Ristrettamente utile

 

La ex Cirielli perde i pezzi

Quelle modifiche fatte alla svelta, meno di un mese dopo la sua approvazione,

soprattutto per evitare che le comunità terapeutiche restino “senza clienti e senza lavoro”

 

di Flavio Zaghi

 

Mi rendo conto del fatto che parlare ancora di ex-Cirielli può risultare noioso, però purtroppo con questa legge dovremo prima o poi imparare a fare i conti, in quanto ormai di fatto è entrata nel nostro Codice penale e nell’Ordinamento penitenziario, creando sicuramente molti sconquassi. Oggi però c’è un filo di speranza che riguarda la sua applicazione e poi anche una notizia parzialmente positiva da registrare. Il filo di speranza è legato ai “nostri” magistrati di sorveglianza di Padova, che speriamo ci possano evitare almeno l’applicazione retroattiva di questa legge. La notizia parzialmente buona è che sulla ex-Cirielli è già stata messa mano per modificare almeno le misure che riguardano i tossicodipendenti, per i quali appunto riduceva drasticamente le possibilità di accedere a benefici e misure alternative.

Gli inasprimenti quindi previsti dalla ex-Cirielli, nella parte che riguarda l’esecuzione della pena, non si applicano più ai tossicodipendenti che stanno seguendo un programma di recupero. Il provvedimento, deciso ed approvato nel corso del Consiglio dei Ministri del 22 dicembre 2005 su proposta dei ministri Giovanardi e Fini, è contenuto nel Decreto Legge sulla sicurezza e i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, ed è finalizzato a “favorire il recupero dei tossicodipendenti recidivi” (è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n° 303 del 30 dicembre 2005). Quanto era stato modificato nella ex-Cirielli, almeno per i tossicodipendenti in esecuzione pena, ora torna pari-pari a come era prima; ma quello che mi incuriosisce è un’altra questione: perché i ministri Giovanardi e Fini, così, in fretta e furia, hanno inserito questa modifica in una “combine” di provvedimenti e discorsi che riguardano le Olimpiadi invernali?

Che stiano forse pensando di sottoporre i tossici a una nuova “disciplina” olimpica? Ora, voglio dire, che noi tossici ci intendiamo di “neve”, beh… è normale, di “piste” poi… siamo addirittura esperti, ma voglio sperare che non ci dovremo misurare in una specialità per ora ancora sconosciuta nella categoria “recidivi professionisti”. A parte gli scherzi, la ex-Cirielli andava modificata e anche alla svelta, perché il rischio era che le comunità terapeutiche restassero “senza clienti e senza lavoro”, e noi tutti sappiamo bene quanto il nostro governo sia attento al problema del lavoro in generale; così nel giro di pochi giorni hanno provveduto a modificare il testo che “sbadatamente” non avevano controllato bene, ma che si erano sgolati nel presentare come giusto e dovuto a tutta la platea degli elettori italiani.

L’allarme che ha fatto fare il dietrofront al governo è quindi stato lanciato dalle comunità terapeutiche in occasione della 4° conferenza nazionale sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti che si è tenuta a Palermo il 5/6/7 dicembre 2005. Andrea Muccioli della comunità di San Patrignano è intervenuto pesantemente contro la penalizzazione dei tossicodipendenti che la ex-Cirielli provoca, dicendo in sostanza: “…come potete da una parte approvare una legge che estende la possibilità di usufruire dei benefici alternativi al carcere per pene fino a 6 anni (d.d.l. Fini) e quasi contestualmente approvarne un’altra, la ex-Cirielli, che impedisce di fatto a ogni tossicodipendente, che abbia commesso più di un reato connesso alla sua condizione di tossicodipendenza, qualsiasi alternativa? In sostanza, ogni tossicodipendente recidivo, una volta in galera, non potrà più uscire”. Se non si interviene immediatamente per correggere questa contraddizione, ha aggiunto Muccioli, nel giro di 3 anni ci potrebbero essere 20.000 tossicodipendenti in carcere senza alcuna possibilità di “accoglierli” in percorsi di recupero.

Ora, io non sono molto bravo in matematica, ma calcolando che per ogni tossicodipendente il servizio pubblico (Ser.T.) paga alla comunità terapeutica che lo accoglie circa 50 euro al giorno di retta, la cifra diventa “un passivo da capogiro” se quei tossicodipendenti restano in carcere. È anche vero che centri come S. Patrignano non prendono denaro dal servizio pubblico, in compenso però all’interno di questo tipo di comunità autogestite sono sorte delle vere e proprie aziende in grado di tenere testa a chiunque in fatto di concorrenza. Il programma terapeutico a Sampa dura in media dai due ai tre anni e proprio il lavoro è alla base del recupero del soggetto in cura. È ovvio che Muccioli veda il d.d.l. Fini come “un’ottima legge”, dato che porta a sei anni la soglia limite per l’affidamento, e le comunità-azienda si garantiscono braccianti, operai, allevatori, pellicciai e quant’altro per la bellezza di sei anni praticamente quasi “a costo zero”.

Mi viene anche da pensare che una eventuale legalizzazione della droga non sarebbe allora tanto una sconfitta per lo Stato, ma significherebbe più che altro chiudere i rubinetti di un business colossale. Da buon recidivo, ho la sensazione che a chi finisce in carcere convenga al più presto procurarsi il certificato di tossicodipendenza in tempi celeri, perché sembra che, nonostante la ex-Cirielli, questo sia ancora il sistema più veloce per accedere a qualche beneficio, mentre per tutti gli altri che non siano tossicodipendenti, purtroppo, la ex-Cirielli è e resterà la legge “castigamatti” a tolleranza zero.

 

Decreto legge del 30 dicembre 2005, numero 272

Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi. (Gazzetta Ufficiale numero 303 del 30.12.2005)

Art. 4.

Esecuzione delle pene detentive per tossicodipendenti in programmi di recupero

1. L’articolo 94-bis del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dall’articolo 8 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, è soppresso.

2. La disposizione di cui alla lettera c) del comma 9 dell’articolo 656 del codice di procedura penale non si applica nei confronti di condannati, tossicodipendenti o alcooldipendenti, che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti ovvero nell’ambito di una struttura autorizzata e l’interruzione del programma può pregiudicarne la disintossicazione. In tale caso il pubblico ministero stabilisce i controlli per accertare che il tossicodipendente o l’alcooldipendente prosegua il programma di recupero fino alla decisione del tribunale di sorveglianza e revoca la sospensione dell’esecuzione quando accerta che la persona lo ha interrotto.

 

 

Ma davvero tutti i reclusi meritano di stare dentro?

E qualcuno si ricorda che i recidivi sono molti di più tra chi non ha mai usufruito di benefici e misure alternative?

 

di Marino Occhipinti

 

Che le carceri scoppiano lo troviamo oramai scritto ovunque e sempre più spesso. Noi detenuti lo sappiamo bene, dal momento che il disagio del sovraffollamento lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, e lo sanno altrettanto bene anche i cittadini liberi, che per tutta risposta invocano la certezza della pena senza però avere la minima idea di quale sia la composizione della “popolazione detenuta” ed il grado di pericolosità di chi sta dietro le sbarre.

Eccezion fatta per alcune “categorie” di reclusi, quelli veramente “feroci ed incalliti” che hanno lunghe condanne da scontare e per i quali la detenzione appare inevitabile, la popolazione carceraria è composta da un 30 per cento circa di tossicodipendenti e da un altro 30 per cento di stranieri. Persone, queste, che hanno commesso reati più per disperazione ed emarginazione che non per “animo criminale”.

Circa 10-12mila delle 35mila persone che scontano una condanna definitiva (le altre sono in attesa di essere giudicate, quindi presunte innocenti) hanno una pena inferiore ai tre anni. Alcune migliaia, addirittura, sono a pochi mesi dal fine pena, e l’esiguità della condanna lascia presumere che non siano di una pericolosità tale da essere per forza “lasciate” in carcere fino all’ultimo giorno. Potrebbero essere ammesse ai benefici penitenziari se soltanto disponessero di un lavoro e di una famiglia, come nel caso degli stranieri che, si sa, non hanno risorse né tantomeno affetti: quelli li hanno lasciati al loro Paese quando sono partiti in cerca di maggior fortuna, proprio come hanno fatto molti italiani qualche decennio addietro.

Le misure alternative alla detenzione potrebbero veramente rappresentare un valido rimedio contro il sovraffollamento carcerario. Tanto per fare un esempio, le statistiche dicono che i reati commessi durante la fruizione della semilibertà o dell’affidamento in prova al Servizio sociale sono prossimi allo zero, i più bassi in Europa. Perché allora ci sono zone d’Italia in cui i benefici vengono concessi con il contagocce? E se il modello della Casa di reclusione di Padova (e relativa magistratura di Sorveglianza), dalla quale ogni mattina escono a lavorare oltre 60 persone che puntualmente la sera rientrano a dormire, venisse “esportato” anche nel resto della Penisola?

In fin dei conti non si tratterebbe di “liberare” criminali di chissà quale spessore, quelli rimangono in carcere lo stesso (a scanso di equivoci e “conflitti d’interesse”: sono detenuto da oltre 11 anni e non ho quasi nulla di cui lamentarmi), ma persone che, nel giro di breve tempo, la libertà la riacquisterebbero comunque. Concedendo loro una misura alternativa alla detenzione si permetterebbe di avviare un percorso, controllato e sostenuto, che avrebbe anche e soprattutto una funzione anti-recidiva: una recente ricerca del Gruppo Abele ha evidenziato che il 12 per cento di recidivi è costituito da persone passate attraverso le misure alternative, mentre il 61 per cento da chi non ha mai lasciato il carcere fino alla fine della pena. Segno che il solo carcere, senza l’offerta di opportunità trattamentali e di un graduale reinserimento, serve a ben poco. Anzi, in molti casi logora e magari distrugge ciò che di positivo la persona aveva fuori: la famiglia, gli amici, il lavoro…

Il problema del sovraffollamento è sì il più impellente da risolvere, anche perché dal numero esagerato di persone detenute rispetto ai posti realmente disponibili dipendono tutta un’altra serie di difficoltà. Come si può pensare di “contenere” tanti reclusi nello spazio in cui dovrebbero essercene 20mila in meno? E non è soltanto - nonostante si tratti di un problema drammaticamente “serio” - una questione legata esclusivamente alla ricettività, agli spazi vitali nudi e crudi. Quali attività “trattamentali”, e di istruzione o lavorative, si possono svolgere in un carcere costruito e “calibrato” per ospitare 90 persone se invece ve ne sono stipate più di 250 (non si tratta di un’ipotesi fantasiosa né artatamente esagerata: l’istituto appena descritto è la Casa circondariale di Padova, il “giudiziario”, ma di realtà simili sparse per l’Italia ve ne sono molte altre)?

 

Le cose cambierebbero davvero se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione

 

Come si può pensare di rinchiudere per anni una persona “in cattività”, senza offrirle condizioni di vivibilità almeno accettabili e dignitose, e poi sperare che una volta uscita segua la retta via e diventi improvvisamente rispettosa delle regole di civile convivenza? La galera dovrebbe rappresentare anche un “momento” in cui gli operatori penitenziari “agganciano” la persona che ha sbagliato, e con questa cercano di “lavorare” per costruire qualcosa di diverso, ma per fare ciò occorrono anche gli strumenti e le risorse – umane ed economiche – di cui attualmente gli istituti di pena italiani, sempre a causa del sovraffollamento, non dispongono. Se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione, forse la pena diventerebbe veramente, almeno in parte, rieducativa e quindi non del tutto inutile per chi sta dentro e, in proiezione futura, anche e soprattutto per chi sta fuori.

Se si considera che ogni anno le persone detenute aumentano mediamente di 2-3000 unità, che sono state approvate leggi come la ex-Cirielli che non lasciano presagire nulla di buono, e che le risorse destinate al pianeta carcere subiscono continue contrazioni, se ne deduce che il sistema carcerario è prossimo al collasso. La situazione è insostenibile ora, che nei penitenziari italiani sono rinchiuse circa 60mila persone, e cosa succederà tra un paio d’anni, quando nella migliore delle ipotesi i detenuti da gestire saranno almeno 10mila in più?

Infine, che dire del nuovo Regolamento penitenziario, che dopo oltre 5 anni dalla sua approvazione giace in buona parte inapplicato, alla faccia dell’acqua calda o addirittura della doccia in cella? In molte carceri del Sud Italia, dove non si guarda tanto per il sottile, soprattutto d’estate l’acqua si accontenterebbero semplicemente di averla, calda o fredda che sia poco importa.

Scontare una pena detentiva significa essere privati della “sola” libertà. Non si capisce allora in quale contesto rientrino tutte le altre “privazioni” giornaliere non previste da alcun regolamento né legge dello Stato. E dividere in dieci persone lo spazio previsto per tre o quattro, magari con la “turca” a vista (nello stesso ed unico locale dove si mangia, si dorme e si vive chiusi per 22 ore al giorno), con i letti a castello a tre piani, senza un briciolo di lavoro e con un sistema sanitario penitenziario che non lascia proprio tranquilli, con una “giustizia lumaca” ma inflessibile che magari arriva dopo dieci anni dal reato, quando i “problemi” sono oramai superati… beh, le “privazioni supplementari” sono tante e non da poco.

 

 

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