confinati in sezioni protette con gli infami, i violentatori, i pedofili: cioè al pari di tutte le categorie che sono trattate come appestati. La direzione delle carceri di norma separa gli omosessuali per precauzione; sostiene di farlo per la loro sicurezza. In realtà, così facendo, avalla un modo di sentire che con gli anni non è minimamente cambiato, come invece è avvenuto in genere nella società civile. In carcere gli omosessuali sono riconosciuti in primo luogo e senza dubbio per il loro aspetto nel caso dei transessuali o dei travestiti, povere creature che anche dietro le sbarre ancora ostentano i connotati di una femminilità esagerata fino alla caricatura. Sono inoltre identificati perché nella gran parte dei casi il loro reato è legato all’ambiente omosessuale, come per la prostituzione, arresti a causa di liti violente degenerate nel penale tra coppie di genere, tragedie in famiglia a seguito di un’identità spesso rifiutata o combattuta.

Per chi invece, come me, entra in carcere per un reato comune, e non ha alcun particolare nell’aspetto o nella voce che lo denuncia come tale, conviene non dichiarare mai la propria inclinazione sessuale, se non si vuole finire in uno di quei gironi infernali ai quali accennavo prima. Facendo così invece ci si trova insieme a tutti gli altri “normali”, nella speranza di poter scontare la propria pena in una situazione più dignitosa, se non altro non peggiore di quella di tutti gli altri, con le stesse possibilità di studio, lavoro, ricreazione o quant’altro il carcere possa saltuariamente offrire. Detto così sembra facile, in realtà non lo è affatto; anche in un caso come il mio nel quale non mostro affatto mosse, vezzi o tic delle mie inclinazioni, quelli che per capirsi piacciono tanto ai registi dei B movie tipo Il vizietto, si vive sempre nel terrore di essere smascherati. Si ha per esempio paura di incontrare prima o poi in carcere qualcuno che ci conosceva da prima e che sapeva. Si ha paura di tradirsi involontariamente: così non si riesce mai a lasciarsi andare, e si sta sempre in guardia.

 

Il sesso si può chiudere fuori dalla porta, ma l’amore no

 

Nelle carceri le battute, i lazzi e le scimmiottature dei comportamenti “da checca” non sono all’ordine del giorno, ma quasi del minuto, con un’insistenza che almeno all’inizio mi sconvolgeva. A volte qualche battuta sagace indirizzata a me mi faceva d’un tratto precipitare nel panico: che se ne fossero accorti? Mi sembrava di essere diventato di cristallo, e che tutti potessero vedere come ero veramente. Allora cercavo di darmi un tono per riprendermi e rispondere sullo stesso tono, di portare avanti lo scherzo, anche se la voce mi tremava e non avevo affatto lo stato d’animo per la canzonatura. Dovevo comunque stare al gioco, e devo dire di esserci riuscito molto bene, che io sappia nessuno ha mai nemmeno sospettato qualcosa; ma questo allora non potevo saperlo, e il dubbio e l’ansia mi consumavano. Sono arrivato al punto da farmi un po’ schifo: io per primo spesso facevo battutacce sugli omosessuali, ma lo facevo proprio per esorcizzare le mie paure. Questa giustificazione evidentemente non mi bastava, che tutto ciò fosse una difesa non compensava la mia ipocrisia: il mio è un segreto con il quale non è facile convivere a lungo. A volte mi capitava quasi di invidiare quei disgraziati che vivevano tra loro nelle sezioni protette; almeno a loro, anche se all’inferno, era concesso di essere se stessi, a me no. Ogni scelta ha il suo prezzo, io dovevo pagare il mio, ed era un conto amaro.

Non sono mai arrivato al punto di perseguitare qualche omosessuale assieme al branco della popolazione detenuta come spesso avviene nel caso ne venga scoperto uno: quando qualcuno viene beccato con le mani nel sacco (che allegoria!) in galera scatta subito una severa lezione che viene impartita dal basso. I rei di atti contro la morale e il protocollo maschilista, cazzuto e intransigente, dei veri machi duri determina un severo castigo fatto di botte e umiliazioni ai rei, più il loro immediato allontanamento dalla sezione e dal consorzio malavitoso. Così accade: io mi identificavo troppo con le vittime per poter intervenire in qualsiasi modo, nemmeno per placare gli animi e fare in modo che almeno il pestaggio risultasse meno violento. Ero così terrorizzato di potermi un giorno trovare in quelle stesse condizioni da preferire di gran lunga la rinuncia ad ogni costo: non ci potevo nemmeno pensare di espormi a rischi del genere per una soddisfazione così fuggevole.

Il guaio è che ci si innamora: ho scoperto a mie spese che il sesso si può chiuderlo fuori dalla porta, non pensarci, o cercare di pensarci esclusivamente nella più completa solitudine, ma l’amore no, l’amore è un sentimento che ha una forza dirompente anche in persone prudenti come me, molto prudenti direi. Per di più capita all’improvviso, e quasi sempre verso persone nei confronti delle quali non si avrebbe alcuna speranza, nemmeno in condizioni diverse. Mi sono innamorato di un mio compagno di stanza; ovvero sono riuscito a farlo venire nella mia stanza perché già mi interessava da morire e volevo conoscerlo meglio, ma è stato un atto sconsiderato, un gesto di autentico masochismo: mi sono costruito da solo l’inferno e poi mi ci sono chiuso dentro. Lui è un ragazzo meraviglioso, tenerissimo, ma inguaribilmente etero, adesso me ne rendo conto, ma la persona innamorata si culla di illusioni, si ciba di speranze impossibili.

Per lungo tempo ho cercato di interpretare dei suoi gesti, delle sue piccole attenzioni nei miei riguardi come segni di una sua corrispondenza sentimentale. Purtroppo erano solo miraggi, fantasie, parti di una mente stregata da un fascino irresistibile. Avrei fatto qualsiasi cosa per un suo sorriso, ciò malgrado non mi sono mai lasciato trascinare dai miei sentimenti in atti concreti: anche in questo caso ho continuato a sostenere la mia parte. Infatti il nostro rapporto era di amicizia nel senso di amicizia virile, so che lui è mio amico, e so anche quanto per certi versi mi ammiri, quanto mi rispetti, quanto mi voglia persino bene. è proprio per questo che è ancora più difficile per me anche semplicemente sperare di poter un giorno avere un altro tipo di rapporto con lui: da una parte mi sembrerebbe quasi di tradire la sua fiducia.

Lo conosco troppo bene, so che se gli dicessi apertamente quello che provo per lui, dopo un primo momento di sorpresa e d’incredulità, mi odierebbe. Sì, arriverebbe ad odiarmi perché interpreterebbe in modo sbagliato tutto quello che ci siamo detti, tutto quello che ci siamo confidati in lunghe notti passate al buio a parlare in maniera diversa. Ho troppi bei ricordi del tempo passato con lui per pensare solamente per un attimo di rischiare tutto ciò. Nella vita normale non si parla, ci si dicono magari molte cose, ma non si dialoga più veramente. Solo il carcere dà il tempo, il luogo, lo stato d’animo e la concentrazione per aprirsi veramente all’altro. Lui si è aperto con me, mi ha raccontato tutto di se stesso, anche particolari imbarazzanti, scabrosi, cose che in genere non si dicono a nessuno. Io evidentemente non l’ho fatto, ovvero l’ho fatto, ma fino ad un certo punto, fino a dove potevo farlo. Tutto questo lui non lo capirebbe, già lo so, non può capirlo perché non sa quanto io lo ami.

La bellezza del rapporto che ho costruito con lui che è parecchio più giovane di me è proprio il mio castigo e la mia dannazione. Sono prigioniero di un ruolo che mi sono costruito nella fantasia, ma nel quale ho fallito, e che ha finito per trasformarsi in un’altra cosa, bellissima, ma nello stesso tempo crudele. L’abitudine alla menzogna e al trasformismo questa volta mi è costata cara. Sono riuscito a gabbare sempre tutti, e alla fine è toccato anche a me. (Testo pubblicato su “Baci rubati”, dal sito www.ildue.it)

La fatica di non essere “normali”

L’impossibilità di avere rapporti sessuali con una donna non significa automaticamente che ci siano molti più uomini che hanno rapporti tra loro. Ma quando succede, facciamo in modo di non restare attaccati a una certa “cultura” carceraria piena di disprezzo per gli omosessuali

 

a cura della Redazione

 

Forse qualcosa è cambiato anche in carcere, rispetto al modo di considerare gli omosessuali, ma non diamolo troppo per scontato: in realtà, circola ancora un atteggiamento di sospetto, e non a caso la discussione nella nostra redazione è nata quando due detenuti sono stati “trovati” a fare sesso, e gli altri detenuti, i “normali”, hanno voluto invece affermare la propria lontananza da fatti di questo genere. Ma in ogni caso l’occasione è stata buona per cominciare a parlarne e a rompere qualche tabù.

 

Elton Kalica: Vorrei aprire la discussione partendo da un episodio successo qualche giorno fa, quando due detenuti sono stati trovati mentre facevano sesso nella loro cella. Mi piacerebbe che riuscissimo a capire meglio il perché di questi comportamenti, e poi vorrei che emergesse il fatto che, a differenza di quello che il mondo esterno crede, qui in carcere storie così non succedono tutti i giorni, ma quando succedono se ne parla, magari si prendono le distanze, e però queste persone si cerca anche di comprenderle. È vero però che quello che hanno fatto è un’infrazione del regolamento carcerario, e quindi ci sarà anche una sanzione. E c’è il rischio che questi due prima o poi, oltre alla sanzione, possano prendere delle botte da qualcuno, perché ci sono anche parecchi detenuti che non tollerano questo tipo di comportamenti. Io personalmente faccio parte di quella categoria che tollera invece tutto dicendo: finché non mi vengono vicini possono fare ciò che vogliono.

Ornella Favero: Ma tu Elton, tu ti sei chiesto davvero perché vuoi che ne parliamo? Non è che vuoi “salvare l’onore” dei detenuti insistendo sul fatto che questi casi sono isolati?

Elton Kalica: Sì, un po’ sì, ma non è per salvare l’onore, è per rendere giustizia a quella che è la vera realtà carceraria. Sono otto anni che vivo in carcere e in questo posto non esiste questa omosessualità diffusa, ed è un argomento che ho affrontato anche con chi viene dall’esterno. L’idea sbagliata, da cui partono tante fantasie, è che in un luogo dove sono costrette a vivere molte persone dello stesso sesso sia naturale che tra di loro ci siano anche delle relazioni di tipo sessuale. Una persona libera può stare un anno ed anche di più senza avere rapporti sessuali con una donna, vuoi perché è sfigata vuoi perché si dedica ad altre cose, e nessuno dice niente. Invece un carcerato no, deve per forza fare sesso col suo compagno di cella. Io confesso che prima potevo anche avere un certo affetto per un uomo, un amico, ma oggi, dopo questi anni di galera dove ho conosciuto i loro pregi e i loro difetti, devo dire che ho finito per odiare gli uomini. Se fossi costretto ad innamorarmi di un essere che non sia una donna, di certo non sceglierei un uomo, piuttosto una bambola gonfiabile.

Ornella Favero: Non è che il fatto di vivere in costrizione e non poter avere un rapporto con una persona dell’altro sesso ti faccia diventare omosessuale: intanto distinguiamo l’omosessualità dalla scelta di avere rapporti sessuali con persone del proprio sesso, e chiediamoci se e quanto sia diffuso in carcere il praticare il sesso tra uomini o tra donne perché sei costretto a farlo dalle circostanze. Io noto una volgarità rispetto all’omosessualità che è molto pesante tra i detenuti e a volte forse anche tra gli agenti. Prima di tutto quindi voglio che prendiamo le distanze da questo atteggiamento, dalle prese in giro, dal fatto di voler far vedere a tutti i costi che si è maschi.

Altin Demiri: L’atteggiamento di ostilità che c’è verso queste persone dipende dal fatto che continuano a comportarsi come se non fosse successo nulla, come se fosse tutta una montatura. Gli omosessuali dichiarati, quelli non avrebbero simili problemi, perché tutti sanno già le loro preferenze sessuali e li lasciano tranquilli a stare tra di loro.

Elton Kalica: Io non ho nessun pregiudizio verso gli omosessuali. Ho già avuto un omosessuale nella cella di fronte alla mia, non siamo diventati amici ma di certo non l’ho mai odiato. Continuo però a rimanere critico verso tutti quelli che credono che il carcere sia come un luogo di orge e altre semplificazioni simili.

Paolo Moresco: C’è da sfatare quel mito lì, sinceramente io ho trovato il carcere molto più “casto” di quanto lo immaginassi. Ma c’è da sfatare anche il mito di chi viene sorpreso a fare sesso e viene trattato come un lebbroso ed isolato da tutti gli altri.

Gianfranco Gimona: Neppure io ho dei pregiudizi nei confronti degli omosessuali, ma quando venni arrestato ricordo che ero preoccupato proprio perché sentivo quello che si diceva fuori del sesso in carcere. E poi la cosa brutta è che queste persone le abbiano messe alla gogna un po’ tutti.

Paolo Moresco: Una cosa che è successa nella mia sezione, e va nel senso totalmente diverso, è che ci sono state delle persone dichiaratamente omosessuali, tutti lo sapevano, tutti ne parlavano, tutti ne scherzavano senza mai esagerare. E queste persone erano abbastanza integrate, tranne due o tre volte che alcuni detenuti mezzi ubriachi le hanno aggredite verbalmente rinfacciandogli queste cose.

Gianfranco Gimona: Io ho riflettuto parecchio sulla sessualità, e mi ricordo che quando mi sono costituito mi chiedevo cosa avrei fatto senza una donna per sei anni, poi con il passare del tempo mi sono accorto che cala il desiderio e non c’è più quella morbosità nei miei pensieri. Gli interessi spingono su altre direzioni.

Ornella Favero: Il discorso di fondo è che l’impossibilità di avere rapporti sessuali con una donna non significa automaticamente che ci siano molti più uomini che hanno rapporti tra loro. Mi ricordo che anche con le donne detenute ne abbiamo parlato e loro dicevano che sono poche le donne che fuori avevano relazioni esclusivamente con uomini e in carcere hanno avuto una storia con una donna. Certo però qualcuno o qualcuna può anche scoprire nuovi interessi. Mi viene in mente un romanzo ironico e intelligente di uno scrittore americano, dove ci sono due genitori separati e il padre un bel giorno dice al figlio che vive con un uomo e che lo ama. Comunque sono d’accordo che c’è da sfatare l’idea che se un uomo non può fare sesso allora si butta su un altro uomo, e una donna con un’altra donna. Mi pare che la cosa sia molto più complessa. Io mi sento di condannare soltanto la violenza di chi impone a uno più debole di avere un rapporto sessuale, e questo succede qualche volta.

Elton Kalica: La verità è che qui in carcere in questi ultimi anni tutti stanno attenti al modo di comportarsi e ci si abitua a vivere senza pestare i piedi agli altri, poi certo ci sono anche quelli esaltati che appena vengono a sapere che uno è gay vanno e lo prendono a pugni. Ma questa è l’eccezione. La regola è il quieto vivere.

Flavio Zaghi: Ma davvero può esserci una denuncia per atti osceni in luogo pubblico? Di quale luogo pubblico si parla se la cosa è successa in cella?

Ornella Favero: Io non credo che li denunceranno, ma comunque la cella è considerata purtroppo un luogo pubblico e di conseguenza, se uno ha un rapporto sessuale in cella, può essere accusato di atti osceni in luogo pubblico.

Lorena Orazi (responsabile dell’area pedagogica): In realtà, non è facile decidere che via seguire, come si può configurare questo fatto, se come un reato oppure appunto come una semplice infrazione. Perché in realtà episodi del genere si sono verificati pochissime volte, e si è trattato per lo più di violenze, quindi si è configurato il reato di violenza carnale. Mentre in questo caso non si è rilevata nessuna violenza, perciò finora non si è fatta l’ipotesi di un reato.

Ornella Favero: Comunque l’aspetto penale interessa poco. Quello che più interessa è l’atteggiamento in carcere nei confronti di queste persone, ma è anche importante capire se il fatto che in carcere nel nostro paese non sono concessi colloqui intimi con le proprie compagne può spingere qualcuno ad avere rapporti sessuali con un altro uomo.

Paolo Moresco: C’è da aggiungere però che in carcere non arrivano adolescenti ma persone mature, che quindi si sono già formate in un certo modo e difficilmente modificano i loro comportamenti solo per le condizioni ambientali in cui vengono a trovarsi.

Affrontiamo però anche un’altra questione: spesso si sente parlare di violenza in carcere, quindi è interessante capire se e quanto sia diffusa la violenza a fini sessuali.

Sandro Calderoni: Io giro per le carceri da vent’anni e vi dico che non ho mai visto episodi di violenza sessuale.

Lorena Orazi: Ma un conto è la violenza vera e propria, e un altro l’uso di forme diverse di pressione o di persuasione. Io ricordo di aver sentito che, negli anni Settanta, c’erano persone in carcere che si passavano tutti i nuovi arrivati. è certo che si sono verificate anche situazioni, dove il rapporto sessuale nasce come oggetto di scambio: in realtà in questi casi non c’è violenza fisica vera e propria, ma “persuasione”. Se tu non hai niente altro da dare in cambio, può anche succedere che uno dia delle prestazioni sessuali, e non credo che in questi casi si parli di omosessualità nel vero senso della parola.

Elton Kalica: Ma io penso che anche in quei casi comunque si tratta di omosessuali, perché se uno compra le sigarette a un altro per avere delle prestazioni sessuali, un po’ dell’omosessuale c’è in lui, sicuramente è qualcosa che si porta da fuori. Per esempio io non cercherei mai di pagare un altro uomo così, anche perché c’è un fatto fisiologico da considerare: a me è la donna che dà certi stimoli. Perciò, se uno riesce ad avere un rapporto significa che è attratto da persone dello stesso sesso.

Marco Rensi: Una volta nelle carceri la regola era semplice e chiara: se uno faceva una cosa del genere veniva picchiato e mandato via dalla sezione. Ma anche fuori gli omosessuali erano visti male. Oggi il carcere è cambiato nello stesso senso della società fuori. L’omosessualità non viene vista più con la tragicità di una volta, proprio perché anche chi entra in carcere adesso ha un’altra mentalità. Non fa più parte della vecchia malavita e non conosce le vecchie regole.

Ornella Favero: Io non sono d’accordo che la società fuori corrisponda del tutto a quella dentro. Prima di tutto perché qui si tratta di una società maschile, anzi forzatamente maschile. È vero che trovi le persone tolleranti e quelle non tolleranti sia fuori che dentro, ma l’ambiente conta molto, e qui ci sono solo uomini. Un’altra considerazione la faccio sulle differenze culturali. La differenza tra la mentalità del nord e del sud Italia è evidente, soprattutto in carcere. Uno dei primi numeri di Ristretti nel 1998 era dedicato all’affettività, e ricordo che in redazione c’erano tante persone del sud che sostenevano che in carcere l’omosessualità non esiste, e queste cose tra uomini non succedono. Ecco, anche Elton ha proposto questa discussione dicendo di approfittare di questo insolito episodio, successo qui tra due detenuti, per far capire a chi ci legge che sono solo casi isolati. Forse perché in paesi come l’Albania c’è un modo di vedere l’omosessualità che assomiglia a quello che c’era e in parte c’è ancora soprattutto nel nostro sud.

Elton Kalica: In Albania, durante il comunismo l’omosessualità era reato, quindi nelle carceri loro, gli omosessuali, ci sono sempre stati. Inoltre nelle carceri albanesi c’è sempre stata una forma detentiva che non separava i detenuti, un sistema creato nell’ottica dello Stato proletario che recupera i devianti attraverso il lavoro. Perciò non vi era una distinzione tra detenuti comuni, collaboratori di giustizia, violentatori e omosessuali, ma andavano tutti a lavorare insieme dove erano assegnati: miniera, agricoltura, costruzione di strade. Mentre una certa discriminazione vi era nella vita normale, cioè fuori dal carcere, dove la nuova società escludeva gli omosessuali in quanto li considerava contagiati dai vizi tipici dei feudatari ottomani, che avevano i loro harem di ragazze e ragazzi: una morale del tutto contrastante con quella rivoluzionaria. Certo oggi può giocare un ruolo fondamentale la differenza culturale. Nell’ambiente carcerario qui in Italia se uno va con un uomo o lo costringe con la forza e poi dice di non essere omosessuale, non gli crede nessuno. Agli occhi di tutti rimarrà un frocio. Mentre non è così nei paesi anglosassoni: ho letto di recente che nelle carceri americane dei criminali incalliti, e molto rispettati nell’ambiente della malavita, violentavano i nuovi arrivati però non si consideravano omosessuali e non c’era nessuno che gli andava a dire niente.

Paolo Moresco: Io sto riflettendo un attimo e mi dico: è il carcere che concentra delle culture di questo genere o che cos’è? La liberazione sessuale in Italia c’è stata 25-30 anni fa, parlo di cambiamenti culturali importanti, ciò non significa che ognuno abbia davvero vissuto questi passaggi, e che non ci siano ancora aree di arretratezza. Quello che mi chiedo è se qui in carcere non si trovino maggiormente che fuori atteggiamenti più arretrati, di gente che la pensa in maniera così rigida. Ma è una mia sensazione o è veramente così? Perché se è così vuol dire che probabilmente ci sono una serie di caratteristiche delle persone che commettono reati, che indicano una cultura chiusa, ancora legata al passato.

Posso abbracciare mia madre solo al telefono

La difficoltà di mantenere vivi i rapporti affettivi. Dopo tanti anni di galera si finisce per “perdere” i sentimenti provati per le persone amate

 

di Altin Demiri

 

Mi trovo in carcere da oltre undici anni, e ho perso tutto. Oggi voglio scrivere due righe sull’affettività in carcere, e non nascondo un certo disagio. Nella redazione di Ristretti Orizzonti in cui lavoro il vittimismo è proibito, ma questa volta la vittima è reale, sono io, e la mia esperienza obbliga l’articolo a seguire un percorso fatto di un ripetersi di lamenti provenienti da privazioni e da difficoltà. Da dieci anni telefono a casa ogni settimana, e ogni volta l’attesa trasforma la settimana in un tempo interminabile, ma poi la lunga ansia puntualmente viene ripagata. Quando il centralino del carcere mi collega con casa e il telefono squilla, alzo la cornetta: le mani mi tremano, cerco di comprimere l’emozione della voce, ma dalla bocca escono ogni volta le stesse due piccole parole: “Ciao mamma”. Le conversazioni con mia madre sono sempre piene di emozioni arricchite di ricordi.

In realtà sono io a prendere l’iniziativa raccontando le mie giornate, e per tranquillizzarla le spiego di quanto sia in salute e di come il carcere italiano sia una specie di albergo. Le dico che non mi manca niente all’infuori della libertà, poi aspetto che mia madre mi dica qualcosa, ma spesso l’attesa è inutile. La sento solo piangere, perché sa che mento. Non poche volte ho pensato di rinunciare alla telefonata: non ce la faccio a sentire mia madre piangere e soffrire per la mia mancanza, ma poi capisco che non sono le mie telefonate a ferirla e so che se non la chiamassi lei soffrirebbe molto di più. L’unico modo che ha per abbracciarmi, e per baciarmi, è il telefono. È la nostra lontananza senza speranze, ed è l’inevitabilità della separazione obbligata che la fa disperare. Per capire i disagi e le mancanze, le proibizioni, devi vivere l’ambiente carcerario.

È terribile come il carcere annulli ogni forma di affetto nell’animo delle persone detenute, ma anche dei propri familiari. Dopo tanti anni di carcere “perdi” i sentimenti che provavi per le persone che hai amato, per i famigliari e per gli amici, e poi, con il passare degli anni, non riesci più nemmeno a costruire o mantenere un rapporto con persone nuove, che possono essere i cugini che crescono o i nipoti che nascono. Forse un giorno uscirò, e dopo tutti questi anni di solitudine mi troverò abbandonato, senza niente e nessuno con cui stare, e sarà come se mi trovassi su un nuovo pianeta, e con tutto da riscoprire sugli affetti. È senz’altro giusto che un uomo paghi l’offesa che ha recato alla società, e la punizione consiste nell’essere privato della libertà, isolato, con l’impossibilità di muoversi nella comunità libera, ma è disumano vedersi privati dell’abbraccio di una madre o del bacio di una moglie. Ancora oggi la società ignora che l’offesa e l’umiliazione e la perdita della dignità, che il carcere procura, sono spesso superiori al danno che le persone incarcerate hanno causato alla società. In undici anni di carcere ne ho visti tanti di padri, detenuti per reati non gravi, perdere i propri figli, la propria compagna, ho sentito molte famiglie rovinate, e se questo la società lo ritiene utile al reinserimento… io non lo comprendo.

Ancor più grave si rivela la situazione dei detenuti stranieri che non sanno più cosa sono gli affetti, perché trovano difficoltà anche con le cose più elementari come il comunicare telefonicamente con le proprie famiglie, in quanto l’apparato burocratico impone un labirinto di procedure che implicano dei tempi lunghissimi d’attesa, mentre i colloqui sono quasi impensabili, in quanto i problemi economici e logistici sono pressoché proibitivi. Le rare volte che una famiglia è in grado di affrontare le spese per viaggiare verso l’Italia a trovare un proprio caro detenuto, non riesce, o fatica enormemente, ad ottenere l’autorizzazione dal consolato italiano del proprio Paese, che pretende un lungo elenco di requisiti per il rilascio di un visto turistico. Ma anche il riuscire ad avere il visto d’ingresso non pone fine ai problemi, in quanto poi in Italia non è facile orientarsi e sistemarsi nei pressi del carcere se non si conosce la lingua o qualcuno disposto a dare una mano.

Dopo tutto questo tempo trascorso in galera credo che gli affetti non si possano più recuperare. Dopo tanti anni d’isolamento e di sradicamento sarà senz’altro illusorio anche solo pensare di essere “adeguati” ad affrontare la vita fuori, e quindi il rientro in famiglia. Ora purtroppo so fin troppo bene cosa significa essere lontani dal suolo natio, e dagli affetti, essere preda dell’ansia, della nostalgia, in un carcere che raccoglie tremendi vuoti affettivi, che abbrutiscono l’animo umano.

Figli senza diritti

Un convegno a Milano fa il punto sui legami familiari feriti dalla reclusione. Un’iniziativa dell’associazione “Bambini senza sbarre”, che aiuta i detenuti di San Vittore a recuperare il loro ruolo genitoriale. E ora cerca di mettere in rete le esperienze analoghe in tutta Italia e di incoraggiarne di nuove

 

di Emanuela Zuccalà

 

Quando sostiene che “a trent’anni dal nuovo Ordinamento penitenziario ci troviamo di fronte a un reale fallimento del trattamento dei detenuti”, Maria Pia Giuffrida, della direzione del Dap, si riferisce soprattutto alla salvaguardia dei legami familiari delle persone recluse. In particolare al rapporto con i figli, “una questione che noi operatori penitenziari abbiamo delegato al volontariato”, rincara, “senza riflettere su ciò che invece dobbiamo e possiamo fare noi, visto che siamo tutti d’accordo su un punto: la famiglia può incoraggiare grandi cambiamenti di vita, in chi ha commesso un reato”. Era proprio “Carcere e diritti dei figli”, il tema al centro del convegno internazionale organizzato in dicembre a Milano dall’associazione “Bambini senza sbarre”, che dal 1998 è presente nei penitenziari del capoluogo lombardo per sostenere genitori e figli con colloqui individuali e una preparazione psicologica agli incontri.

“Vorremmo costituire una rete nazionale di associazioni per lavorare sulla genitorialità in carcere, sul modello della federazione francese “Relais Enfants Parents””, ha spiegato Lia Sacerdote, coordinatrice di “Bambini senza sbarre”, che già partecipa al network europeo “Eurochips” e preme sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché riconosca l’importanza del tema. Anche attraverso iniziative che richiamino l’attenzione dell’opinione pubblica, come il convegno di dicembre. “Si tratta di mettere al centro l’interesse dei figli”, ha proseguito Lia Sacerdote: “Il lavoro di sostegno al genitore detenuto ha una ricaduta decisiva sul benessere del bambino. Noi ricordiamo ai padri e alle madri che, nonostante la carcerazione, possono, anzi devono, continuare a esercitare il loro ruolo. E ci battiamo perché genitori e figli possano incontrarsi fuori dal carcere: avevamo avviato un progetto a Milano, vicino al carcere di San Vittore, nelle sale del Museo della scienza e della tecnica, ma purtroppo non è decollato”.

Forse manca proprio un input istituzionale. Basta entrare nelle sale-colloquio di tante galere italiane (voci che rimbombano e inibiscono qualsiasi autentico dialogo), per dedurre che ci si preoccupa poco dell’impatto che questo luogo avrà su bambini e adolescenti. Eppure gli esempi di buone prassi non mancano, in Europa. Lucy Gampbell, coordinatrice dell’organizzazione londinese “Action for Prisoners’ Families” e membro di “Eurochips”, durante il convegno ha raccontato cosa è avvenuto in Gran Bretagna: “Nel Piano nazionale per ridurre la recidiva, il nostro governo ha individuato una strada privilegiata proprio nel mantenimento della relazione genitoriale dei detenuti. Una via per renderli più responsabili, ma anche una chiave per ridurre la violenza nelle carceri. In Scozia, per esempio, ogni penitenziario ha un funzionario che si occupa solo dei contatti tra i detenuti e i loro parenti”. Altri tentativi di non recidere i legami familiari arrivano dai Paesi nordici e dalla Spagna: “In Germania”, ha chiarito Lucy Gampbell, “i detenuti possono chiedere permessi speciali proprio per stare in famiglia. In Danimarca si rimanda l’esecuzione della pena finché non si trova una sistemazione adeguata per i figli del condannato.

In Norvegia, una legge stabilisce che ogni carcere deve creare stanze apposite per le visite dei bambini. E in Spagna, il Paese europeo con la maggiore percentuale di madri dietro le sbarre, sono concesse visite private ai bambini”. In Italia, Lucy Gampbell ha lodato l’esperienza della ludoteca del carcere di Bollate, dove i figli dei detenuti sono accompagnati dai volontari di Telefono Azzurro, ma - ha poi sottolineato Maria Pia Giuffrida del Dap - “manca un censimento nazionale di queste iniziative, così come delle condizioni di vita nei nidi nelle nostre carceri. Abbiamo appena avviato un monitoraggio, c’è ancora molto da lavorare”.

 

Quello che non funziona nella legge sulle detenute madri

 

Se in Europa si stima che oltre ottocentomila persone abbiano un genitore in cella (è un’ipotesi, visto che nessuno Stato si preoccupa di elaborare questa statistica), in Italia sarebbero oltre ventunomila i detenuti con uno o più figli (gli ultimi dati ufficiali sono del 30 giugno 2005), ma lo stesso Dap ammette che si tratta di un’approssimazione per difetto.

E poi c’è la questione delle donne, che fa storia a sé per complessità e difficoltà di trovare concrete misure di sostegno alla maternità: delle 2.858 detenute in Italia (il 4,8 per cento della popolazione carceraria), 1.575 sono madri, e 45 di loro sono recluse nelle sedici sezioni-nido insieme ai loro figli, che lasceranno il carcere al compimento dei tre anni. La legge Finocchiaro, la numero 40 dell’8 marzo 2001, prevede che le madri con figli minori di dieci anni finiscano di scontare la pena agli arresti domiciliari o in strutture d’accoglienza, ma anche di questa norma forse è ormai ora di constatare il fallimento. L’ha suggerito la stessa deputata diessina Anna Finocchiaro, che al convegno di “Bambini senza sbarre” ha raccontato come, insieme a Leda Colombini dell’associazione “A Roma insieme”, stia cercando di modificare la legge per renderla finalmente applicabile. “Abbiamo presentato un progetto di riforma”, ha spiegato, “che tocca alcuni punti che in questi anni si sono rivelati controversi.

Innanzitutto bisogna cambiare l’inciso che individua nel “concreto pericolo di commissione di reati” un ostacolo all’applicazione della legge 40. Sappiamo che, di fronte alle detenute rom, i giudici raramente se la sentono di concedere gli arresti domiciliari proprio per il rischio che tornino a delinquere. E sappiamo che spesso la detenzione domiciliare non viene accordata perché le detenute madri non hanno un’abitazione e le strutture d’accoglienza non ci sono: vogliamo quindi tentare di realizzarle, queste case, e anche se la legge 40 non ha una copertura finanziaria, in fondo si tratta di una spesa minima, le detenute madri sono davvero poche. Cercheremo di non attingere alle casse dello Stato, ma di concludere un accordo – già in fase di attuazione – con l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani”. Altri nervi deboli della legge 40 sono la presenza della madre accanto al figlio in caso di ricovero in ospedale (“Metteremo nero su bianco anche questa possibilità”, ha assicurato Anna Finocchiaro), e una questione più volte dibattuta che incrocia la legge Bossi-Fini sull’immigrazione: “Al termine della pena, la detenuta straniera senza permesso di soggiorno viene immediatamente espulsa senza tener conto dei suoi figli che spesso, nel frattempo, hanno vissuto presso strutture d’accoglienza, parlano italiano e si trovano perfettamente inseriti nel nostro Paese. Ci vuole un’assunzione di responsabilità verso queste situazioni. Noi proponiamo una deroga alla Bossi-Fini, prevedendo delle relazioni ad personam e l’istituzione di un ricongiungimento familiare capovolto: se i figli sono ormai diventati dei piccoli cittadini italiani, saranno loro a chiamare a sé le madri, e così si permetterà a entrambi di restare nel nostro territorio”.

Sulla maternità ferita dall’esperienza del carcere è intervenuta anche la psicoanalista Lella Ravasi Bellocchio, che al convegno milanese ha ripercorso la sua esperienza tra le detenute di San Vittore, sfociata nel libro Sogni senza sbarre (Raffaello Cortina editore). “Lia Sacerdote mi ha chiesto di avviare con le detenute una riflessione sul femminile e sul materno”, ha spiegato Lella Ravasi, “così ho pensato a un lavoro sui sogni di queste donne, per focalizzarci sulla loro identità minacciata dalla costrizione e dal senso di colpa verso i figli. Per due anni ho incontrato otto donne di varie nazionalità, una volta a settimana, per ricucire i loro strappi interiori, contenere le ansie attraverso la biografia, la parola, la narrazione. I figli erano sempre protagonisti, nei loro discorsi e nei loro sogni. Ed è stato interessante osservare come, attraverso l’affetto per un bambino presente in carcere con sua madre, molte di loro abbiano potuto collettivamente ritrovare l’immagine di una maternità positiva e senza colpe”.

 

Per informazioni sull’attività di “Bambini senza sbarre”, e per segnalare esperienze analoghe in altre carceri d’Italia da mettere in rete: telefono 02/711998, bambinisenzasbarre@infinito.it

 

 

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