Spazio libero

 

Riflessioni notturne in cella

 

Mi appoggio sui bordi metallici della finestra della cella ed osservo l’acqua piovana fluire con cadenza che pare inarrestabile. È mezzanotte e luci pallide filtrano dai cespugli che si stagliano all’orizzonte restituendomi un po’ di quel mistero, forse falso, di vitalità che pare venire da fuori e contrapporsi allo scenario di malinconica quiete che c’è qui dentro.

I pensieri più disparati si alternano nella mente e formano una strana alchimia cerebrale: avvertendo profondo il disagio della solitudine, inizio paradossalmente a dialogare con gli oggetti e a dar loro un nome, quasi volessi animarli, interrogarli, usarli.

In prigione, spesso, scattano strani meccanismi e senza accorgertene ti trovi a tu per tu con una realtà lontana dal tuo mondo. Due microcosmi, il tuo e quello del carcere, separati l’uno dall’altro, per una pluralità di motivi che tendono a sfilacciarsi anziché a congiungersi. Nei frangenti in cui più acuta è la separazione ci si sente come brandelli dai quali si riflettono sensazioni sconosciute, estranee, ambivalenti. In tali occasioni una sola, pesante sensazione modella lo spirito: la vuota, passiva inconcludenza.

Si ridiventa bambini senza tuttavia avere la loro spontaneità e ci si immerge in un senso di fallimento di uomini smarriti in un’ansia esistenziale che fa più male di qualunque dolore fisico. Superando la morsa dell’angoscia, decido allora di immettermi nella voglia inconscia di... percepire la voce del silenzio.

Che silenzio! Non lo ricordavo così intenso, così vivo, drammatico, eppure così personale, affascinante, liberatorio: intraducibili brividi mi entrano dentro le ossa fin quando una voce muta mi chiama dolcemente, ammaliandomi. È il silenzio che m’irretisce, che si rivolge a me, che si dona unicamente a me. È lui, il silenzio, che mi dice: "Dai alla fantasia le sembianze del sogno e ti accorgerai che, anche fra le scansioni monotone del tuo anonimo quotidiano, potrai trovare la molecola della serenità. Nessuno è davvero all’altezza dei propri grandi progetti e dunque il segreto di tutto è racchiuso e riconoscibile nelle "minimità" e spetta soltanto a te trasformare anche le cose piccole, insignificanti, in nutrimento per l’anima".

"Eh no" - lo interrompo io Come posso convivere senza rabbiosa amarezza con una condizione ingiusta, quando i presupposti che l’hanno determinata sono scaturiti da una menzogna insopportabile?"

"Purtroppo, se per te la giustizia si è dileguata per strade che il caso ha sbarrato, non c’ è altro da fare che accettare il verdetto di un destino poco generoso".

"Ma come?" lo incalzo io.

"Come un artista, cioè come colui che sa anche giocare con la propria esistenza, senza tuttavia necessariamente rinunciare a se stesso. Quanto oggi ti manca verrà ricompensato domani, e poi forse è vero che soltanto chi conosce la grande sofferenza può apprezzare anche la gioia più piccola".

"Balle, balle, sono solo balle e non è per nulla vero che la sofferenza rafforzi e abbellisca l’anima, al contrario, quando, soprattutto, la sofferenza è immeritata risulta fine a se stessa e va contro le più elementari regole umane, e dunque offende chi la subisce e lo rende misero e miserabile.

E poi, troppo spesso il domani non è così equo come dovrebbe, né si può cambiare la "fisicità" del tempo presente, e il mio, sciaguratamente, è un presente impresentabile".

" Ma no! Di fronte a quello che appare irrimediabile, che sembra privo di speranza, non rimane, per assurdo, che attaccarsi alla possibilità di sperare, con la certezza che bagliori improvvisi possono essere dietro l’angolo, noi non li scorgiamo solo perché non li sappiamo più vedere.

Per non diventare il capro espiatorio di noi stessi, non dobbiamo soffrire di malattie che non abbiamo, altrimenti finiamo per non accettare le nostre, quelle vere che ci ritroviamo addosso".

"Forse sono un po’ confuso, ma tu, tu signor silenzio che la sai lunga, insegnami ad accogliere il niente, scusa volevo dire il poco, come fosse un simbolo forte di vera comunicazione".

"Vedi, vedi, il solo fatto che tu mi chiedi quello che in te già esiste significa che la scintilla del divenire è in movimento. Perché tu sai che il carcere, da solo, non fa morire, si muore se si perde il desiderio di conoscenza, il senso di fluidità delle cose, la capacità di meravigliarsi e l’emozione del vivere".

"L’emozione? In realtà ogni uomo attinge le proprie pulsioni emotive da quello che nell’immediatezza sente, e tutto ciò che è staccato da lui, che non tocca i suoi sensi, lo percepisce a fatica, solo per approssimazione".

"Ma proprio tra le infinite capacità del pensiero c’è quella di raggiungere la perfezione concettuale, ricorrendo al messaggio dell’immaginazione, usando la libertà che solo il pensiero ha. Spetta pertanto a noi, a te, dare legittimità e prova di tutto questo, perché se il pensiero viene sostenuto almeno da un sussurro, da un soffio di voglia di vita, saprà ampliarsi nella creatività e nei sentimenti. Diversamente il carcere diventa quel limbo angoscioso dove vittime e aguzzini si contendono gli spazi nel più crudele dei giochi, dove tutti si scoprono innaturalmente prigionieri l’uno dell’altro, in una assurda contesa tra poveri".

"Ho capito, ho capito! Non devo far assopire quanto di buono e di bello ci può essere in me, perché ogni giorno che manco di vivere al meglio del mio potenziale io mortifico tutti gli eroi e i poeti che abitano dentro di me. Ciao signor silenzio, perché te ne vai proprio adesso?".

Eppure non mi sento più solo, solo come prima, adesso mi sento leggero, arricchito da qualcosa di piccolo, di appena percettibile. In questo luogo, dove ogni cosa si riduce all’essenziale, non si può fingere, qui il cuore viene messo a nudo perché le idee, le parole e i comportamenti si spogliano dalle maschere del formalismo. Il senso della solidarietà per i più deboli si sublima in un sentimento che non si manifesta alla superficie delle cose, ma invisibilmente avvolge quella superficie nella sua interezza. Forse tutto ciò può rappresentare un modo per sopravvivere, forse anche un’egoistica gratificazione per non sentirsi completamente inutili, forse ancora il tentativo di non isolarsi più di quanto non si è. Però l’amicizia solidale che aleggia da queste parti è una forma, forse ibrida, ma certo profonda di amore, che trasforma la nostra permanenza qui rivelandoci quello che siamo davvero.

Così reinventando, dissacrando un nostro pezzo di esistenza e qualche volta rendendoci migliori. Più di altrove, qui l’amicizia può apparire come un’arte non classificabile, con tutto il suo articolato equilibrio di confessioni, di riserbo, di ritegno e di responsabilità, e al riparo dal caos e dal rumore del mondo esterno la mettiamo continuamente alla prova ascoltando i problemi degli altri, nella ricerca consolatoria di aiuto reciproco, nell’offerta di attenzione. È vero allora che in carcere fra le vocalità, le gestualità, nelle mediocrità apparenti del mondo quotidiano possono scintillare le cose e con loro i sentimenti. Ma anche per chi sta fuori, la stessa ricchezza materiale che valore potrebbe avere, quale senso hanno una bella casa, un vestito nuovo, una ragazza al fianco, la stessa fisica libertà, se l’anima non si commuove?

Un’ultima considerazione: siccome il dolore ha memoria e intelligenza più marcata rispetto all’allegria, non sapendosi facilmente sottrarre al risucchio degli anni, ogni detenuto dovrebbe sforzarsi di considerare il periodo di reclusione come un tempo di allenamento dello spirito, perché altrimenti il domani lo potrebbe trovare con un cuore, più che inaridito, del tutto inanimato.

 

(Questo testo ci è stato mandato da un detenuto di Cuneo)

 

 

Le speranze e i conti di ogni anno che passa

 

Il 1998 è dunque arrivato da un pezzo, così puntuale ed inesorabile che "aquila nera" (leggi "Ufficiale Giudiziario") al confronto è lo smemorato di Collegno. Ogni anno che inizia suscita speranze e timori: ciascuno ha da porsi interrogativi vitali sul suo futuro. Avrò finalmente un permesso - premio?

Uscirà il condono o mi arriverà qualche altra condanna definitiva? Cambieranno di cella questo compagno, che russa come una sega a motore? Speriamo non me ne mettano uno che russa come un’intera segheria!

Andrò anch’io in Europa al seguito dell’Italia, o mi dimenticheranno indietro? Toglieranno dal vitto le cime di rapa, con i cui gambi ci si potrebbe impiccare tanto sono coriacei? Fin qui rimaniamo nell’imponderabile e, come gli antichi, ci affidiamo al fato pregando che sia benevolo. Tuttavia ogni anno che passa scatena anche una serie di calcoli matematici che ci fa somigliare a tanti professori di inarrivabile zelo: "Dagli anni della condanna sottraggo quelli già scontati, più gli sconti di pena per la buona condotta: questo mi porta vicino ai termini per chiedere i benefici... se non fosse per il "4bis" (leggi trattamento speciale) che mi hanno appioppato!... Però se arrivano un paio di anni di amnistia... però se ottengo la "continuazione" sui reati (leggi: diminuzione, anche sostanziosa, della condanna)... però...però ...però...

Naturalmente ci sono anche i calcoli venali: ce la faccio ad arrivare a fine mese con i soldi che ho sul libretto... cominciamo a suddividerli tra le settimane che mancano... poi divido il "budget" tra le varie voci di spesa e mi accorgo che le cifre sono sempre più striminzite: ma da quanti mesi non mi assegnano un lavoro?!? E così ci guadagniamo il diploma in economia domestica.

Infine ci sono i conti che chiamo "nostalgici": quanti anni compiono, nel 1998, i miei genitori, mia moglie, I nostri figli? Ed io? Tra un anno avremo risposte sicure a tutte le domande oggi imponderabili, mentre, riguardo ai conti, ne staremo facendo di nuovi... anche se molto simili a quelli di quest’anno.

 

Francesco Morelli

 

Nascosti dal sipario 

 

Sipario alzati! Ed eccoci sulla scena di questo teatro, che dà vita alle nostre emozioni e sensazioni, sotto l’occhio attento e capace del regista e della scenografa, Michele e Pierangela Sambin. È davvero da lodare la loro iniziativa, appoggiata dal personale penitenziario, piena di buona volontà e di professionalità, che loro manifestano con il tentativo di estrarre dal più profondo di noi le emozioni e sensazioni più belle.

In una condizione di reclusione come è la nostra, è difficile essere se stessi nel senso positivo della cosa, per ovvi motivi. Lo stress, le preoccupazioni per il futuro ci distolgono dalla ricerca interiore. Non intendo però, con questa affermazione, generalizzare, c’è chi anche in assenza della famiglia, degli amici, della natura può riuscire a farlo, certo con meno stimoli esterni, che sono importanti.

Ma per intraprendere il mestiere dell’attore, questa ricerca è fondamentale, come d’altra parte lo è in tanti aspetti della vita. Molti chiederanno: ma come, un attore non è colui che appare, mettendosi in mostra e impersonandosi nel personaggio che deve interpretare?!

È vero, nella grande storia del teatro gli attori mimavano, cantavano, ballavano, e la testimonianza ci viene data dalla tragedia greca, dalla commedia dell’arte, da Shakespeare, Molière, Beckett, Brecht ed altri.

Ma come recitare, cantare, ballare se non scavando dentro di se, al fine di poter recepire, analizzare e poi esprimere, ad esempio, la gioia, la tristezza, l’amore, la rabbia, insomma cose vissute e provate. In effetti scienze come la psicoanalisi e la psicologia, studiando il comportamento gestuale, parlato e comprendendone il significato, tentano, terapeuticamente parlando, di far parlare ed esprimere il nostro ego, al fine di curare depressioni, ansie, nella più parte dei casi dovute a blocchi psicologici, che se non affrontati diventano veri malesseri. Penso dunque che il teatro, se fatto con impegno, possa aiutare molti e rappresentare nello stesso tempo una bellissima espressione di arte e di cultura.

 

Patrizio Riposati

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