Radio carcere

 

Sovraffollamento e proteste. Chi è davvero incivile oggi?

Uno sguardo sul Circondariale di Padova, per capire quel

che a breve potrebbe succedere un po’ ovunque, in Italia

 

La Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Questo “speciale” sulla Casa circondariale di Padova mette insieme una serie di articoli e testimonianze di detenuti, che lì sono stati costretti a vivere, o che ci vivono tuttora, perché nessuno dimentichi che quel carcere è parte della città, e che a Padova, come scrive un detenuto con grande lucidità, ci sta un carcere, che è la Casa di reclusione (e non un’isola felice, come qualcuno lo definisce, perché non esistono carceri felici) e un inferno, che è il Circondariale.

Mettiamo in chiaro una cosa subito: nessuno si scandalizzi quando parliamo di “inferno”, e non si arrabbi la gran parte del personale, che lotta ogni giorno per rendere accettabile un luogo, che è invece indecente. Quando parliamo di inferno, parliamo di strutture vergognose, e che sono tali da anni, e le descriviamo anche continuamente, perché nessuno dimentichi che tre persone vivono in una cella da uno col water a vista, e che altre sono accatastate in otto-dieci in celle da quattro, e a volte pure nelle salette della socialità.

E anche quando abbiamo detto che la protesta dei mesi scorsi è stata, in linea di massima, civile, sapevamo quello che dicevamo: che cioè in quelle condizioni la situazione poteva degenerare facilmente, e per fortuna non è successo. E che chiedere civiltà e correttezza a gente tenuta in luoghi incivili è davvero una grande contraddizione. E non dimentichiamo poi che nessuna protesta è priva di gesti e momenti di tensione e anche di danneggiamenti e prevaricazioni, che nessuno giustifica, ma che non si riuscirà mai a cancellare neppure dalla manifestazione più pacifica.

Quello che è certo è che, al Circondariale di Padova, così come sempre più succederà nelle carceri italiane, si chiede alle persone detenute ogni giorno una prova di maturità e di autocontrollo, che da parte loro le istituzioni spesso non sanno dare, se continuano a fingere di non vedere situazioni vicine ad esplodere, e nel frattempo giocano con l’amnistia e l’indulto. Il vicepremier Fini si è detto contrario all’amnistia perché “Chi sbaglia, paga”. Ma siamo un Paese così incivile, da credere che le persone devono pagare il doppio, scontando la loro pena in luoghi infernali, invece che in carceri per lo meno decenti? E lo Stato, sta forse pagando per non saper amministrare la Giustizia, a tal punto che la gente aspetta anni i processi, e poi si ritrova rinchiusa in celle, adatte per due-tre persone, e trasformate in contenitori per otto-dieci, senza uno straccio di educatore e nulla di nulla che assomigli, anche lontanamente, a quella rieducazione prevista dalla nostra Costituzione?

 

 

Vita da sardine

Testimonianze dal carcere circondariale di Padova: quando si vive in sei-otto persone in una cella, stress stanchezza e nervosismo sono all’ordine del giorno

 

a cura di Giulio Ciccia

 

La questione del sovraffollamento nelle carceri non è certo nuova, già nel 2002 una protesta pacifica, analoga a quella avvenuta di recente nel carcere circondariale di Padova, aveva interessato più carceri italiane. Allora dal Ministero della Giustizia piovevano promesse circa la possibilità di far scontare la pena in patria agli stranieri, e soprattutto si parlava molto della costruzione di nuove carceri. Curioso osservare come in tre anni la situazione non sia affatto cambiata, o meglio sia invece peggiorata. Quella che segue è una testimonianza nata, subito dopo la protesta, dalla discussione di un gruppo di detenuti della Casa circondariale di Padova sul problema del sovraffollamento. Ci si interroga sulle soluzioni possibili, per il momento l’amministrazione ha pensato di ripiegare sui trasferimenti di un’ottantina di detenuti, ma la domanda che aleggia è sempre quella: il sovraffollamento delle carceri è un problema che riguarda solo il sistema penitenziario o interessa anche altre componenti della società? Altro elemento interessante che emerge dal testo è che nessuno dei detenuti presenti ha parlato di amnistia tra le misure da adottare per risolvere il problema.

Il sovraffollamento in carcere produce molti problemi psicologici che si ripercuotono sui rapporti tra detenuti e anche tra detenuti e agenti. Quando si vive in sei-otto persone in una cella, stress stanchezza e nervosismo sono all’ordine del giorno, in questa atmosfera sono frequenti comportamenti di sfogo eccessivo o di autolesionismo. Aumenta la paura di contrarre malattie e anche se si è in tanti paradossalmente non si sa con chi parlare, perché è praticamente impossibile avere momenti di intimità.

Tale situazione diventa particolarmente grave per le persone più fragili, che non conoscono il carcere o che hanno problemi di dipendenza. Per quanto riguarda il rapporto con gli agenti il sovraffollamento peggiora la comunicazione, anche quelli che sono più sensibili e umani nel rapporto con i detenuti diventano più freddi quando il carcere è sovraffollato. Inoltre pur trovandoci d’accordo sugli scopi della protesta in molti di noi permane la convinzione che questa sia stata in parte anche pilotata, per richiamare l’attenzione e chiedere che fossero fatti degli “sfollamenti”. Ora una domanda la facciamo noi all’amministrazione: è vero o no che sono stati trasferiti i detenuti che avevano avuto un ruolo più attivo nella protesta?

Alcune soluzioni possibili a questo problema potrebbero iniziare da quando si entra in carcere, operare cioè una selezione maggiore per fare in modo che persone con seri problemi sanitari o di tossicodipendenza scontino la loro pena in strutture più adatte, creando meno pericoli per se stesse o per gli altri. Per tutti andrebbero rafforzate le misure alternative, che costituiscono tra l’altro una buona occasione di rieducazione. Una maggiore attenzione dovrebbe essere anche applicata a come nel nostro carcere vengono assegnati i detenuti nelle varie celle. Capita infatti spesso che si entri in carcere per piccoli reati e che si esca in grado di compierne ben peggiori, aumentando quindi la probabilità di ritornarci.

Per quanto riguarda gli stranieri certo potenziare il meccanismo delle espulsioni potrebbe aiutare a ridurre il sovraffollamento, ma in molti c’è ancora la convinzione di una giustizia che lavora a due sensi, favorendo maggiormente gli italiani, ad esempio per l’assegnazione dei benefici, e non dando agli stranieri nessuna possibilità di inserimento. Questo accade anche perché molti stranieri, essendo privi di documenti, non sono neppure in grado di fornire un domicilio o una residenza dove poter scontare la pena alternativa al carcere. Forse il problema del sovraffollamento in carcere, sempre che le persone possano definirsi un problema, è uno dei tanti segnali di un malessere generalizzato. La criminalità è aumentata e si sta male in un carcere affollato, ma anche fuori la realtà è dura soprattutto per gli stranieri, gli onesti possono diventare delinquenti se costretti alla fame e alla miseria.

 

 

“Questo è carcere, quello l’inferno”

Dove “questo” significa la Casa di reclusione di Padova e “quello” la Casa circondariale, dove la tazza del cesso, nelle celle occupate da tre persone, è “a vista”, posizionata vicino al cancello d’ingresso

 

di Flavio Zaghi

 

Può sembrare strano, ma l’impatto che si ha entrando nella Casa circondariale di Padova è totalmente diverso da quello che si ha entrando nella Casa di reclusione; due carceri a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, ma talmente differenti in ogni cosa da apparire come appartenenti a due mondi completamente diversi. Uno, il Circondariale, è tristemente noto come il carcere dei record, in negativo ovviamente, in quanto è un carcere tra i più affollati d’Italia, con una presenza costante dell’85-90% di stranieri di varie nazionalità, che sono per la maggior parte nord-africani, rumeni, albanesi, moldavi, ucraini, nigeriani e oggi non mancano neppure i cinesi e i filippini. Gli italiani in questa triste classifica figurano agli ultimi posti.

Le celle, pensate originariamente per contenere una sola persona, ora ne contengono tre; quelle più grandi invece, che dovrebbero ospitare al massimo quattro persone, ne contengono otto-nove. In ogni cella le brande sono montate a castello a tre piani, lo sfortunato del terzo letto quindi è costretto ad audaci arrampicate col rischio di precipitare sul pavimento e rompersi l’osso del collo magari per il semplice fatto di avere il sonno un po’ disturbato.

La tazza del cesso, nelle celle occupate da tre persone, è “a vista”, posizionata vicino al cancello d’ingresso e a pochi, pochissimi centimetri dal primo letto al piano terra e dal tavolino fissato alla parete dove praticamente gli occupanti della cella consumano il loro pasto. Le grate alle finestre lasciano filtrare poca luce nelle celle, ma la luce al neon resta accesa praticamente 18 ore su 24, immaginarsi quindi che cosa vuol dire occupare il letto del terzo piano, col neon ad una spanna dal naso e che in estate ha lo stesso effetto di un solarium. Le docce, permettono ai detenuti di avere a disposizione l’acqua calda solo nelle prime ore del mattino. Entrare in doccia comunque è il più delle volte uno schock e riuscire a non prendersi qualche fungo è arduo.

La cucina del Circondariale ovviamente non è adatta a preparare trecento pasti, e dal mio ricordo, se non è migliorata di recente, sforna dei cibi che per mangiarli bisogna essere per lo meno fachiri, se non addirittura autolesionisti; spesso si è costretti quindi a cibarsi di solo pane e frutta, ma ovviamente se si hanno soldi sul libretto allora si è autorizzati a comprarsi tutto quello che si vuole.

La Casa di reclusione è tutt’altra cosa: nelle celle si sta in due e quanto meno il bagno è dotato di porta che permette un minimo di privacy. Una cosa certa è che a confronto col Circondariale, qui siamo in carcere, là all’inferno.

La cosa che più mi dà da pensare è che tra l’uno e l’altro carcere ne è nato un terzo nuovo di zecca, con celle, brande e arredamento, pronto a contenere “almeno una parte” dei detenuti del Circondariale; già, dico solo una parte perché è stato progettato non certo per contenere i quasi 300 detenuti che oggi sono stipati nel vecchio carcere. Quindi anche quando questa nuova struttura venisse aperta, cosa che non risulta ancora possibile in quanto pare che si siano dimenticati di costruire lo spazio destinato ai passeggi, sarà comunque praticamente già da subito sovraffollata, proprio perché per un bacino come quello di Padova e provincia un carcere da 100 posti risulta inadeguato. Qualora si pensasse poi di tenere in funzione entrambi i circondariali, ci sarebbe il problema del personale di polizia penitenziaria che risulta già carente per una sola struttura.

Nessuno riesce neppure a pensare cosa ci aspetterà con la Bossi-Fini di cui si cominciano a vedere gli effetti ora, e poi con l’entrata “a regime” della Cirielli, e con la possibile approvazione della Fini-Mantovano sulle droghe. Intanto le nostre prigioni sono stracolme all’inverosimile di persone e di rieducativo e riabilitativo non hanno alcunché, anzi, rendono e trattano le persone come bestie in gabbia. E dalle bestie in gabbia non ci si può aspettare certo un cambiamento tale da permettere un rientro nella società senza essere quanto meno esauriti o incazzati col mondo intero.

 

 

La disperazione del primo impatto con la galera al Circondariale

 

di Paolo Pasimeni

 

La mia esperienza con il carcere ha avuto inizio con il mio ingresso nella Casa circondariale “Due Palazzi” di Padova nel 2001. Non ero mai stato in carcere prima d’allora e mai avrei pensato di entrarvi, vista la mia totale estraneità a qualsiasi tipo di delinquenza. Mi ricordo il mio ingresso nell’istituto come l’ingresso in un mondo parallelo fatto da cancelli e blindi al posto delle porte, e sbarre al posto delle persiane. Mi ritrovai in una delle celle dell’isolamento in cui fui segregato per qualche tempo per ordine del giudice per le indagini preliminari.

Dopo alcuni giorni, iniziai ad andare “all’aria”: un corridoio largo circa due metri e mezzo e lungo una ventina, circondato da cemento e filo spinato. Il regime di alta sorveglianza cessò nel giro di meno di una settimana e venni “declassato” a detenuto comune. Purtroppo però, a causa del sovraffollamento, mi trattennero nel reparto isolamento nonostante l’ordinanza emessa da parte del giudice. Nel frattempo tale reparto iniziò a popolarsi di altri detenuti, tanto da riempire le celle d’isolamento con tre detenuti per cella, cosa, questa, che mi pare entri in conflitto con il significato della parola isolamento. Capii però ben presto come nel mondo in cui ero entrato di logica ve ne fosse ben poca.

L’acqua che fuoriusciva dal rubinetto era limacciosa, i sanitari erano fatiscenti e, per di più, non si potevano avere in dotazione i detergenti. Ci si poteva fare una doccia una volta alla settimana, perché l’intero braccio era pressoché sprovvisto di docce. Ben presto alcune persone detenute presso le celle contigue alla mia iniziarono a protestare e non mancarono atti di autolesionismo. Per tranquillizzare gli animi, mi ricordo che venne il comandante e ci disse che nel giro di pochi giorni saremmo stati collocati presso il reparto dei comuni.

 

Nove compressi in una cella da quattro

 

Entrai, quindi, nella cella 25 del secondo blocco della Casa circondariale e all’inizio mi sentii preso dall’angoscia, poiché mi ritrovai in mezzo ad altre otto persone in uno spazio progettato per contenerne quattro. Ero il più giovane e venni accolto positivamente da tutti i componenti della cella. Ma stare in nove in quella stanza così piccola era molto difficile, la convivenza forzata fra persone estranee e con problemi differenti come la tossicodipendenza e/o problemi psichici era spesso causa di discussioni animate. C’é da dire che, però, io fui fortunato a capitare in quella cella, poiché la maggior parte erano delle singole in cui erano stipati tre detenuti che, per tutto l’arco della carcerazione, dovevano condividere gli stessi cinque-sei metri quadrati con annessi sanitari a vista, tavolino e 2 sgabelli. In effetti, il terzo sgabello non aveva senso tenerlo in quelle celle, tre detenuti in piedi non ci potevano fisicamente stare: uno, almeno, doveva rimanere sempre seduto o disteso sul letto!

Gli spazi ricreativi erano relegati ad un’ora e mezza al giorno passata in una sala in cui circa 50 persone si trovavano a dividere un tavolo da ping-pong e un calcio balilla. Nemmeno le tre ore di passeggi quotidiane erano tanto meglio. Le arie erano due. Una di queste era un campo da calcio non regolamentare colmo di buche e completamente sprovvisto di tettoia sotto la quale ripararsi in caso di mal tempo. L’altro passeggio era completamente in cemento, grande più o meno quanto un piccolo campo da pallacanestro. Va detto, inoltre, che entrambe le arie erano sprovviste di un bagno e, quindi, si doveva costantemente fare attenzione a non sporcarsi con i “residui organici” altrui. Le condizioni igieniche all’interno dell’istituto, poi, non erano tanto migliori. Aree come la biblioteca erano pressoché inagibili, c’erano nidi di uccelli al suo interno per non parlare dei cumuli di polvere che sovrastavano i libri. Tale area era chiusa, perché il tragitto che portava dalla rotonda alla biblioteca era pericolante; c’erano pezzi di soffitto sul pavimento e le transenne piazzate per i lavori di ristrutturazione rimasero lì per tutto il periodo trascorso da me in quell’istituto.

L’impressione che ho avuto dello stato in cui versa la Casa circondariale di Padova è quella di una struttura al collasso, in cui nessun parametro igienico-sanitario può venire rispettato, a scapito della salute dei detenuti, ma anche degli operatori. Mancano i farmaci a causa del sovraffollamento, persino le aspirine sono un lusso e anche un semplice mal di testa può essere un problema serio da risolvere.

 

 

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