Dentro e Fuori

 

Quando la chiesa sta con coloro che nella società

hanno meno voce e simpatia

(Realizzata nel mese di ottobre 2002)

 

"Ad Alghero, una Casa di Accoglienza che verrà gestita esclusivamente da volontari con un chiaro coinvolgimento dei detenuti, una modalità che abbiamo voluto proprio per responsabilizzarli maggiormente"

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Case di Accoglienza per detenuti ne nascono spesso, in molte città anche più di una. Viceversa ci sono realtà che, chissà se per disinteresse, incapacità, insensibilità o quale altro motivo, non forniscono alcun sostegno ai detenuti in permesso o in misura alternativa.

Finalmente, dal settembre 2002, anche ad Alghero e Macomer i reclusi hanno una Casa che li accoglie, dove possono incontrare i loro familiari. E dove potranno probabilmente anche essere coinvolti in un lavoro di utilità sociale, come ha detto Giampaolo Cassitta, responsabile degli educatori della Casa Circondariale di Alghero: "Sarebbe bello poter coinvolgere tutti gli ospiti del carcere. Ognuno di loro potrebbe trascorrere dei giorni nel centro per mandare avanti la mensa Caritas e fare un’esperienza diversa, utile per il reinserimento nella società".

E allora siamo andati in Sardegna, seppur virtualmente, ad intervistare il prete che ci pare sia "l’anima" del progetto, don Lorenzo Piras.

 

Don Lorenzo, com’è nata l’iniziativa relativa alla Casa di Accoglienza per detenuti, chi ne ha avvertito la necessità e chi ne è stato l’ideatore? E poi, come siete riusciti a reperire i fondi necessari? Insomma, proviamo ad indicare la strada affinché tali esperienze si moltiplichino.

La Casa dell’Accoglienza è nata riflettendo sull’esigenza di creare un’opera, che fosse un segno rispetto alle tante sfide che il Giubileo del 2000 ci dava. Ci è sembrato (Vescovo e Caritas Diocesana) che, sia per la presenza di due carceri in diocesi, sia per la carica educativa del progetto, fosse importante realizzare, dai proventi dell’otto per mille della carità, una Casa di Accoglienza per detenuti, come ponte tra il carcere e il futuro reinserimento nella società e come proposta educativa nella società ma anche all’interno della chiesa stessa. Dopo questa riflessione condivisa nel Consiglio Presbiterale, il Vescovo ha dato mandato al Direttore Diocesano della Caritas sia per l’acquisto che per le successive modifiche e l’impostazione della Casa stessa.

 

Come verrà gestita la struttura? Da volontari oppure si è pensato anche ad una forma di autogestione, con la partecipazione dei detenuti?

La Casa verrà gestita esclusivamente da volontari con un chiaro coinvolgimento dei detenuti, una modalità che abbiamo voluto proprio per responsabilizzarli maggiormente. Durante quest’anno, poi, si è proposto ai volontari un cammino di formazione mirato in particolare alla ricerca di motivazioni e all’acquisizione di uno stile comune di accoglienza in nome della chiesa, un progetto nel quale tutti devono fare la propria parte.

 

Avete coinvolto anche altri enti, come l’Amministrazione Penitenziaria, i Servizi sociali, oppure è un progetto gestito esclusivamente dalla chiesa?

C’è stata una preziosa collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria del carcere di Alghero, ma la gestione principale è della chiesa diocesana.

 

Quanti saranno i posti disponibili per i detenuti ed ex detenuti ed eventualmente per i loro familiari? Quali saranno le modalità di utilizzo? In occasione dei permessi sarà accessibile anche ai familiari dei reclusi, così da creare un punto di appoggio e di riferimento?

La Casa viene messa a disposizione delle persone recluse per brevi permessi e sarà possibile anche l’incontro con i familiari. I posti disponibili per i detenuti saranno otto, mentre per i parenti si sta presentando la possibilità che ci venga donata una casa che destineremo per la loro accoglienza.

L’ospitalità per i familiari ci sembra importante quanto quella per i detenuti, ed è necessaria soprattutto nel caso di parenti che arrivano da lontano, stanchi per le ore ed ore di viaggio, magari persone anziane, bambini. E poi bisogna considerare la questione economica, perché in molti casi non hanno la disponibilità per soggiornare in albergo.

Spesso la soluzione alla quale arrivano è la più drastica: riducono al minimo i colloqui, molte volte addirittura li evitano. Si crea un distacco non voluto ma imposto, una spirale di sofferenza sia per i familiari sia per i detenuti. Cresce la disperazione e spesso si lacerano gli affetti, e così facendo inevitabilmente arrivano le separazioni. Abbiamo visto che nella maggior parte dei casi questo si può e si deve evitare, ma bisogna intervenire anziché nascondersi.

 

Molto spesso, al termine della pena, gli ex detenuti non hanno punti di riferimento sul territorio, e senza un’abitazione il reinserimento nella società è ancora più problematico. Non potevate prevedere un’ospitalità per periodi più lunghi, anziché limitarla a pochi giorni?

Avremmo voluto farlo, ci mancherebbe! L’ospitalità è indirizzata per brevi periodi per motivi ben precisi: tra Alghero e Macomer ci sono già 300 detenuti e certamente ci verranno fatte richieste anche dalle carceri vicine. Ne consegue che non possiamo impegnare la Casa per periodi troppo lunghi, proprio per dare la possibilità a più persone di usufruirne.

 

La struttura è di proprietà della chiesa oppure vi è stata concessa in uso? Ho letto che il progetto è ben più ampio, ce lo vuole accennare brevemente?

La casa è di proprietà della diocesi e nella stessa funzionerà sia la mensa della carità che il Centro di educazione alla pace e alla mondialità, che daranno un chiaro segnale proprio perché ciascuna delle realtà si completa e motiva le altre.

Al fine di scongiurare gli eventuali conflitti, perché anche noi avevamo alcune titubanze, prima di abbinare le varie componenti abbiamo riflettuto a lungo, e la scelta migliore ci è parsa quella di fare un progetto unitario e non fine a se stesso, sganciato dal resto, proprio perché è necessario e molto importante lo stimolo continuo che l’uno può dare all’altro.

 

Quali sono le sue considerazioni sul fine ultimo della pena, e cioè il reinserimento nella società di coloro che hanno sbagliato?

L’iniziativa nasce proprio con questi obiettivi, sarà il tempo che ci dirà di che cosa saremo capaci e quanto riusciremo a combinare. Affidiamo tutto al buon Dio sperando che…

Mi sembra giusto concludere sintetizzando le parole, molto significative, dei relatori al Convegno "Chiesa, società e realtà carceraria", tenutosi a margine dell’inaugurazione della Casa dell’Accoglienza. Don Ettore Cannavera, cappellano del carcere di Quartucciu, è partito dai documenti del Magistero Pontificio e dei Vescovi Italiani e, proprio a partire dai documenti conciliari, ha sottolineato l’esigenza che la chiesa stia con gli ultimi e condivida tutto con coloro che specialmente nella società hanno meno voce e simpatia.

La dottoressa Nicola del carcere di Macomer, invece, ha sottolineato come le ultime leggi in materia di rapporto fra carcere e territorio diano molta enfasi all’opera rieducativa del detenuto attraverso presenze positive e qualificate che vengono dall’esterno.

Ecco, questi sono i motivi principali che anche noi riconosciamo pienamente, per i quali vogliamo esserci e fare la nostra parte.

 

Casa dell’Accoglienza per detenuti

Chiesa del Rosario

Via XX Settembre, 218

07041 Alghero (SS)

Carcere di Prato e Università degli Studi di Firenze. Ecco come funziona il Polo Universitario Penitenziario

 

(Realizzata nel mese di gennaio 2003)

 

 

Quello che conta è che non devi dare un insegnamento di serie B perché "tanto sono studenti in carcere"

 

Vivono nel carcere di Prato, ma sono studenti a tutti gli effetti dell’Università degli Studi di Firenze: sono i detenuti del Polo Universitario Penitenziario, di cui ci ha parlato la professoressa Patrizia Meringolo, che ne è la responsabile per la Facoltà di Psicologia.

Quella che ci ha descritto è un’attività che vuole offrire, ai detenuti in possesso dei requisiti, l’opportunità di seguire corsi di istruzione universitaria in attuazione delle norme che garantiscono il diritto allo studio, contribuendo in maniera determinante ad arricchire le prospettive di reinserimento sociale.

La collaborazione delle istituzioni locali, dell’associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale è essenziale per l’efficacia di questa azione, ognuno per le proprie competenze.

L’Università provvede alla sperimentazione e realizzazione delle attività didattiche, all’azione di ricerca e all’organizzazione dell’orientamento e del tutorato, privilegiando programmi individualizzati.

L’Amministrazione Penitenziaria garantisce le condizioni di spazio, organizzative, di sicurezza, e assume tutte le decisioni di propria competenza.

La Regione Toscana partecipa al progetto favorendo la dimensione regionale, sostenendo le attività di sperimentazione, di ricerca e di valutazione, inserendo l’iniziativa nelle consultazioni sul territorio e nel piano pluriennale di intervento, in relazione anche a possibili interventi a favore di studenti svantaggiati e per la promozione degli inserimenti al lavoro.

Intervista a Patrizia Meringolo, Responsabile del Polo Universitario Penitenziario per la Facoltà di Psicologia

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Sappiamo che l’Università di Firenze ha creato un Polo Universitario Penitenziario: ci vuole spiegare in cosa consiste esattamente, e cioè come è nato e quali sono gli enti a vario titolo coinvolti?

Il Polo Universitario Penitenziario è nato alcuni anni fa presso l’Ateneo fiorentino, con l’obiettivo di facilitare gli studi degli studenti, italiani e stranieri, che si trovano in stato di detenzione. Le prime immatricolazioni si sono avute nell’anno accademico 2001/2002. È stato istituito con un accordo siglato dall’Ateneo, il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana. Gli studenti detenuti si trovano attualmente presso il carcere di Prato (provengono anche da altri istituti di pena), che collabora cercando di garantire situazioni il più possibile congrue allo studio e che cura lo svolgimento dei colloqui di professori e tutors.

 

Chi è il responsabile del Polo Universitario Penitenziario e quanti sono i detenuti iscritti? Quali sono le Facoltà interessate?

Il responsabile del Polo Penitenziario per l’Ateneo di Firenze è il professor Nedo Baracani, che insegna Sociologia alla Facoltà di Scienze della Formazione. Ci sono poi docenti responsabili quasi per tutte le Facoltà fiorentine, o almeno per tutte quelle a cui gli studenti hanno chiesto l’iscrizione.

Attualmente ci sono 48 studenti iscritti tra nuove immatricolazioni e iscrizioni ad anni successivi, relative queste ultime sia a studenti immatricolati nell’anno passato sia a studenti che avevano già intrapreso un corso di studi prima dell’ingresso in carcere.

Esiste un coordinamento tra i responsabili di Facoltà e i rappresentanti delle altre Istituzioni coinvolte, che si ritrova periodicamente per discutere l’andamento dell’esperienza. Importante è stato anche il contributo del Volontariato penitenziario.

 

Qual è il suo ruolo all’interno del progetto?

Ho partecipato a questo progetto coinvolta dal professor Baracani, con il quale avevo collaborato in altre occasioni su questi temi, e sono responsabile per la Facoltà di Psicologia. Generalmente faccio il primo colloquio di orientamento per chi vuole iscriversi alla mia Facoltà, ed è un momento utile, perché ci sono molte fantasie sulla psicologia: che serva a risolvere i propri problemi (e non è una psicoterapia!), che serva a capire tutti i segreti della psiche, degli individui e del mondo (magari!), che sia una facoltà umanistica, oppure tutta centrata sui sogni… e così via.

Ma in questo gli studenti detenuti sono esattamente identici a qualsiasi altro studente, che risente dell’immagine della psicologia data dalla banalizzazione operata dai media o dall’uso incongruo pubblicizzato da certa cultura diffusa.

Dopo il primo colloquio, tengo i contatti con gli altri docenti e con i tutors. Il lavoro di sensibilizzazione dei docenti è interessante perché alcuni di loro, pochi, per la verità, tra gli psicologi, non hanno mai avuto l’occasione di conoscere da vicino l’istituzione carceraria, e in questo il Polo Penitenziario è importante: voglio dire che non servisse ad altro (paradossalmente, è ovvio!), sarebbe comunque importante per gli esterni, come acquisizione di conoscenza e di consapevolezza della realtà della pena, che non sempre è conseguente alla nostra Costituzione che parla di pena rieducativa.

 

Si tratta quindi di una sorta di scuola anche per voi! E gli incontri tra i docenti ed i detenuti sono sufficientemente frequenti?

I docenti di solito incontrano gli studenti detenuti per almeno un colloquio sul programma di esame, come del resto si fa nell’ordinario ricevimento studenti in Facoltà, e poi al momento dell’esame. C’è da dire che per legge noi siamo tenuti ad andare in carcere se un qualsiasi studente detenuto chiede di fare il nostro esame (e capita, anche se non di frequente). Con il Polo questa eventualità viene resa più operativa e inserita in un progetto.

Certo, fare il nostro lavoro in carcere è molto, come dire, educativo anche per noi: da una parte devi renderti conto delle difficoltà oggettive incontrate dagli studenti, dall’altra devi resistere alla tentazione di "fare sconti" (non so come esprimermi meglio). Voglio dire che non devi dare un insegnamento di serie B perché "tanto sono studenti in carcere", cosa che non servirebbe a nulla, ma dare delle competenze serie e spendibili nella realtà in futuro.

 

Quali sono le cose difficili con le quali vi dovete misurare?

La cosa più difficile, ma capita talvolta anche fuori, è proprio dare l’idea dell’importanza di progettare il futuro e di fare passi concreti – un po’ alla volta – per realizzarlo. E questo è difficile ma interessante. In questo primo anno l’esperienza con i docenti coinvolti è andata molto bene: ho in mente alcuni, ad esempio provenienti da Facoltà culturalmente meno interessate ai temi del carcere, come le Facoltà tecnologiche, che hanno preso molto a cuore l’impegno, dando un contributo notevole e portando un punto di vista diverso.

 

Nella pratica, come vengono seguiti gli studenti-detenuti durante il loro percorso di studio, vista l’impossibilità della regolare frequenza? Ci approfondisce un po’ la figura dei tutors?

I tutors sono in genere studenti degli ultimi anni o laureandi, che hanno colloqui con lo studente in carcere periodicamente, tipo ogni 15 giorni o ogni mese, e lo seguono nella preparazione dell’esame. Una sorta di peer education, visto che sono gli esami che loro stessi hanno già sostenuto. Abbiamo cercato di dare un rimborso spese anche minimo a questi ragazzi, o con le stesse modalità con cui l’Ateneo sostiene gli studenti che fanno un lavoro part-time per l’Università o per l’aiuto alle disabilità, o con mini-borse di studio messe a disposizione da esterni, pubblici e privati.

I miei primi tutors sono molto bravi, stavano già facendo tesi su argomenti connessi agli aspetti psicologici del carcere, e mi sembra svolgano un ottimo lavoro sia con gli studenti a loro affidati, sia nel collegamento con me e con gli altri docenti. Certo, bisogna un po’ "proteggerli" dallo "strafare" o dalle possibili delusioni.

 

Delusioni riferite al rendimento nello studio, magari altalenante a causa della particolare condizione degli studenti, la detenzione?

Cioè, come in tutti gli interventi psicosociali, non è detto che i risultati siano sempre corrispondenti all’impegno messo: a volte possono venire molto tardi o non venire affatto o non essere visibili. Il lavoro di reinserimento non è semplice, ed è legato a tanti fattori sui quali abbiamo un’influenza limitata. Per esempio, è notevole la differenza nei risultati tra lo studente detenuto che ha una famiglia o una rete sociale alle spalle e quello, magari anche straniero, che non ce l’ha. O tra chi avrebbe avuto comunque problemi anche indipendentemente dal carcere. Ma non credo di dirvi cose nuove con questo.

 

Ecco, gli stranieri: ci sono particolari esigenze e problemi, proprio per la frequente assenza di una rete sociale alle spalle?

Per gli stranieri non c’è tanto un problema di lingua quando arrivano agli studi universitari, quanto ad esempio il riconoscimento degli studi fatti nel paese di origine, oltre ai problemi "ordinari" dell’essere straniero in carcere.

 

Quanti docenti sono impegnati nell’attività relativa al Polo Universitario?

Nel coordinamento del Polo Penitenziario c’è un docente referente per ogni Facoltà, quindi almeno 12, ma alcune Facoltà che non hanno ancora studenti iscritti possono non avere referenti, e per Facoltà più grosse c’è più di un docente. E poi sono potenzialmente interessati tutti i docenti delle Facoltà al momento degli esami da sostenere.

 

Ci sono possibilità che la vostra esperienza si estenda anche ad altre realtà penitenziarie?

L’esperienza, per quello che so, si sta estendendo ad altri Atenei toscani, come Pisa e Siena, certo è necessario molto impegno.

 

Come siete riusciti a far fronte alla questione relativa ai finanziamenti?

Il progetto per gli studi universitari in carcere non avrebbe avuto neppure inizio senza l’apporto dei volontari e il sostegno economico della Cassa di Risparmio di Firenze e della Cassa di Risparmio di Prato, finanziamenti importanti per il rimborso spese dei tutors e anche per il materiale didattico, l’acquisto dei libri ecc., soprattutto per coloro che non hanno famiglia o amici che li seguono.

 

Lo studio è certamente importante e lo è doppiamente per chi si trova ristretto, non solo per una possibilità di lavoro una volta espiata la pena, ma soprattutto per un profondo cambiamento culturale che porti ad abbandonare certe logiche. Ci vuole approfondire questo aspetto?

Io insegno Psicologia dei gruppi e di comunità, ed i problemi dell’inclusione sociale mi interessano molto. Ci sarebbero parecchi aspetti da approfondire, al di là delle poche cose che dico in questa intervista. Soprattutto in un momento storico come il nostro, che sembra esaltare il successo e il vincere con tutti i mezzi (che, per inciso, è la stessa logica per cui alcuni sono finiti in carcere).

Credo che sia davvero necessario un "cambiamento culturale", sia nel carcere (per esempio lavorando - parlo dal punto di vista psicologico, soprattutto - sul tema della progettazione del futuro, come formazione professionale e preparazione al lavoro, e anche come approfondimento personale) sia fuori del carcere, per preparare il reinserimento nella comunità territoriale.

"Perché fare il volontario proprio in carcere?" è la domanda che si pongono spesso gli agenti

 

Volontari, agenti e altri operatori a confronto in un percorso di formazione

 

Interviste a cura di Marino Occhipinti

 

Nel numero precedente di "Ristretti Orizzonti" abbiamo pubblicato una intervista agli organizzatori di un percorso di formazione, realizzato in Emilia-Romagna con l’idea di mettere a confronto due mondi, quello del volontariato e quello dell’istituzione-carcere, che spesso lavorano fianco a fianco senza conoscere reciprocamente i propri ruoli.

In questa seconda puntata, pubblichiamo il contributo di Emma Melloni e Donatella Piccioni, formatrici dello Studio Egla di Forlì, specializzato in gestione delle risorse umane, comunicazione organizzativa e interpersonale.

È un contributo particolarmente interessante perché, analizzando i risultati dei focus group che hanno coinvolto separatamente agenti e volontari, mette in risalto la difficoltà di comunicazione, i possibili conflitti, i pregiudizi che ognuno si porta dietro, e traccia la via per un superamento di questa separatezza e un confronto più attento tra operatori e volontari.

 

La Redazione

 

I problemi emersi dai focus group con gli agenti

 

Abbiamo fatto i focus group con 2 tipologie di partecipanti coinvolte separatamente: agenti e volontari. Nei focus group con gli agenti abbiamo cercato di analizzare elementi relativi alle modalità di socializzazione negli Istituti penitenziari ed in particolare:

 

1. Il primo ingresso come agenti descritto attraverso le parole, i gesti, le azioni che li avevano maggiormente colpiti.

Ne è emerso che il primo ingresso da sempre è nelle organizzazioni un momento forte di "iniziazione" al proprio lavoro e alla cultura del contesto in cui si inserisce, che in questa realtà ha acquisito tinte più marcate. Da parte degli agenti sono stati quindi riferiti episodi che hanno sottolineato un ingresso abbastanza traumatico, non pensato e non preparato dall’organizzazione come momento importante di apprendimento.

Si è sottolineato il disorientamento nel trovarsi "abbandonati" di fronte a compiti non conosciuti o messi immediatamente in contatto con le parti più dure della realtà carceraria: "Non conoscevo il carcere (di massima sicurezza) non conoscevo bene quelle armi…".

"Sono stato messo di guardia sulle mura con una arma in mano", "Come primo arrivo mi hanno fatto perquisire un famoso mafioso", "In sezione con detenute mie coetanee che mi chiedevano perché ero lì e non lo sapevo bene neppure io…".

Le parole più ricordate sottolineano questo: "Devi aprire e chiudere", "Queste sono le chiavi… arrangiati", "Non devi pensare", "Non devi esprimere pareri e sensazioni".

Per molti inoltre il lavoro è stato "scelto" per caso, capitato: per tradizione familiare, perché "al mio paese non c’era lavoro", perché "è un lavoro sicuro…". Una volta intrapreso pochissimi cambiano lavoro… anche se molti fanno davvero fatica a reggere psicologicamente il clima.

 

2. Le relazioni interne tra colleghi della stessa area e con quelli delle altre aree.

Le relazioni sono inesistenti, non ci sono momenti di incontro strutturati in cui confrontarsi su ciò che si sta facendo e sui problemi che si devono affrontare. In complesso si tratta di "relazioni mai pensate" sia con l’interno sia con il mondo del volontariato.

 

3. L’incontro con il mondo del volontariato.

L’incontro con il volontariato non è semplice, perché questo porta una cultura completamente diversa, basata su valori e assunti molto lontani dai loro. "Perché fare il volontario proprio in carcere?" è la domanda che si sono posti gli agenti sia nei focus che nelle aule. La realtà è sentita come così dura e difficile da reggere per loro, che rimane complicato capire perché altri ci vadano ad operare in modo "volontario" e quindi scelto! Momenti, comunque, di contatto e di scambio nell’istituzione non ci sono.

Gli agenti non sanno normalmente nulla delle attività svolte dal volontariato, solo che per queste attività devono aggiungere alla quotidianità altre incombenze per facilitare gli accessi e spostare i detenuti.

Da iniziali diffidenze reciproche, non essendoci possibilità di scambio e di confronto su possibili obiettivi comuni, i diversi punti di vista continuano a scavare profonde trincee dove sia gli agenti che i volontari si rifugiano.

 

Quello che abbiamo indagato nei focus group con i volontari

 

1. Le modalità di inserimento nel mondo del volontariato.

Molte volte anche per i volontari è il caso che spinge le persone a entrare nel volontariato (i figli grandi, il tirocinio per la laurea, una esperienza di vita… un interesse e poi un incontro con una persona che ha facilitato l’ingresso). Il mondo del volontariato lascia in genere abbastanza libere le persone di esprimere le proprie modalità.

Questo da un lato favorisce la formazione di gruppi di volontari, ma dall’altro, senza un confronto serrato sui punti di vista, lascia spazio eccessivo alle libere interpretazioni personali e alle recite a soggetto (più legate a ciò che viene in mente di fare che a ciò che può concretamente servire al detenuto).

 

2. Le modalità di accesso nell’Istituto penitenziario ed i "segni" che maggiormente hanno colpito i volontari le prime volte che si avvicinavano alla realtà carceraria:

Il carcere non si trovava… (bisogna farlo vedere alla città, farlo diventare un suo problema) - Cancelli - Impotenza/nullafacenza - Piccole cose semplici che non vanno e non si modificano - Non ho visto nessuno sorridere - Quando uscivo dai colloqui non riuscivo più a camminare (somatizzavo la tensione) - La ricchezza sprecata di tanti agenti che vorrebbero provare a cambiare - La rassegnazione del carcerato - Non c’è all’interno la percezione del tempo che passa (in modo particolare le donne) - Quando ti accorgi che chi è lì non è tanto diverso da te - Consapevolezza dei miei privilegi.

 

3. La percezione delle relazioni con gli agenti e gli educatori.

Nei focus di volontari si sono manifestate con maggiore forza le difficoltà di relazione:

Mancanza di comunicazione.

Difficoltà ad entrare in relazione per rigidità e paura nostra, degli agenti e delle istituzioni.

Scoperte "Facendo la volontaria non credevo di dovermi relazionare con gli agenti; ora credo di dovere avere un contatto umano anche con loro".

L’agente è visto come chi ha potere ma poca capacità a gestirlo, poca disponibilità, ma anche poco riconoscimento di ruolo da parte dell’istituzione per un lavoro che è importante e difficile.

È necessario il coinvolgimento degli agenti che devono essere più motivati, formati e qualificati per evitare che le frustrazioni che vivono tra di loro in un contesto così chiuso si ripercuotano sul carcerato creando un circolo vizioso.

 

Come è stato accolto il percorso dagli agenti

 

In genere l’interesse è stato alto e così pure la disponibilità a mettersi in gioco. Crediamo, alla luce dell’esperienza che stiamo facendo, che se ci fosse da parte degli Istituti un interesse a lavorare sulla formazione della polizia penitenziaria (soprattutto sugli aspetti "trattamentali" riconosciuti teoricamente anche agli agenti ma mai sostenuti) sarebbe possibile fare un lavoro molto importante.

Gli agenti non hanno ricevuto nessuna formazione psicosociale e il contatto quotidiano con la sofferenza e con problematiche psicologiche estremamente forti (che non sanno affrontare se non con il buon senso) li pongono in una situazione di grande difficoltà da cui derivano comportamenti che vengono giudicati incomprensibili dall’esterno. Il senso di impotenza comunque aleggia costantemente… non si può… non si riesce… è impossibile…

È in parte una difesa, rispetto ad un coinvolgimento che sarebbe molto complesso da gestire, e in parte un dato di realtà da tenere in considerazione. La gerarchia è sicuramente molto forte e la disponibilità da parte dei comandanti e dei direttori al cambiamento non è sicuramente un elemento di spicco nella cultura del mondo carcerario.

 

Il rapporto tra volontariato e Istituti penitenziari… come farli lavorare insieme

 

A nostro avviso il punto sta nella esplicitazione e condivisione degli obiettivi e nella ricerca successiva di strumenti. È necessario trovare una piattaforma, anche se di minima, su cui avviare il confronto e la successiva programmazione e attuazione degli interventi. Gli Istituti penitenziari devono ricercare il loro ruolo rispetto al trattamento (per tutte le figure) non delegando al volontariato questo ruolo. Così pure il volontariato deve riflettere sul proprio specifico che deve essere elemento di "qualità", per migliorare la realtà, ma non sostitutivo e compensatorio di carenze dell’istituzione.

 

Problemi emersi durante il corso

 

Volontari

 

Il problema più grosso che è serpeggiato nelle aule è stata la presunzione di avere lo sguardo giusto e la difficoltà di ascolto del punto di vista dell’altro che viene giocata non solo con il mondo del carcere ma anche all’interno dei vari gruppi di volontari. La forte motivazione personale che spinge il volontario a volte diventa la sua gabbia, rendendo difficoltoso aprirsi a realtà diverse e complesse.

 

Agenti

 

La sensazione di essere visti come "i cattivi", la difficoltà di individuare spazi di cambiamento e la sensazione di impotenza di fronte al "mondo dell’impossibile" che il peso della gerarchia e il senso di isolamento possono trasmettere.

 

Educatori

 

Per quanto riguarda gli educatori crediamo che il problema principale sia la esiguità del numero e la sensazione di essere un "gruppo in estinzione". Si sentono schiacciati dentro ad una organizzazione che poco li considera, che non offre loro risorse ed autonomia professionale, ma che li schiaccia dentro a routine più burocratiche che educative. Anche i volontari, che potrebbero essere la loro forza, a volte li giudicano negativamente. Le difficoltà sono relative a due aspetti: perché comunque sono portatori dei no dell’organizzazione e della sua cultura, perché altre volte si sentono schiacciati dalla mole delle proposte del volontariato che non tiene conto degli obiettivi e delle difficoltà dell’Istituto.

 

Difficoltà e punti critici nel progetto

 

Il progetto è stato molto coinvolgente e ha dato a nostro avviso molti risultati. Inizialmente, dato che eravamo consapevoli dei problemi che avrebbero potuto emergere, ci siamo dotate di strumenti utili a monitorarne costantemente l’andamento. In aula eravamo sempre in due formatori, allo scopo di osservare e cogliere tutti gli elementi emergenti e di mantenere viva l’attenzione dei partecipanti .

Il percorso che avevamo progettato era assai flessibile e ci ha quindi permesso di rimanere dentro gli obiettivi prefissati, ma allo stesso tempo di adattarci costantemente alle problematiche dei partecipanti. La metodologia è stata molto attiva, pochissimi momenti teorici strutturati, ma molti lavori d’aula che stimolassero l’esposizione di tutti i punti di vista e di tutte le situazioni critiche vissute dai tre soggetti.

L’ascolto tra i partecipanti è stato cercato e stimolato e presto ha superato le "appartenenze". Ci sono state aule che hanno risposto molto in fretta agli stimoli, altre che hanno avuto bisogno di più tempo, ma nel complesso l’ascolto è stato molto alto. È chiaro che le distanze sono ancora molte e il lavoro che si può fare è tanto. Ma si può fare! Oggi bisogna pensare a come continuare, perché solo nella continuità possiamo trovare dei risultati.

 

Perché non sono stati coinvolti i detenuti

 

È una domanda che più volte ci siamo fatti e più volte ci è stata posta. La risposta coinvolge più elementi e non ultimo anche la storia del progetto. Il punto di partenza del progetto sono stati problemi comunicativi interni all’organizzazione tra volontari, agenti ed educatori. E già ci è parsa una questione complessa da affrontare, anche perché tutta da indagare e da capire. I problemi organizzativi all’interno degli istituti penitenziari sono una sorta di tabù, sembrano non affrontabili.

"Non è possibile…" è la risposta che continuamente ci sentiamo dare appena emergono elementi che hanno a che fare con il cambiamento organizzativo. Gli Istituti penitenziari come il regno dell’impossibile! Quando in aula ci è stato posto l’interrogativo da parte di un volontario, c’è stata una risposta spontanea da parte degli operatori penitenziari che partiva dal presupposto che fosse necessario cominciare a vedersi, toccarsi, tra operatori per poi vedere e toccare anche l’altro da sé, altro che sicuramente nasconde dentro di sé aspetti non poco dolorosi.

Gli Istituti penitenziari perlopiù non hanno la consapevolezza di essere una organizzazione, non c’è una analisi di chi sono e che cosa vorrebbero essere, non sono stati né pensati, né tanto meno costruiti luoghi per pensare, non c’è un progetto, non c’è senso di appartenenza. C’è solo la sensazione di muri, di porte chiuse, di chiavi, di separazioni. Ci è sembrato necessario partire da qui anche perché il budget a disposizione era limitato e non lasciava molti margini.

E poi era possibile intervistare comandanti, direttori, operatori, volontari, ma i detenuti? Come lavorare sul punto di vista dei detenuti sull’organizzazione che li ospita e sui rapporti tra operatori che a vario titolo vi lavorano? Chi sono i detenuti oggi, di quali punti di vista sono portatori? Il tema è assai complesso, anche se sicuramente molto interessante e coinvolgente. Come Studio Egla, se fosse possibile aprire un versante di ricerca su questo campo, ci lasceremmo molto entusiasticamente coinvolgere.

Studenti che "mettono il naso" in galera

 

Un’esperienza formativa importante, che ha portato molti studenti a misurarsi direttamente con i temi della devianza e del carcere

 

Legalità, devianza e mondo giovanile è il titolo di una pubblicazione, curata dal Progetto Carcere 663 e dal Centro Sportivo Italiano e patrocinata dalla Regione Veneto, che illustra un’esperienza interessante, realizzata con gli studenti di Padova e Verona: una iniziativa di informazione e sensibilizzazione sui temi della giustizia e della pena, che ha avuto come momento centrale la somministrazione di un questionario, curato dal Professor Giuseppe Mosconi del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova e distribuito in alcune scuole superiori delle due città.

"Il questionario", spiega il professor Mosconi, "attraversa i temi dei valori nel mondo giovanile, delle interpretazioni e delle rappresentazioni del crimine e delle sue cause, dei sentimenti di insicurezza e dell’allarme sociale, dell’orientamento verso la legalità, dell’immaginario verso il carcere, delle alternative alla pena, del sostegno o meno verso punizioni estreme". Il questionario è stato somministrato, sia a Padova che a Verona, in due tornate successive, agli stessi soggetti, prima e dopo l’effettuazione di una importante esperienza formativa, avente in comune un contatto diretto degli studenti con la realtà del carcere.

Un’esperienza che a Padova ha coinvolto alcune classi dell’I.T.C. A. Gramsci, la scuola che ha una sezione distaccata proprio nella Casa di Reclusione, e a Verona ha fatto parte di un progetto più vasto, "Carcere e scuola", gestito da molti anni dal Progetto Carcere 663 e dal CSI e di grande rilevanza per il coinvolgimento massiccio degli studenti veronesi in esperienze di incontro, sportivo e ricreativo, con i detenuti del carcere veronese.

 

La Redazione

Il tema del carcere nell’educazione ai diritti umani

 

di Patrizia Cibin - Insegnante di Diritto I.T.C. A. Gramsci di Padova

 

I problemi dell’amministrazione della giustizia e delle istituzioni carcerarie hanno registrato negli ultimi anni, in Italia, un incremento di interesse, a causa di una molteplicità di elementi: singole vicende giudiziarie di notevole rilevanza; il lavoro di informazione verso l’esterno operato dagli stessi detenuti nelle carceri italiane; la presa d’atto delle istituzioni di governo che il sistema carcerario si stia avvicinando ai limiti della sostenibilità; l’opera di sensibilizzazione delle organizzazioni di volontariato e delle autorità religiose.

Il tema, dunque, é divenuto "di attualità", inducendo curiosità e dibattito anche tra insegnanti e studenti delle scuole. Nella nostra scuola, l’I.T.C. A. Gramsci, il rapporto con la Casa di Reclusione "Due Palazzi" di Padova - iniziato spontaneamente mediante il volontariato di colleghi che aiutavano alcuni detenuti a preparare gli esami di Stato e la collaborazione tra la biblioteca dell’Istituto e quella del carcere per la predisposizione di rassegne-stampa - é divenuto organico e istituzionale dall’anno scolastico 98-99: l’ITC "Gramsci" ha infatti attivato una sezione distaccata in carcere che sta regolarmente procedendo ed é giunta, attualmente, alla quinta classe.

In un gruppetto di insegnanti, decidemmo, così, di "accompagnare" l’avvio della scuola in carcere con un percorso di consapevolezza che coinvolgesse un significativo numero di studenti dell’Istituto.

Gli studenti accolsero la proposta con entusiasmo: l’impatto simbolico del carcere è forte nei giovani; libertà é prima di tutto, per loro, assenza di quella costrizione fisica che il carcere rappresenta automaticamente.

I nostri allievi, attenti al tema carcere nelle sue manifestazioni mediatiche, in realtà, del carcere sapevano poco, in particolare del carcere a loro vicino. La prospettiva di entrare in contatto con quella realtà risultò quindi stimolante.

È nato così un percorso multidisciplinare sul tema "Il carcere nell’educazione ai Diritti Umani", progettato da alcuni insegnanti del Gramsci nell’ambito del corso di aggiornamento "Per una cittadinanza responsabile", organizzato dall’Associazione "Diritti Umani, sviluppo sostenibile" di Padova. Il percorso era rivolto a 3 classi quinte e ad 1 classe quarta (totale 86 studenti) scelte sulla base della disponibilità di alcuni docenti dei rispettivi consigli di classe a lavorare ad un approfondimento sul tema dei diritti civili.

È naturalmente scontato che, per gli studenti, i momenti più interessanti siano risultati quelli diversi dalla lezione frontale in classe, le esperienze che hanno rappresentato momenti di confronto diretto con la realtà cui ci si voleva avvicinare: la visione del film "Mary per sempre" seguita dal dibattito ma, soprattutto, la visita in carcere (che poi é stata realizzata soltanto per due classi: non è facile entrare in carcere; il permesso viene difficilmente concesso ai minorenni - ciò che ha escluso la classe quarta) e la Tavola Rotonda a scuola.

 

La visita in carcere

 

Ho accompagnato in carcere due classi. Per la prima visita l’occasione é stata una trasmissione radio, in diretta dal Due Palazzi, sul tema dell’affettività in carcere. Erano i giorni in cui era in discussione la presentazione di una proposta di legge che prevedesse, per i detenuti, la possibilità di incontri riservati con i familiari. Ci preparammo leggendo insieme, a scuola, articoli tratti dai giornali e dalla rivista Ristretti Orizzonti, a cura degli stessi detenuti del carcere.

Come é intuibile, già nelle mattinate in classe erano emersi i due partiti: di chi sosteneva con sicurezza che il significato punitivo della reclusione stia proprio nella separazione dagli affetti e di chi invece riteneva che la pena detentiva non debba implicare un "di più" di sofferenza, soprattutto psicologica, inflitta, in particolare, anche ai familiari incolpevoli. Nel dibattito in carcere, cui partecipavano molti detenuti, le diverse posizioni furono presentate con sincerità: nessuno si sentì in diritto di manifestare con superiorità le proprie opinioni e il confronto si svolse con correttezza.

L’occasione della seconda visita fu una partita di calcetto organizzata dall’insegnante di educazione fisica dell’Istituto, che seguiva anche le classi del carcere.

La circostanza era meno seria, anzi, ludica addirittura, ma, malgrado la "leggerezza" della situazione, la partita divenne ugualmente un’occasione di riflessione per i nostri ragazzi, che si interrogarono in seguito sulla propria adeguatezza a far fronte a situazioni e interlocutori non ordinari.

 

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